venerdì 25 novembre 2016

Che fine ha fatto il pugilato

Bisogna arrampicarsi fino a Santa Maria degli Angeli, quattro chilometri da Assisi, per vedere cos'è stato il pugilato e cosa non sarà mai più. A febbraio nascerà qui il suo museo, nell’ex area Montedison riqualificata. Una teca con la medaglia olimpica di Nino Benvenuti, una per la cintura mondiale di Gianfranco Rosi, un archivio di trentottomila fotografie. Ma la casa che deve celebrare i cent'anni di vita della federazione, ora rischia di diventare il simbolo di un corpo privo di respiro. Vuole essere memoria e assomiglia a un testamento. La quinta potenza di sempre sui ring dei Giochi - dietro Usa, Cuba, Gran Bretagna e Russia - ha vinto un solo oro dal 1992 e da Rio è tornata senza neanche una medaglia, come non succedeva da vent’anni, chiudendo il cerchio di questo disperato 2016 senza avere un campione mondiale tra i professionisti. Giovanni De Carolis, l’ultimo rimasto, la settimana scorsa ha lasciato il titolo dei medi in Germania, a Tyron Zeuge. La gloria è finita, andate in pace.

domenica 13 novembre 2016

Il mare di Enzo Maiorca


Mare ora inquieto ora cheto, ora torbido. Onde tra il limaccioso e il pastello. Flutti di mare negli occhi. Colori cangianti, che giocano a nascondino come le emozioni. Il mare come amore, il mare come ossessione. La passione tra l'acqua ed Enzo Maiorca, 69 anni, 28 volte recordman di apnea, è antica.
«A due anni a causa della mia salute cagionevole miei genitori andarono a vivere in riva al mare, a Grottasanta, 3 chilometri da Siracusa. Il primo ricordo che ho della mia vita è una distesa di acqua delineata dal contorno delle finestre che si affacciavano tutte sul mare. Le onde sbattevano negli infissi e lasciavano sui vetri scaglie di sale che si animavano con la luce. Quando tornava il sereno mi abbagliavo con tutto quel luccichio. Vedevo cento soli, cento lune, migliaia di stelle, tanti arcobaleni. E fantasticavo su cosa ci fosse al di là dell'orizzonte dell'acqua, dentro le onde». Maiorca parla con una voce da tenorino, flebile, delicata. E dire che ha polmoni infiniti, capaci di resistere senz'aria per sette minuti abbracciato agli oceani, e il coraggio di sfidare l'ignoto degli abissi e l'ignoto dentro il suo cuore.

sabato 12 novembre 2016

Fatelo voi, l'allenatore


Quando Vialli si alzò dalla panchina all'ultima giornata, battuto per 3-2 dal Gillingham, in cuor suo sapeva già come sarebbe andata a finire. Elton John non era più presidente del Watford da diciotto giorni e quelli dopo di lui gli avrebbero fatto pagare le diciannove partite perse in un anno. Contratto risolto. I giornali italiani scrissero che gli offriva un posto la Reggina. Vialli rispose come Bartleby lo scrivano, preferisco di no, sono passati quattordici anni e il momento giusto non è tornato ancora. Si sta più comodi sulla sedia che nel frattempo gli ha dato Sky: undici allenatori di serie A su venti guadagnano meno di lui e non c'è sconfitta che possa fargli del male.

giovedì 13 ottobre 2016

Un salone così grande


La prima volta che misi piede in casa sua, il professor Borraccia aveva lasciato sul fondo di una ceneriera scorie di sigarette, saranno state almeno una dozzina. Pareva si fosse divertito a sminuzzare in residui di polvere il suo vizio e a tenerlo parcheggiato chissà da quante ore di proposito laggiù, a una profondità da cui esalava per noialtri un castigo senza scrupoli. La seconda volta al fumo pareva essersi concesso perfino più generoso, e dalla terza in poi non ne parliamo. Non si trattava di amnesia, questo mi fu presto chiaro: era una cattiva abitudine. Lui accumulava rimasugli puzzolenti, a me toccava invece liquidarli. Non c’era nulla che mi desse più fastidio. In quell’appartamento di via Labicana avrebbero potuto chiedermi di strigliare il pavimento in marmo fino a spaccarmi la schiena, di stirare una giogaia di camicie, di preparare la cena per un corpo d’armata, di dare acqua alla Brighamia insignis e all’Adenium Obesium, di lustrare vetri e tapparelle due volte a settimana - questo e altro avrebbero potuto chiedermi, e io non avrei detto niente. Tutto compensava la vista dal terrazzo, il parco del colle Oppio e oltre lo sguardo l’ombra del Colosseo; all’orizzonte opposto il campanile di santa Maria maggiore, settantacinque metri ficcati nel cielo di Roma come la lancia nel costato di Cristo. Tutto accettavo e avrei accettato, tranne mettere le mani in quella montagna di cenere accumulata senza un perché, al chiuso di un salone.

sabato 20 agosto 2016

L'ossessione di Mourinho per Guardiola (e viceversa)


Lui è il capodoglio bianco, l’inseguito, quello che si sottrae. Lui cerca l’equilibrio, sfugge la schiuma, gelido, mai trabocca. Il Buono della storia è questo uomo senza più capelli. Gli ultimi li ha persi per lo stress di una navigazione col vento in faccia, il vento che gli gettava addosso Quello Lì. Chiamatemi Pep: ogni verità è un abisso. Guardiola è uomo di spazi e di linee, panorami e prospettive. È uomo di confini da spostare e mappe da riscrivere. Il silenzio attorno gli è indispensabile. La bava e la spuma che l’altro agita, sono effervescenze da cui scappare. Tutto è curato dentro il suo mondo, tutto è placido e pacato. Anche la barba sfatta ha una sua armonia. Il look racconta la vocazione alla misura. I maglioncini dal collo a V di colore rosso o grigio. La mano che si accarezza il mento. Una bottiglietta d’acqua sempre con sé, in panchina o nel fine partita, perché sorseggiare aiuta a prendere tempo.

domenica 14 agosto 2016

Mónica Puig e le lacrime per Porto Rico

La terra dove son nato è un florido giardino. È la figlia del mare e del sole. È la figlia del mare e del sole. Il signor José Puig ieri mattina ha aperto la mail e ha scritto le parole dell'inno nazionale a sua figlia Mónica, nel dubbio che lei non le ricordasse. Nessun portoricano le aveva mai cantate su un podio olimpico e non le ha cantate nemmeno Mónica, perché il primo oro della storia non l'ha mai fatta smettere di singhiozzare.
Mónica non era fra le prime cento giocatrici al mondo a inizio anno e in vita sua aveva battuto solo una delle prime dieci. Non ha mai vinto uno Slam e neppure si è mai avvicinata: zero finali, zero semifinali, zero quarti di finale.

giovedì 11 agosto 2016

I centesimi di Federica Pellegrini

Provate a dire a voce alta la parola "cinquemila".
Cinquemila.
È passato un secondo.
Prendete questa briciola di tempo e dividetela a metà. È lo spazio che passa tra la Federica Pellegrini di Rio e quella che avremmo voluto vedere: la Federica di giugno che al Sette Colli di Roma aveva nuotato 200 metri da medaglia olimpica.

domenica 7 agosto 2016

Good morning, sport del Vietnam

Ha ragione il colonnello Hoang Xuan Vinh a non voler più sentir parlare di guerra, di Francis Ford Coppola e Michael Cimino. Non adesso che è in cima a un podio olimpico. La guerra di casa sua era la linea d'ombra della dignità umana. La parola Vietnam non pareva compatibile con l'idea di sport.

Essere in Vietnam significava dover smettere. Succedeva agli americani, successe a Rocky Bleier, running back dei Pittsburgh Steelers arruolato dopo una stagione da matricola, ferito a una gamba, giudicato dai medici inadatto a un ritorno al football, e poi però quattro volte vincitore del Super Bowl. Bob Kalsu, attaccante e miglior rookie 1968 dei Buffalo Bills morì da primo tenente a Thua Thien.

giovedì 4 agosto 2016

Cosa succede al Brasile nel calcio

Il nome è lo stesso, la maglia non è cambiata, ma dire Brasile oggi significa parlare di un guscio vuoto, di uno scrigno pieno di niente. I re del pallone non sanno più giocare. Divertivano e vincevano, ora perdono e sono pure noiosi. Sono nel calcio quasi da estranei, respinti, sono gli antichi coloni cacciati dalla terra conquistata. Non solo hanno smesso di incantare e regalare stupore. Hanno smesso finanche di produrre normalità. È come svegliarsi una mattina in Svizzera e scoprire che hanno chiuso le fabbriche di cioccolata.

lunedì 1 agosto 2016

Loretta Goggi e il diario di una sola pagina

Lo sguardo obliquo di due Telegatti da una mensola. Cappelli, libri, foto alle pareti. Loretta Goggi si china su un tavolino al centro del suo studio ai Parioli e fruga nella collezione di copertine. «Playboy devo averlo a casa. È del 1979. Non nacque per caso. Non andai a propormi, ma quando chiamarono non rifiutai. Alcuni amici erano impazziti per un numero dedicato in precedenza a Nastassja Kinski. Fu una specie di sfida. Volevo dimostrare che potevo starci anch’io, pur senza l’immagine della “bona”. Ero appena tornata dal mare, la facemmo con un tanga e dei veli: i patti con la redazione erano questi. Non sono mai stata una che ammicca al mistero. Se mi frequenti, dopo un mese di me sai tutto. Non ero la ragazza della porta accanto, casomai ero la
signora del piano di sopra».

domenica 31 luglio 2016

L'assassinio di un immortale

Molti papà dei commissari che affollano le librerie sentono di avere un linguaggio comune: il noir europeo è un gigantesco circolo dai tratti collettivi. E poi c'è Petros Markaris, ottant'anni il prossimo Capodanno, capace di far convivere dentro le stesse pagine un prete ortodosso, Adolf Hitler e la sua creatura più celebre, l'investigatore Kostas Charitos. L'ultimo libro pubblicato in Italia dallo scrittore turco di nascita, armeno per parte di padre e greco d'adozione — la raccolta di racconti L'assassinio di un immortale (La Nave di Teseo) — ne conferma l'unicità. Traduttore di Goethe e Brecht, Markaris è un collettore di frammenti, ma dentro le schegge di realtà che assembla c'è un'offerta di verità, un'ipotesi.

giovedì 14 luglio 2016

Il Ventoux e lo strano fuoco nel petto

IL TOUR de France aggredisce, oggi, il Ventoux, un Moloch, secondo la leggenda, che accompagna la più grande corsa ciclistica del mondo, a cui bisogna sacrificare. Il Ventoux è una montagna calva, affetta da seborrea secca. Lo vedi dalla bassa Provenza. Millenovecento metri di un verde che stinge, impallidisce, si spegne. Verso il culmine il Ventoux imbianca. Da lontano, un monte di sale. Il "mistral" batte il "ventoso". Il ricordo scolastico, arioso del Petrarca - che soggiornando ad Avignone sale sul Ventoux, a maggio quando le pietre restituiscono il tepore del sole del mezzodì - si liquefa, scompare, nella calura di luglio, nel corso del Tour. Il Ventoux è rimasto per il Tour il dio del male dell'antica Provenza. Il suo clima è assoluto. Gli uomini da classifica lo pedalano con il fiato che si rompe in gola, alle prese con un rapporto (la marcia ciclistica) che incarognisce la ruota dentata, che la trasforma in uno strumento di tortura [1]

giovedì 7 luglio 2016

Il calcio e l'omofobia: dov'è il "respect" Uefa?

scarpe
SEEDORF e Benzema si sfilano la maglia scoprendo volti e colori differenti, i bambini corrono, Collina sorride. Belli gli spot del calcio pulito. Ma nella Francia degli Europei è stato l’anno nero del rispetto, anche durante il torneo. Razzismo, sessismo, omofobia. Sotto il manto dello slogan Uefa (“Respect”), si sono nascoste ipocrisie e omissioni. Ha iniziato Christian Estrosi, sindaco di centrodestra a Nizza, minacciando di tagliare i sussidi ai club dei calciatori musulmani che fossero stati visti a pregare sui campi di calcio municipali: «Io difendo solo i principi del nostro secolarismo». A sua volta, il dirigente regionale della federcalcio Eric Borghini denunziava che alcuni arbitri di religione musulmana rifiutano di stringere la mano alle calciatrici. Pochi giorni prima, una partita del campionato Under 17 era finita in rissa a Jarnac, sud-ovest della Francia, la città natale di François Mitterand, per un pugno partito da un giocatore della Isle-d’Espagnac. Fuggi fuggi, spogliatoi assediati e la denuncia dei genitori dei ragazzi per razzismo (“neri” e “arabi”).

martedì 5 luglio 2016

La Treccani e l'irriducibile Stielike

LILLE. I baffi, il ghigno, il tackle. Uli Stielike era il Cattivo. Era il Lee Van Cleef del calcio. Brera lo chiamò "truculento" e "cinico". Noi avevamo l'eleganza di Scirea, i tedeschi il più duro dei liberi. La Treccani gli ha dedicato una voce in cui viene definito "tenace e irriducibile". Troppo poco. Trent'anni fa Uli Stielike era la nostra idea del Male, perché se vedeva un pallone e una gamba prendeva pallone e gamba, ma soprattutto perché giocava dall'altra parte. A 61 anni è il ct della Sud Corea. Ha più vinto che perso, ma quel che ha perso dice di non ricordarlo più. Ha rimosso. "Non ho mai avuto l'abitudine di collezionare cattivi ricordi. Cerco di cancellarli".


Ha cancellato pure quello che in Germania chiamano Italien-Trauma?
"Trauma? Quale trauma? Ho perso una finale mondiale con l'Italia ma non ho mai smesso di dormire bene. Una delle prime cose che mi hanno insegnato da ragazzino: nel calcio si vince e si perde. La digestione di un successo e di una sconfitta deve essere parte dell'educazione sportiva delle persone. Per noi poi fa parte del lavoro. I traumi sono un'altra cosa".

L'estate speciale di Mel e del gallese che doveva sposarsi

foto tratta dal sito di April Court Care

Melvyn detto Mel aveva messo in conto la solita estate, una frazione di vita incastrata fra la solita primavera e il solito autunno. Il pomeriggio che non passa mai, ogni tanto il rumore lontano di una macchina in parcheggio, il profumo della merenda che si avvicina: funziona meglio di un orologio, passa sempre alla stessa ora. Mezza frittella di domenica. La temperatura di 23 gradi nella stanza. Un po' d'aria in giardino. Le panchine fra i cespugli. I deambulatori, le microcar, le sedie a rotelle elettriche. La vita di un ottantunenne in una casa di riposo non prevede sorprese.
St. Helen's Road affaccia sulla baia di Swansea. È la strada dei ristoranti etnici. Al Garuda si mangia indonesiano, al Reyhan cucina mediorientale, all’Istanbul dice tutto il nome. Pizza Hut consegna a domicilio, Didier&Stephane servono piatti francesi. La April Court Care Home è piantata lì in mezzo, al civico 141. Dall'altra parte della strada c'è la vetrata del Viceroy, piatti indiani e del Bangladesh. È questo il mondo oltre la finestra di Melvyn detto Mel, l'uomo che un giorno ha acceso il televisore ed è finito dentro un'estate speciale.

lunedì 4 luglio 2016

Il paradiso del Galles


LILLE. DUE RAGAZZI che giocano in serie B hanno steso le stelle del Belgio che giocano la Champions, i numeri due del ranking Fifa, i favoriti in Francia. La media borghesia ha sfondato le porte del palazzo reale. Il calcio cambia. Aspettando l'Islanda domani, il timbro sulla sentenza lo mette il piccolo Galles, stessi abitanti di Roma e paese calcisticamente bizzarro. Ha un giocatore da 100 milioni e un campionato riconosciuto dall'Uefa solo da una ventina d'anni, ma sei delle sue squadre hanno rifiutato di prendervi parte, preferendo entrare nel sistema inglese, con lo Swansea di Guidolin in Premier e il Cardiff in serie B. Eppure il Galles porta la sua Nazionale fra le prime quattro d'Europa, alla prima partecipazione. S'era spinto solo una volta fra le prime otto al mondo, a fine anni Cinquanta, quando in attacco i gol li firmava John Charles, il gigante buono, seminatore di meraviglia anche con la maglia della Juventus in serie A. Quella squadra si era fermata ai quarti di finale in Svezia nel '58 davanti al Brasile perché prese il primo gol segnato sulla scena internazionale da un diciassettenne che al portiere Kelsey parve "un diavolo venuto dall'inferno". Stop di petto con le spalle alla porta, giravolta, dribbling volante e tocco di punta in porta. Si chiamava Pelé. Che stavolta dall'altra parte non c'era. Nemmeno in sedicesimo.

domenica 3 luglio 2016

La marcia su Lille

È MEZZ'ORA di viaggio. Arrivano treni da Bruxelles e scaricano mucchi di uomini e bandiere. Una ventina fermano alla nuova stazione Europe, nella parte post industriale della città – torri, gallerie, tutto di quel bianco così caro a certe archistar - un'altra decina di TGV alla stazione antica, la Flandres, ricostruita pezzo per pezzo con i mattoni metà ‘800 della Gare Nord di Parigi. È come se a Lille il Belgio giocasse in casa, sono qui in ventimila per la partita che può riportare la Nazionale dov'era una trentina d'anni fa, quando andava in finale agli Europei ('80) e in semifinale ai Mondiali ('86), e poiché le stazioni ferroviarie non sono controllate quanto gli aeroporti, un po' di apprensione in prefettura non riescono a nasconderla, dopo gli allarmi anti-terrorismo per le ultime partite a Bruxelles. Altra ansia s'aggiunge perché i tifosi andranno in marcia allo stadio da rue de Cambrai, il quartiere della vita universitaria. La polizia non sa dire quanti saranno.

sabato 2 luglio 2016

Briegel e il pericoloso contropiede


HANS-PETER Briegel parla ancora un magnifico italiano. Le erre al telefono vibrano. «I riccioli biondi sono diventati bianchi». È stato negli anni '80 l'incarnazione del prototipo del calciatore tedesco. Potenza, esplosività, resistenza. Da ragazzo aveva lanciato il giavellotto e saltato 7 metri e 50 in lungo. È tornato a vivere a 61 anni nella sua Kaiserslautern dopo essere stato trascinato dal calcio in Turchia, in Albania, in Bahrein. «Ho appena incontrato i dirigenti del club per capire se posso dare una mano a riportare la squadra in Bundesliga. Non è da noi la serie B». In B come il Verona, a cui nel 1984 s'aggregò per farne una squadra da scudetto. Due anni prima aveva perso la finale mondiale con gli azzurri in Spagna, a Roma era stato campione d'Europa nel 1980. «Era il campionato più bello del mondo. Solo due stranieri per squadra ma c'erano i migliori. Maradona, Zico, Rummenigge. È cambiato tutto. Solo Italia-Germania non cambia mai».

Italia-Germania fa diventare adulti

LILLE. Avevano vinto dal divano Italia-Germania del '70 mentre sognavano un paese migliore, e vent'anni dopo si sentivano sconfitti. La partita del Messico divenne nel '90 il pretesto per la trama di un film con la regia di Andrea Barzini: un gruppo di amici si ritrova per vedere in tv la replica della semifinale; la rimpatriata diventerà un confronto amaro. Quel 4-3 raccontava i sogni bruciati di una generazione. Giuseppe Cederna, scrittore di viaggio, attore per Bellocchio, Scola e i Taviani, Oscar per "Mediterraneo" con Salvatores, era nel cast insieme a Fabrizio Bentivoglio, Nancy Brilli e Massimo Ghini. "Quella partita", dice, "aveva in sé la forza per raccontare un percorso di iniziazione. In molti dei miei film, il calcio è parte di un rito d'amicizia. Interviene nelle storie personali della gente".

venerdì 1 luglio 2016

Netzer, il tedesco diverso

È STATO il primo tedesco oltre gli schemi, fuori e dentro il campo. Girava in Ferrari, era proprietario di una discoteca, concedeva ai compagni l'onore di correre al posto suo. Portava i capelli lunghi come un olandese e il 10 dietro la maglia quando la Germania vinse il primo Europeo nel ‘72. Guenter Netzer era il raggio di Moenchengladbach dentro il blocco del Bayern. «Ma in Nazionale scoprii che Beckenbauer guadagnava più di me». Così diverso da diventare il primo tedesco nella storia del Real. «Italia- Germania», dice ora a 72 anni, «è una partita che il calcio non si stancherà mai di guardare».

giovedì 30 giugno 2016

La Germania e la promozione del talento

Draxler e Goetze

QUELLI con la maglia bianca. Forse ci siamo visti già. Dov'era: Messico, Madrid, Dortmund, Varsavia? Rivera aggrappato al palo, Pablito che spunta dalla polvere, Pirlo che di tacco trova Grosso. La pipa di Pertini e i muscoli di Balotelli. Si sa come sono fatti. Li conosciamo. Ci conoscono. Noi estrosi, loro assennati. Noi l'ingegno, loro la saggezza. Noi la follia, loro l'equilibrio. Li abbiamo spesso battuti con la creatività, sabato andiamo a Bordeaux per capire se Conte saprà farlo con una mano diversa di carte. Quelli con la maglia bianca ora sembrano i latini, più latini di quest'Italia che gioca su organizzazione, corsa, efficienza.

L'anno del dis-possesso palla


ECCOLO, il terzo indizio. Si chiama Islanda. Se dunque Agatha Christie fosse ancora fra noi a occuparsi di pallone, adesso solleverebbe un dito convinta di avere le prove. Il possesso palla è stato ucciso, l'assassino è il contropiede, 2016 anni dopo Cristo e 45 dopo Guardiola. Gli Europei di Francia confermano i sospetti nati in Inghilterra con il Leicester e in Champions con l'Atletico. Lars Lagerbaeck è il terzo rivoltoso dell'anno accanto a Ranieri e Simeone. La sua squadra tiene il pallone fra i piedi solo per il 35 percento del tempo in una partita, circa trentuno minuti e mezzo secondo i dati Opta, meno di tutte le altre ventitré nazionali, eppure si trova ancora là, fra le migliori otto d'Europa.

mercoledì 29 giugno 2016

Draxler e la Germania nemica geniale

Draxler contro la Germania

C'è una nuova Germania che contraddice le nostre certezze. Potevamo batterli o perdere, ma noi eravamo i creativi e loro gli uniformi. Noi estrosi, loro assennati. Noi l’ingegno, loro la saggezza. Noi la follia, loro l’equilibrio. Ora non più. La Germania di Löw sembra più latina di quest’Italia che gioca su organizzazione, corsa, efficienza. Ha abbracciato la strada che una volta piaceva al nostro calcio.

martedì 28 giugno 2016

Non è il Portogallo di Ronaldo

Il Portogallo celebra il ventennale della sua presenza nel calcio d'élite andando per la sesta volta di fila nei quarti di finale agli Europei. È un cammino unico. È un passo che non appartiene alla Germania né alla Spagna e neppure alla Francia. Eppure questa nazionale si circonda sempre di un senso di incompiuto, come ieri sera, quando ha battuto la Croazia ma non la noia. Avere in squadra Cristiano Ronaldo ed esigere una partita prudente è un paradosso che il ct Santos non ha temuto di vivere. Qualificato come penultimo dei ripescati, ha preferito il profilo basso e ha scelto l'umiltà, mettendo in cima ai pensieri il proposito di fermare Modric, la fonte dei croati. Una partita che per un'ora e cinquantacinque minuti ha avuto il suo fascino nella speranza che qualcosa all'improvviso accadesse, perfino che potesse farla accadere Quaresma. E negli ultimi cinque minuti di elettricità, dopo un palo di Perisic, proprio Ricardo Quaresma l'ha decisa, il triste re della trivela ai tempi dell'Inter, improvvisato supplente d'attacco nella sola occasione in cui Ronaldo si sia degnato di farsi vedere. Un po' di vento in mezzo alla bafagna l'aveva portato Renato Sanches, che ha tolto a Ronaldo il primato di portoghese più precoce a una grande manifestazione. Lui è arrivato all'Europao a 18 anni e 10 mesi, Cristiano perse quello in casa a 19 anni e 4 mesi. Ha i capelli come Gullit, il busto grosso alla Karembeu, il passo e il bacino di Seedorf. Il resto è roba sua. Comprese le pause dell'acerbità. Una la azzecca, una la accenna. Ma è il regalino di matrimonio da 35 milioni di euro che il Bayern ha fatto a Carlo Ancelotti.

lunedì 27 giugno 2016

Messi, il 10 che non voleva essere di più

Tra le mille cose che il calcio da solo non riesce a spiegare, c'è questa allergia fra il giocatore più bravo al mondo - candidato qualche volta al titolo di sovrano di ogni tempo - e la sua nazionale, o forse il suo paese. "Avrei voluto portare un titolo in Argentina, me ne vado senza esserci riuscito" dice adesso Messi, mentre Olé - quotidiano sportivo di Baires - lo mette in ginocchio in prima pagina, le mani sul prato, la faccia nascosta e lo scongiura, non te ne andare, giocando con le parole, "lo veo y non lo leo", dopo la sconfitta con il Cile. Se Pelé aveva vinto con Garrincha Jairizinho e gli altri due mondiali da protagonista e uno da infortunato; se Maradona ne ha vinti quasi due tutto da solo, Messi rimane un assetato di gloria patria, un collezionista di Palloni d'oro che si prosciuga quando di mezzo c'è la sua bandiera. Adesso dice "mi fa male perdere, per me è finita, la decisione è presa", sfilandosi per sempre la fascia da capitano e la maglia a strisce della Selección, un'altra tragedia che il calcio argentino mette in scena in terra d'America. L'ultimo pianto di Messi cade a duecentotrenta miglia e ventidue anni di distanza dal giorno in cui a Boston Diego fece la sua pipì mondiale con l'efedrina dentro. Era il 25 giugno, per Messi il 26.

domenica 26 giugno 2016

La bellezza della banalità


BRACCIA tese ma stavolta non sono nazisti. Un muso col broncio ma non è un hooligan. Le facce di chi si prende gioco del male. Di chi dentro uno stadio ride, vive, si diverte. I contro-delinquenti dell'Europeo. Gente in pace con se stessa, con la propria nazione, con la terra e con le esistenze degli altri. Gente per cui quello verde lì davanti è solo un prato su cui si gioca con un pallone e questi sediolini in plastica sono un posto da cui gridare, ridere, piangere — va bene tutto — tanto alla fine ci si alza, ci si saluta e si torna a mescolarsi, a passeggiare accanto a uno sconosciuto che parla forse un'altra lingua, veste con altri colori e farà sesso a modo suo, consapevoli che a questo si riduce il nostro cammino, a una lunga sequenza di momenti in cui tenersi compagnia. Gli irlandesi tutti in verde. Gli svedesi tutti in giallo. Albanesi e belgi in rosso. Gli islandesi persi nel loro dipinto di blu. Facce che scuotono questi Europei di calcio vissuti con l'ansia di chi vuol convincersi che in fondo non ce ne sia, la paura di chi si ripromette di non provarne, la tensione di chi prova a imporsi di non cambiare le proprie abitudini di fronte al terrorismo, e invece si scopre inquieto al cospetto di una borsa abbandonata.

sabato 25 giugno 2016

Alla Svezia servirebbe Fimpen


L'ULTIMO gioco di prestigio non è riuscito. Il Belgio va agli ottavi con un gol che pare un drop rugbistico di Nainggolan e trova l'Ungheria; la Svezia lascia gli Europei e Ibrahimovic la Nazionale. Zlatan ha chiuso regalandosi la lentezza, durante la partita e dopo, passeggiando per il campo e battendo con flemma le mani al muro giallo di svedesi venuti a Nizza per dirgli addio; e poi uscendo prima dei compagni, con la fascia da capitano sfilata.
Contro un Belgio sempre più calato nella parte della squadra femmina, contropiedista, con De Bruyne che sconfina a sinistra per mangiare i palloni di Hazard, Ibra si è goduto tutto. L'ingresso in campo con i bambini. La moglie in tribuna. Il principe ereditario Carlo Filippo venuto fin quaggiù con la sciarpa al collo. L'inno nazionale, "du gamla, du fria", tu antica, tu libera, anche se stavolta non l'ha cantato; otto mesi fa ne aveva inciso una versione disco per lo spot d'una macchina, tre milioni di visualizzazioni e disco d'oro.

venerdì 24 giugno 2016

L'ultima corsa di Ibra santo e canaglia

NIZZA
LO SPACCONE, lo sbruffone, l'Ibrahimovic gradasso è rimasto fuori. Quest'uomo di 35 anni che abbassa gli occhi riesce perfino a fare tenerezza. «Non voglio giocare alle Olimpiadi. La mia ultima partita con la Svezia sarà l'ultima della Svezia agli Europei. E non voglio che sia già arrivata». Lo dice fissando il vuoto, o forse la moquette nera nella pancia dello stadio di Nizza, una città dove in genere non si viene per lasciarsi. La domanda che ha scatenato la confessione gli è giunta in olandese: la lingua del paese in cui è cominciato il suo cammino internazionale. Senza accorgersene Ibra ha chiuso un cerchio rispondendo in inglese, la lingua della sua prossima sfida, quando si sarà sfilato questa maglia gialla. «Non mi piace restare deluso, non mi è mai piaciuto. Porterò per sempre la bandiera della Svezia dentro di me con orgoglio e gratitudine, nella mia ultima partita vorrei che non ci fosse rimpianto».
Allora mettici finalmente del tuo, Ibra, stasera contro il Belgio. Non possono bastare i tre tiri scarsi visti con l'Irlanda e l'Italia, nemmeno un passaggio da ricordare, nemmeno una traccia del giocatore che contende a Ronaldo la possibilità di diventare il primo della storia a far gol in quattro Europei di fila.

mercoledì 22 giugno 2016

O'Neill, la corsa di un irregolare

NELLA residenza del governo di Dublino, di fronte a Mary McAleese, seconda donna presidente d'Irlanda e la prima a venire dall'Ulster, Martin O'Neill prese il microfono e spiegò cosa volesse dire sentirsi figlio di questa faccenda così complessa e spesso insanguinata. Quest'uomo che porta un paio di occhialetti d'altri tempi e parla sotto voce ha studiato legge all'università di Belfast, viene dalla stessa scuola primaria frequentata da due futuri premi Nobel (John Hume e Seamus Heaney) e sulle sue rughe da ex calciatore atipico è passato più di un riflesso della storia delle due Irlande. «Sono troppo pieno di anomalie e contraddizioni per potermi dire perfetto». Una vita da irregolare.

lunedì 20 giugno 2016

Il cucchiaio di Panenka ha 40 anni

20 giugno 1976: il rigore di Panenka contro Maier nella finale degli Europei
20 giugno 1976: il rigore di Panenka contro Maier nella finale degli Europei[/caption] Quando Antonin Panenka prese la rincorsa, sapeva chi era, non cosa sarebbe diventato. Suo padre avrebbe voluto fare il calciatore, ma era avido di corse in moto, ebbe un incidente e fine dei sogni. Così aveva portato il bambino a vedere le partite, anche sei o sette in un week-end. Quando Antonin Panenka prese la rincorsa per il tiro decisivo nella finale degli Europei ’76 che si stava chiudendo ai rigori contro la Germania – il 20 giugno sono quarant’anni - si ricordò dei sacrifici, degli allenamenti, dei funzionari del partito che vigilavano sulla Nazionale, del divieto di fumo, del divieto di sesso tre giorni prima di ogni partita, delle multe per ogni birra bevuta; si ricordò dei suoi due grandi modelli, Didi e Masopust, e decise di tirare come da due mesi aveva in testa di fare.

domenica 19 giugno 2016

Noi e quelli venuti dal freddo

Stenmark e Thoeni
QUELLI del Gre-No-Li erano quasi più italiani di noi. Green e Nordahl avevano fatto gol e vinto scudetti per il Milan, Liedholm iniziava a farsi conoscere in panchina portando il Varese in A. La Svezia era materia quasi esclusiva delle élite. I film di Ingmar Bergman, la terza via in politica di Olof Palme. Finché arrivarono quei due e la resero ai nostri occhi una nazione pop. Gli Abba cantavano, loro ci tagliavano la strada nello sport. Noi avevamo Panatta, loro Borg. Noi avevamo Thoeni, loro Stenmark. Se ne inventavano sempre una, benedetti svedesi. «Eppure avevamo un vantaggio. Ovunque fossimo, ogni due o tre settimane noi italiani potevamo tornare facilmente a casa a rifare la valigia. I loro inverni non glielo consentivano. Dovevano dare più di noi per emergere». Gustavo Thoeni aveva 24 anni quando la rivalità col diciottenne Ingemar dalla faccia d'angelo divenne «la sfida del secolo», così la chiamarono i giornali, alla maniera della boxe. Non era boxe, per fortuna, lì già avevamo preso una lezione: su un ring a Bologna, una ventina d'anni prima, Johansson - altro Ingemar - aveva portato via l'europeo dei massimi a Franco Cavicchi, detto il "nuovo Carnera".

sabato 18 giugno 2016

Le radici di Ibrahimovic



MALMÖ. L’uomo arrivato a Parigi da re e andato via da leggenda, a casa sua è qualcosa in meno e molto di più. È un idolo e un fantasma, è un dio lontano, del resto a chi verrebbe in mente di venerare un vicino di casa. Mentre Manchester si prepara ad accoglierlo con un assegno da 13 milioni all’anno per ricongiungerlo a Mourinho e guastare i giorni a Guardiola, esiste un solo posto in cui sia ancora possibile essere Ibrahimović senza smettere di sentirsi Zlatan. Qui, dove tutto è iniziato, dove grazie a lui la vita è cambiata prima che il ponte di Öresund unisse la città a Copenhagen.

mercoledì 15 giugno 2016

Il centravanti che segnò dopo 500 giorni


BORDEAUX. Ádám Szalai fa lo stesso lavoro di Higuaín, centravanti, e i centravanti tengono il conto dei gol. Così mentre Gonzalo in Italia calcolava i suoi, trentaquattro - trentacinque - trentasei, anche Ádám segnava il proprio record in Bundesliga. Cifra tonda. Zero. Un gol nemmeno per sbaglio. Una deviazione, una tibia, un fuorigioco. Niente. 

martedì 14 giugno 2016

Perché ci piace il portiere col pigiama

BORDEAUX. Piace perché si butta nel fango e si sporca. Piace perché a guardarlo pare improbabile. Piace per i motivi opposti a quelli che ci portano spesso a stare dalla parte di Messi e Ronaldo. Piace perché rimette al centro della scena il calcio che il tempo ci ha tolto. Il paradosso di Gábor Király è che il suo romanticismo, i suoi quarant’anni in campo e la tuta grigia con cui gioca, sono il cibo perfetto per i predatori del marketing. Oggi diventa il calciatore più anziano ad aver mai giocato una partita in questo torneo, e tutti guarderemo i suoi pantaloni consumati, per fingere di credere ancora alla magia di questo gioco, per dimenticare che in un campionato chiamato Europeo si sfidano due paesi che l’Europa la stanno spezzando: l’Austria che vorrebbe una barriera al Brennero e l’Ungheria che ha alzato un muro di lamette e filo spinato lungo 175 chilometri al confine con la Serbia; un muro alto tre metri e mezzo, uno in più di una porta di calcio.

lunedì 13 giugno 2016

Il lontanissimo Mondiale di Götze


LENS. Mentre Guardiola salutava impassibile la Germania, sfiancato da Simeone e dall'Atlético di Champions, Götze quella sera stessa se ne stava con un maglioncino rosso e un borsello di cuoio sotto il braccio, addossato al corridoio dell'Allianz Arena.

L'innamoratore

L'amore sarà pure come per William Holden e Jennifer Jones una cosa meravigliosa, ma è soprattutto un lavoro usurante. Ne sa qualcosa Ivan Sciarrino, un tipo sotto la quarantina, figlio di un'insegnante di inglese e di un autista d'autobus di Napoli che si guadagna da vivere in giro per l'Italia mettendo in gioco i sentimenti, i suoi e quelli delle donne capitate sulla propria strada. Sciarrino non le incontra, a Sciarrino le fanno incontrare. Viene ingaggiato per far perdere loro la testa, affinché lascino i mariti, pagato da chi vuol ferire in questo modo un nemico, un concorrente, un rivale. Il suo è il mestiere dell'innamoratore: pericoloso perché sa interpretarlo soltanto lasciandosi coinvolgere — come avviene molto più che in passato con la signora Soraya D'Abundo — e perché prima o poi qualcuno ti mette una bomba sotto l'auto, facendo entrare in scena un'indagine dei carabinieri e una porta dietro cui si nasconde un mistero. Coetaneo del suo rubacuori a pagamento, al suo quarto romanzo in cinque anni, Stefano Piedimonte scrive con L'innamoratore (Rizzoli, 269 pagine, 18 euro) una storia che è più interessante leggere in controluce, come apologo sull'amore mancante, quello che potrebbe essere e non è, l'amore ipotetico che non abbiamo avuto, affascinante quando si ferma poco oltre la soglia dell'immaginazione, eppure monco perché non prevede né responsabilità né usura.

sabato 11 giugno 2016

Il calcio visto da Calais


CALAIS. IL poliziotto all’ingresso è di cattivo umore. Dice che c’è bisogno del permesso. «La firma. In prefettura». Impugna la radio e cerca una sponda per farla finita qui. Intravede un pallone bleu dentro una busta gialla. Lo prende. «Un italiano con un pallone della Francia». Ne ride. Dice che lui a palleggiare è bravo, bravissimo, che gioca nella squadra regionale della polizia e che hanno vinto questo e quello. «Lei è un buon centrocampista. Si vede dalle gambe arcuate». La vanità è l’anello debole della burocrazia. La radio si spegne. D’incanto si può passare.

De Biasi e i figli della diaspora albanese

SEICENTO imprese e ventimila lavoratori italiani a Tirana, dove non ci sono sindacati e le tasse restano sotto il 15 per cento. Imprenditori medici e cuochi, più un c.t. veneto che ha portato per la prima volta la nazionale fra le grandi del calcio. Uno studio di architetti fiorentini progetta il nuovo stadio d'Albania che tanto sta a cuore al premier socialista Edi Rama. Gianni De Biasi, figlio di un commerciante di Sarmede, il paese delle favole, ha già fatto di più. Con 21 ragazzi raccolti in 10 campionati stranieri, compreso Liechtenstein e la nostra C, dopodomani guida contro la Svizzera il debutto di una federazione che ha un budget da 7 milioni di euro: meno del biennale di Conte. Solo in due giocano in patria, i portieri di riserva. «Quando mi contattarono la prima volta, ero in bici. Accostai, parlammo, non ero convinto. Che ne sapevo dell'Albania? A me piace essere parte di un ambiente: granata a Torino, bresciano a Brescia, modenese a Modena. Mi sono messo a studiare la storia e gli anni del regime. Oggi il mio lavoro è anche esportare l'Albania. Mi hanno dato cittadinanza e passaporto. Ne vado fiero».

venerdì 10 giugno 2016

Le Havre, il porto in cui arrivò il calcio


LE HAVRE. Oltre gli scafi gialli della scuola di vela e i pontili che si sporgono dal porto sulla Manica, oltre questa tenda di nebbia, da qualche parte laggiù deve esserci l'Inghilterra. Vennero dei commercianti portando un pallone ovale e uno tondo, e da allora non siamo stati più gli stessi. Normandia, 1872. Le Havre è il posto in cui l'Europa continentale ha conosciuto il calcio. Se gli inglesi lo hanno inventato, i francesi ce lo hanno organizzato.

giovedì 2 giugno 2016

Calcio e potere in Argentina


Se era vero che "perfino in Vaticano parlano solo di calcio", come sosteneva Osvaldo Soriano, figurarsi adesso che in Vaticano c’è un papa argentino. Non esiste angolo della Terra in cui il potere abbia resistito alla tentazione di maneggiare a modo suo il pallone, non esiste sulla Terra un posto in cui accada più che in Argentina.

martedì 31 maggio 2016

Il paradosso Zidane

Zidane allenatore non è mai esistito. Zidane allenatore era un'idea di cui sorridere, se non addirittura sospettare, maliziosi, come hanno fatto in Spagna, dove certe volte pareva la geniale idea venuta a un padre per aiutare la scalata alla gloria di suo figlio calciatore.
Zidane allenatore sembrava un controsenso, primo perché i grandissimi del campo si trascinano sempre un certo imbarazzo in panchina - con l'eccezione di Cruijff - e secondo perché al Castilla, la succursale del Real, Zidane aveva iniziato la sua seconda carriera con cinque sconfitte nelle prime sei partite. Solo che il calcio conosce mille maniere per burlarsi di noi. Compreso mettere Zidane sulla panchina della squadra più ricca del mondo, e fare di lui il primo allenatore francese in grado di vincere la Coppa dei Campioni. In realtà i francesi si attribuiscono pure il passaporto di Helenio Herrera, di nascita argentino. Ma da oggi probabilmente vorranno dimenticarsene, da oggi vorranno essere certi di aver visto nascere una Storia.

venerdì 27 maggio 2016

Da Borg al nulla: cos'è successo alla Svezia nel tennis


STOCCOLMA. Thomas corse a rete sulla smorzata dell’avversario, aprì il dritto, appoggiò la palla nell'angolo alla sinistra del russo Safin, e poi alzò lo sguardo per vedere dove andava a morire il pallonetto. Oltre la riga. Aveva vinto. Non si inginocchiò, non lanciò la racchetta, non baciò il cemento di Melbourne. Strinse banalmente i pugni e sorrise. Un gesto normale. “Non ebbi la sensazione che fosse qualcosa di storico”. Nel gennaio 2002 la Svezia stava vincendo il suo ultimo Slam e non lo sapeva. Nella terra che dagli anni ‘70 associamo al tennis, non ci sono più campioni. Spariti in 14 anni. Non manca solo chi sia capace di vincere al Roland Garros, manca un titolo in un qualunque altro torneo, mai una finale negli ultimi 5 anni, neppure una semifinale, né un giocatore fra i migliori 100 al mondo. Ce ne sono in tutto due fra i primi 400. Come un Brasile senza calciatori.

martedì 24 maggio 2016

Pantani e la torrida tristezza: vita da ciclisti




Ieri, giornata di riposo, ho lavorato più del solito. Penso a voi, cari lettori, e taccio tutto il possibile per tenervi informati. Dopo tanto gridare al telefono fino a mezzanotte per giungere a tempo in pagina, ieri sera mi hanno dato l’occasione di dire quattro parole alla radio. “Parli piano e calmo” mi hanno consigliato. Finalmente, mi sembrava di respirare. M’avete ascoltato? Parlavo del Giro. Oh! Se avessi potuto ascoltarmi, io stesso, in una piazzetta del mio paese... [1].

domenica 22 maggio 2016

Le Dolomiti e i cristi crocifissi di Buzzati


La pianura era ormai un ricordo. Era cancellato il sole leggero del Friuli, l’ordine gentile e austero, d’intonazione tutta asburgica, di questa terra che sembra nostalgica soltanto della disciplina e della serietà d’un tempo ormai remoto, d’una epoca in cui la campagna era ancora la gran madre. La gente della pianura era salita sulla montagna e il biancheggiare della folla disegnava sul verde compatto dei prati e dei boschi il serpeggiare della salita [1]. "Abbiamo finito con il comprare zollette di zucchero, cioccolato piccole bottiglie di cognac: provavamo quasi orgoglio di salpare per una avventura dalla quale chissà come saremo sbucati poi al sole e alla vita calma di tutti i giorni. Ridevamo di noi stessi, contenti e infagottati di maglie e di giornali" [12]. "Le Dolomiti sono belle e scintillanti come spade. Appartengono all'Iliade del Giro. Promettono gloria e ferite" [2].

venerdì 20 maggio 2016

La bicicletta e l'aria della montagna


"Si va sulle montagne. Ciascuno con i suoi sogni e le sue ferite. Vedremo il corridore che si torce, si flette, spasima. L'immagine a pedali dell'evangelico "Sitio", ho sete. E lì, anche tra i battuti, ci saranno tracce di splendore" [1], "sul ring più grandioso e solenne che la natura possa costruire con i suoi giganteschi e favolosi operai dell’alta montagna [2].
"Le tappe di montagna ci sono sempre state, ma se ci si mette anche la natura, allora il Giro assume quell’aspetto di realtà romanzesca, che era stato il lato più entusiasmante e sadico delle sue prime edizioni. Il Giro non è soltanto ciclismo, si sa. E’ anche erculeismo, capacità di soffrire fino all’annientamento." [3]. "Più o meno consapevole, il tifoso guarda al Giro come a un western: le sequenze di tappa, le fughe tormentose, le salite micidiali, il caldo che cuoce e prosciuga, la neve dei passi alpini, la solitudine delle cronometro, sono fotogrammi obbligati di uno spettacolo che è paragonabile alle epopee filmiche raccontateci da Ford, da Sturgess, e anche da quei registi degli spaghetti-western all’italiana pieni di fumo, boccacce, terrori tanto esagerati da spingere al riso. Un western molto popolare, molto nostrano. Con i suoi eroi tipici, le figure incorniciate secondo le tradizionali caratteristiche. Ecco dunque i Tom Mix, i Buffalo Bill, i Corbett, i Jessie James, e chi li interpreta: Gary Cooper, John Wayne, i vecchietti catarrosi e petulanti di contorno, il medico ubriacone, la donna fatale ai margini della strada, l’assalto alle fontane come alla diligenza, il tormento della fame come se anziché su un sentiero che corre tra mille osterie campagnole il corridore si trovasse tra le Montagne Rocciose. Ecco gli accampamenti, ecco le rincorse tra una banda di cowboys e l’altra, ecco la “rapina” di un traguardo, organizzata tra misteriosi accordi come l’irruzione dentro una banca" [4].
"Uno degli avvisi più diffusi dalla Gazzetta dello Sport ai bordi delle strade, appena il percorso accenni a salire, è quello rivolto agli spettatori un tantino fanatici: “Non spingete i corridori”. Non spingerli in salita va bene, ma spingerli a pedalare un po’ più in fretta in pianura, sarebbe stato un avviso non del tutto riprovevole. E’ vero che i corridori pensano alla salute, al prossimo Tour, alla fidanzata, alla mamma e a tanti altri cavoli loro. Giustamente. Ognuno sa gli affari suoi. Non mi pare tuttavia che sia troppo chiedere loro un minimo di adesione alle tabelle di marcia compilate con largo spirito di comprensione dagli organizzatori" [3]. "Quello che un osservatore disattento potrebbe scambiare per “entusiasmo” – in fondo scusabile – è null’altro che manifestazione d’una profonda diseducazione morale. Atto vergognoso, dunque, per usare la definizione venuta spontanea sulle labbra di tutti. Esiste, oppur no, un rimedio per sopprimere e punire, od energicamente arginare questo malcostume che tanto danno arreca a uno sport la cui esistenza è notoriamente avviata su una brutta china, che lo porta al caos?" [5]. "E adesso rimangono solo le montagne. Come se a calcio, esauriti anche i tempi supplementari, rimanessero solo i calci di rigore. Come se a carte, bruciati gli scartini, in mano sopravvivessero solo carichi e briscole. Solitudine Le montagne sono il giudizio universale, la giustizia giusta, la verità vera. Ai piedi delle montagne i corridori si spogliano di tutto, come davanti a una divinità cui interessa soltanto l' anima, non il corpo, né tantomeno l'abito. Perché ai piedi delle montagne non c'è più squadra o compagno, non c'è più tatuaggio o bandana, non c'è più Twitter o Facebook, non c'è più parola o gesto o smorfia, si è nudi e crudi, si è soli con se stessi eppure contro se stessi, si è liberi ma non si è necessariamente belli o forti, si è quello che si è. E quello che si è, è quello che si ha. Non essere o avere: ma essere e avere. Se ne hai, sei, e vai. Se non ne hai, non sei, non ci sei, non vai da nessuna parte, e amen" [6].
"La gente li saluta felice. Pensa solo alla loro forza, non legge entro le loro rughe fonde la maschera della fatica. La gente li vede una volta sola nella vita, per la frazione d’un minuto. Lancia fiori, grida, s’esalta, li sospinge con l’urlo febbrile. Le ragazze strillano, lanciano baci, si premono le palme sul petto affannato. Nessuno vede, nessuno ascolta il loro vero respiro, nessuno ha tempo di scrutare la nebbia delle loro palpebre stanche, di guardare le bocche deformate dalla sete, le labbra maculate dalla polvere, le mani rattrappite dallo sforzo sul manubrio. Ma io non sono «la gente che applaude allo sforzo generoso»: io sono uno che, un po’ per vocazione e un po’ per mestiere, va da venti anni pedinando solamente lo spettacolo della loro fatica, misurando lo spasimo e l’angoscia, l’accendersi delle speranze e l’intenerirsi della delusione. E ho visto, prima d’oggi, tante altre volte andar su per le salite del monte, sotto la tonnellata del sole e sotto il cilicio della pioggia, tanti altri che, come questi, furono un giorno famosi e di cui, un po’ alla volta, la memoria va impallidendo" [7].
A quattro chilometri da Cividale c'è Firmano, "frazione di Premariacco, circondato dalle discariche. Questa è la storia di quelli che ci vivono, raccontata da loro. Sono 250 e intorno hanno 7 impianti di smaltimento rifiuti, fra attivi, esauriti e in allestimento. Le donne di Firmano, si chiama il gruppo nato spontaneamente, senza una presidente né una segretaria. Sono loro che girano per i paesi del circondario chiedendo appoggio e solidarietà (senza grandi risultati). Sono loro che, ai tempi, hanno scritto a Cossiga. Sono loro che, prima di Natale, hanno fatto stampare una cartolina d'auguri con un Babbo Natale e tre foto di discariche, e la scritta "Buon Natale e felice anno nuovo da Firmano, capitale delle discariche". L'hanno spedita a tutti i parlamentari, a Scalfaro, ai consiglieri regionali, al vescovo. Nessuno ha risposto. Le donne di Firmano mi hanno dato appuntamento al bar-trattoria-tabaccheria Marina, che è l'unico esercizio pubblico della frazione. Vende anche pane, alimentari, un po' di frutta. Per la spesa si va a Premariacco o a Cividale. Nel bar c'è una collezione di vecchie radio, dei poster di Sauris, dove c'è sicuramente un'aria migliore. Abbiamo unito i tavolini, le donne hanno dai 25 agli 80 anni e due cose in comune: vivono a Firmano e sono esasperate dalla puzza. Il problema, all'inizio, è che parlano tutte insieme. Non sono abituate a vedere giornalisti, da queste parti. La storia che puzza non è mai andata oltre i giornali della regione. Ci sono anche tre uomini. Che puzza è, chiedo. Si consultano in friulano. Risposta: "Molto forte, tra la fuga di gas e il cadavere in decomposizione". Quando arriva? "Ci sono due orari quasi fissi, alle 7.45 e verso le otto di sera. Dipende dal vento e dalla bassa pressione. A volte dura 3 giorni di fila. D'estate pareva di morire. Il guaio è che adesso andiamo verso la bella stagione, quando si vorrebbero tenere le finestre aperte".
Parla uno degli uomini, il più anziano. Si chiama Antonio Duriavig, ha 74 anni. "Ho lavorato 12 anni in Belgio, in miniera, e poi alla Fiat Mirafiori. Prima della guerra la mia famiglia era andata in Libia. Sempre sgobbato, come tutti qui. Fino all'87 era un paradiso, poi mi mancava il fiato, ogni giorno devo prendere due pastiglie e uno spray. Si stava meglio in guerra, che almeno avevo un nemico, un fucile lui e uno io. Qui siamo disarmati, contiamo nulla". E sua moglie Angelina: "A me vengono dei mali di testa che non vanno via neanche con la Novalgina. E nausee". Parla un' altra donna, Marina Polentarutti. "Mio figlio è andato a cogliere dei ladrichs (è un'insalata di campo, ndr) e già mentre li curavo mi piangevano gli occhi come nemmeno con le cipolle succede. Li ho messi a mollo per tutta la notte, ma puzzavano ancora tanto. Allora li ho bolliti, perché si mangiano anche bolliti, con le uova sode, ma puzzavano. Per caso è passato il veterinario che m'ha detto: non mangiate quella roba lì, piuttosto fatela analizzare. Allora siamo andati a Udine col pentolino e al laboratorio ci hanno chiesto: di dove venite? Da Firmano, ho detto. E loro hanno detto: ah, allora si capisce tutto. Ma non è solo questo: le pecore non mangiano più l'erba, la annusano e non la toccano". I cavalli rifiutavano il fieno di Firmano già nell'87, e uno dei primi a dare l'allarme fu don Giorgio, parroco di Gagliano. Nell'88 quelli di Firmano restituirono i certificati elettorali, nell'89 raccolsero in giro 6 mila firme. Nel '97 stanno peggio.
Un'altra donna, Luigina Liberale: "Lampo, il mio cane lupo, non vuol più stare fuori quando arriva la puzza. Raspa alla porta e si nasconde in soffitta". Una delle più giovani, Paola Tonutti: "Almeno il tuo cane è vivo. Ne son già morti quattro di tumore, e anche molti canarini. Anche sulle piante, azalee, rose, rododendri, spuntano delle escrescenze come piccoli tumori. Io le butto via per non pensarci, ma poi ci penso. Tra due giorni faccio un'altra gastroscopia. Non è solo la puzza, dev'essere l' aria. Mi vengono macchie sulla pelle, sul cuoio capelluto. Ci siamo informate, un'analisi dell'aria costa almeno un milione, e qui spendiamo già molto di medicine". Marianna Pace: "Mio figlio si lamentava del male agli occhi, ho pensato a un colpo d' aria, sa il motorino. L'oculista ha detto che è allergia o irritazione per qualcosa che c'è nell'aria. Abitiamo a 400 metri dalla discarica". Rina Vanone: "Mia nuora Sonia, 32 anni, 2 figli, sanissima, mai avuto niente. Le hanno fatto il trapianto del midollo. I medici hanno parlato d'inquinamento. L'altra sera siamo andati a letto senza cenare, la bambina continuava a vomitare. Il padrone di uno degli impianti ci ha detto: io gli impianti li ho fatti, li faccio e li farò quando, come e dove voglio". Paola Indrigo: "Io prima di sposarmi stavo a Monfalcone, proprio accanto alla Centrale elettrica. Vai dalla padella nella brace, mi ha detto un amico medico quando mi sono trasferita a Firmano. Sono le donne ad avere il peso maggiore della puzza, gli uomini la mattina vanno via presto, a lavorare. Quando arriva la puzza, devi smettere, qualunque cosa tu stia facendo. Bruciano gli occhi, vomiti. E' come essere in una camera a gas, perché la puzza entra dai buchi fatti per legge nel muro, per il gas. Chiudere le finestre non serve. Noi ce ne andremmo anche, ma chi compra a Firmano? Nemmeno alla metà". Walter Nadalutti: "Io abito a Ipplis, ma col vento la puzza arriva anche lì. Ho lavorato in Honduras, che quando c'erano 40 gradi all'ombra sembrava di star freschi, e poi i dollari servivano per la casa. Ho lavorato alla Danieli, a Buttrio, e la mattina presto bisognava stare attenti a non investire una lepre, un fagiano. Non ne vedo più. Dai campi sono sparite anche le rane. Io dico: se fa tanti danni una discarica piccola, cosa succederà con quella venti volte più grande?". Giannina Liberale: "Io sto nella casa più antica, e a forza di passarci davanti i camion dei rifiuti, anche tedeschi, l'hanno crepata. Un giorno mi hanno fatto una Tac d'urgenza, a furia di vomitare ero diventata nera in faccia". Luigina, sua sorella: "Noi non ce ne vogliamo andare, è la casa dei nonni, dei padri. Vogliamo difenderla, anche se la casa di famiglia sta diventando la tomba di famiglia. L'imprenditore dice: io faccio il mio mestiere. E a noi chi ci tutela? C'è da andare giù di testa. Ci hanno tolto l'aria e la dignità, deve proprio morire qualcuno perché ci si occupi seriamente di Firmano?". Michelangelo Durante: "Io abito a 150 metri dalla Prefir e a 500 dalla nuova Gesteco. Ho la fortuna di studiare a Udine, ma i miei sono stati spesso male, mia madre è anche svenuta e il mal di testa con normali analgesici non passava, all'ospedale le hanno fatto le endovene. Sappiamo che il problema dei rifiuti esiste, e che questa è zona vocata. La rabbia nasce dalla cattiva gestione degli impianti (non copertura, non impermeabilizzazione), non dalla loro esistenza. Alle Usl ci hanno detto: in casi così, bisogna aspettare dieci anni per capire cosa succede. Ma da dieci anni ci sentiamo cittadini di serie C, oggetti di sperimentazione, non comunità da tutelare".
Ancora Paola Indrigo: "A parte lo star bene, a quante cose abbiamo rinunciato: a raccogliere le erbe spontanee, a bere l'acqua del rubinetto, che prima era buonissima. Solo bottiglie di minerale. Io non uso più nemmeno la verdura dell'orto. Il biologo m'ha detto che prima di consumarla dovrei farla analizzare. Ma si può passare la vita a fare analisi? E che vita è?". Sono storie di vita sempre più difficile. Firmano è un pugno di case, quasi tutte villette. Da un lato il fiume Natisone la separa da Premariacco, dall'altro le fanno corona le discariche. Di rifiuti urbani, una di rifiuti tossici nocivi (esaurita), una di rifiuti speciali (ma non tossici, non nocivi, non marcescibili, non putrescibili, e allora come si spiega la puzza?). Ma incombe, in allestimento, una discarica enorme, per rifiuti tossici nocivi, autorizzata (decreto del 6 ottobre '95) su parere favorevole del ministero dell'ambiente, contrari Usl, Comune e Regione. Prevede un presidio sanitario ed esami biennali di mutagenesi sugli esseri viventi (persone, animali, piante). Un salto di qualità, per persone che già non fanno una vita normale in presenza di rifiuti normali. Un'angoscia in più, nel silenzio generale. Le donne di Firmano si alzano, chi deve andare a prendere il figlio a scuola, chi preparare da mangiare. Annoto qualche altra frase. Ha vomitato anche il maresciallo dei carabinieri. Sì, ma i carabinieri son bravi, hanno fatto già 18 verbali. I camion cambiano le targhe dietro al cimitero di Orsaria. Non sono solo rifiuti nostri, vengono quasi tutti da fuori. Fanno i soldi con le cave, prima tirano fuori la ghiaia poi le inzeppano di porcherie. Nessuno di Firmano ci lavora, non sappiamo cosa succede davvero. Ai guidatori dei camion danno mezzo milione in più se non parlano con nessuno, se non si fermano a mangiare e a bere. Non ci hanno tolto la dignità ma anche la speranza, passa la voglia di fare, anche di piantare un chiodo, che idea di futuro possiamo dare ai nostri figli, che già quando arriva la puzza non possono fare i compiti? Ormai le abbiamo provate tutte, ci manca solo di andare a Roma. No, è qualcuno di Roma che dovrebbe venire a Firmano. O di Udine. Per farla finire bene, questa storia che puzza. Che forse non è una bomba ecologica, ma è una vergogna. Le donne di Firmano mi hanno lasciato certificati medici, in cui si fa risalire alle emanazioni delle discariche l'origine di nausee, dispepsie, cefalee, epigastralgie. Ma perché siete così isolate, ho chiesto, e così poco sostenute. Perché gli altri, qui intorno, hanno paura, hanno detto. Hanno paura, gli altri. Qui Friuli, profondo est, marzo '97, un esasperato saluto dalla capitale delle discariche. Una, ora, bloccata per cinque mesi dalla Provincia: due campioni di carotatura hanno rivelato tracce di rifiuti tossico-nocivi. Una piccola battaglia vinta, per le donne di Firmano. Ma c'è ancora molto da fare, lo sanno" [8].
“Domani che cosa succederà sui passi di Pordoi e Gardena? Non si parla d’altro nei conciliaboli segreti di squadra, a tavola, durante il pranzo, al banco del bar, da un letto all’altro, nel buio, prima che il sonno piombi addosso" [9]. "Voi, corridori, che siete uomini semplici, vicini alla terra dei vivi e dei morti, non credete ai fantasmi, ma sapete soltanto che domani c’è la tappa delle Dolomiti? (...) Corridori che vi apprestate a scalare le rampe delle Dolomiti – le montagne più favolose del mondo – partite con lo spirito di Ottavio Bottecchia nel cuore. Imparate da lui – il silenzio del muratore costruisce – cosa significa avere fede in se medesimi, amare il prossimo ma operare per conto proprio, non credere alle paghe mortificatrici degli effimeri contratti ma credere nelle conquiste audaci, plasmate nella carne cruda del coraggio" [10].
note
[1] Claudio Gregori, la Gazzetta dello sport, 31 maggio 1997
[2] Bruno Roghi, Corriere dello sport, 1 giugno 1953
[3] Velso Mucci, l'Unità, 3 giugno 1962
[4] Giovanni Arpino, la Stampa, 1 aprile 1970
[5] Vittorio Varale, 23 ottobre 1962
[6] Marco Pastonesi, 23 maggio 2012
[7] Orio Vergani, Corriere della sera, 4 luglio 1946
[8] Gianni Mura, la Repubblica, 16 marzo 1997
[9] Dino Buzzati, Corriere della sera, 2 giugno 1949
[10] Bruno Roghi, Gazzetta dello sport, 1937, (in "Eroi pirati e altre storie su due ruote", Rizzoli, 2010)

giovedì 19 maggio 2016

Il metodo di Malvaldi

"Il" Malvaldi. Come un dizionario. Così dice di sé quando vuol prendersi in giro questo pisano di 42 anni, papà da sette, per dieci studente di canto in Conservatorio ("basso profondo ") e poi ricercatore di chimica alla Normale. "Diceva scemenze Einstein, figurarsi il Malvaldi". Finché sono arrivati i libri. Dieci romanzi in dieci anni, di cui sei del ciclo giallo del BarLume, dove una compagnia di pensionati fa da cornice alle investigazioni. Traduzioni in 11 Paesi, un milione di copie, la serie tv. L'ultimo libro, La battaglia navale, è in testa alle vendite da tre settimane. Tutto in casa Sellerio, sotto gli stessi colori delle copertine di Camilleri. "Parrà turpe, ma a lui devo la tranquillità economica. Se Camilleri scrive e vende, consente a uno o due giovani all'anno di provarci. Ho sfruttato la sua traccia. Oggi scrivere gialli è comodo. Passa per un'operazione culturale. Quando lui partì con Montalbano, equivaleva a farsi dare del rattuso. Per me che ne sono tifoso, stargli accanto è come giocare nel Torino".

mercoledì 18 maggio 2016

Tenetevi la precocità

PROVATE voi a dirglielo, provate a convincere Pugliesi Maurizio da Capannoli, provincia di Pisa, che passano più o meno intorno ai venti, i migliori anni della nostra vita. Perso dietro il suo sogno infantile, «perché la serie A è il sogno di tutti i bambini», non li scambierebbe di certo con i quasi quaranta che invece si ritrova. Trentanove e centoquaranta giorni per l'esattezza, nel momento in cui Joel Obi, nigeriano del Torino, stacca i piedi da terra, allunga il collo e con la testa colpisce il pallone che dalla destra Zappacosta gli ha buttato un po' alla cieca al centro. Le mani di Maurizio, sarebbe facile far battute sull'età, cedono e il pallone passa. Però che gioia aver finalmente preso un gol in serie A.

martedì 17 maggio 2016

Sono stato Schillaci

SBUCÒ dal nulla e aveva gli occhi a palla. I gol in B col Messina lo portarono alla Juve. Un anno di Juve lo portò ai Mondiali. I Mondiali del '90 lo portarono in cima. Totò Schillaci è stato un lampo, fra presidenti discussi, arresti in famiglia, telefonate registrate dall'anti-mafia, il dolore per la droga di suo cugino Maurizio: lo racconta nell'autobiografia "Il gol è tutto", domani in libreria. «La gente pensa che esista solo il campo. Invece per resistere nel calcio bisogna accettare altre cose. Io le ho accettate. Se vuoi essere un personaggio, devi stare al gioco. La sincerità è un bene a cui si rinuncia. Perciò esiste il calciatorese, quella lingua in cui si parla e non si dice niente».

Che cosa non racconta un calciatore?
«Alla mia prima partita, nello spogliatoio del Messina, c'era un barattolino di perline rosse. Pastiglie di Micoren. Ognuno ne prendeva due, servivano a spezzare il fiato. Le presi anch'io, fidandomi dei medici».