venerdì 10 giugno 2016

Le Havre, il porto in cui arrivò il calcio


LE HAVRE. Oltre gli scafi gialli della scuola di vela e i pontili che si sporgono dal porto sulla Manica, oltre questa tenda di nebbia, da qualche parte laggiù deve esserci l'Inghilterra. Vennero dei commercianti portando un pallone ovale e uno tondo, e da allora non siamo stati più gli stessi. Normandia, 1872. Le Havre è il posto in cui l'Europa continentale ha conosciuto il calcio. Se gli inglesi lo hanno inventato, i francesi ce lo hanno organizzato.
Sono stati loro a cambiarci l'estate ogni due anni, con i Mondiali di Jules Rimet dal 1930 e gli Europei di Henri Delaunay dal 1960. Sono stati i francesi a spezzarci la settimana con i mercoledì di Coppa dei Campioni, inventata dai giornalisti de L'Équipe sessant'anni fa, e sempre i francesi dal 1956 si son presi la briga di stabilire chi sia il più bravo, con il Pallone d'oro. Vanno scagionati solo per l'anticipo del mezzogiorno, che del resto si sarebbero guardati bene dal chiamare "lunch match". Il resto è colpa loro.

Eppure a Le Havre manca un museo sulle origini del calcio e mancano pure gli atti di nascita. Sono così scarne le testimonianze che a Rouen le contestano. Non contenti d'aver fatto nascere Flaubert, sostengono d'essere stati anche i primi a correre dietro un pallone in Francia. Beghe locali. Le Havre replica con l'autocertificazione e una foto di trent'anni dopo, diventata una gigantografia dentro lo Stade Océane, di proprietà della città ma in gestione esclusiva al club, che deve lasciarlo libero per i concerti, come a luglio farà per Johnny Hallyday. Ma Le Havre è un posto più speciale di altri perché qui sanno custodire il passato fabbricando il futuro. Hanno il miglior centro di formazione della Francia. Ci si arriva lasciando il mare, spingendosi su in collina e scavalcando per contrasto una casa di riposo per anziani. Alle pareti della segreteria c'è una sfilata impressionante di facce famose e imberbi: Mandanda, Lassana Diarra, Payet, Mahrez e soprattutto Pogba sono stati tutti ragazzini su questo prato. "Paul se ne andò a sedici anni", raccontano, "peccato non averlo potuto vedere nemmeno una volta in prima squadra". Due dei suoi allenatori lavorano ancora qua.

Gauthier Malandin, giovane direttore dell'area marketing, apre la porta di un vezzoso salottino che dà sul prato dello stadio Océane. Il Le Havre è stato sul punto di tornare già il mese scorso in serie A, dopo sette anni. Per bruciare il Metz, avrebbe dovuto vincere all'ultima giornata segnando sei gol. Ne ha fatti cinque. "I tecnici della nostra accademia reclutano ragazzi fra i 13 e i 15 anni anche nei dintorni di Parigi. Non abbiamo altro da offrire che la nostra reputazione. Qui dormono, studiano, arrivano presto in prima squadra. Sono buoni argomenti. Per poterli anche trattenere, bisognerà risalire in fretta in Ligue1". Le radici sono evidenti nel nome anglofono (Athletic), nei colori originari - il blu in omaggio a Oxford e il celeste per Cambridge - e nella scelta di non vestire quei marchi sportivi che gli altri inseguono. Il Le Havre ha creato una sua linea d'abbigliamento, si chiama 1872, ed è lo sponsor tecnico accanto ad altri dieci partner.

Se è cominciato tutto qui, qui tutto deve tornare. Ingegnere, nonno italiano, studi in Pennsylvania, già presidente di Dresser-Rand, Vincent Volpe è l'imprenditore americano sbarcato in Normandia per fondere storia e modernità. Ha sposato la figlia di alcuni commercianti di Le Havre, ha investito e ha chiamato in panchina Bob Bradley, l'ex c.t. degli Stati Uniti ai mondiali. Dice: "Il mio obiettivo è riportare la squadra nell'élite per valorizzare al massimo l'immagine e il nome della regione. Vogliamo diventare la vetrina di un territorio". Nel 2017 c'è già una buona occasione. La città di Le Havre celebrerà i 500 anni di vita. "Vincere il campionato sarebbe il massimo". Rispetto al nostro Genoa, che approfittò del pionierismo per mettere insieme 9 scudetti, Le Havre ha vinto poco o niente. Una Coppa di Francia nel '59. I mendicanti di bellezza con un briciolo di riconoscenza ne aspettano il ritorno in Ligue1. Così come la serie A è un obiettivo del Red Star, squadra della periferia nord di Parigi fondata nel 1897 da Jules Rimet. La promozione in B ha cancellato lo storico stadio Bauer, dedicato a un martire della resistenza anti-fascista, ma non lo spirito. L'attività sociale del club prosegue fra i ragazzi del quartiere. Pauline Gamerre, 33 anni, è la sola donna direttrice generale di un club in Francia: "La Ligue1 è il nostro posto, un giorno lo ritroveremo, senza svendere il nostro spirito popolare, con la fierezza della nostra appartenenza". Se Sarkozy tifava e si spendeva per il Psg, Hollande non nasconde la simpatia per quest'altra colonna che regge la memoria del calcio europeo. Così al Red Star è stato concesso dal prossimo anno l'uso dello stadio Jean-Bouin, dove Bubka andò per la prima volta sopra i sei metri, fra le critiche razziste della destra, convinta che il popolo di Seine-Saint-Denise porterà disordini. Jules Rimet, in foto, osserva tutto dalla bacheca del club. Suo nipote Yves, attraverso la casa editrice per cui ha pubblicato un libro nel 2014, ha fatto sapere: "Il calcio non mi piace più, preferisco il rugby". Ma dalla storia non si può scappare.

(da la Repubblica del 10 giugno 2016)

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