mercoledì 26 dicembre 2018

Il Progetto Utopia del Cagliari

È qui che bisogna posare lo sguardo al termine del giro nell'Italia da ritrovare, a Cagliari, dove per la prima volta dopo 67 campionati – era il 1970 si fermò uno scudetto al Sud. «La vittoria di una minoranza» scrisse Arpino, che «ha ridato lustro a una dignità che poteva essere solo privata». Era il Cagliari di Riva detto da Brera Rombo di tuono, era una Serie A che fra il '69 e il '91 distribuiva scudetti a 11 squadre differenti: per cinque di loro era il primo, per sei fu pure l'ultimo. Trovarono condizioni oggi negate, tanto da far dire a Giuseppe Tomasini, 72 anni, all'epoca dello scudetto difensore, che «questo è un calcio da fine del mondo. Se tutto è deciso a dicembre, non lo guardo più. I club erano proprietari dei cartellini, otto di noi si sono fermati a vivere in Sardegna, oggi i procuratori ti spingono a cambiare. Non bisognerebbe scriverne nelle pagine di sport ma in quelle di economia. Mezza Italia è tagliata fuori».

sabato 15 dicembre 2018

I piani di Gazidis per il Milan

Se avesse 100 milioni pronti, Ivan Gazidis non andrebbe a comprarsi Ronaldo, li spenderebbe per uno stadio nuovo, e infatti lo farà. Primo: perché un altro Ronaldo non c'è. Secondo: perché per prendere la Juve, serve una visione. Da cinque giorni a.d. del Milan, il manager venuto dall'Arsenal ha dato una sterzata ai piani. La ristrutturazione di San Siro annunciata poche settimane fa è ora un piano B, perché non sarebbe semplice utilizzarlo durante i lavori con una capienza ridotta a 40mila posti. Il Milan ipotizza una casa nuova, anche questa non solo per sé. Il peso dell'investimento è da dividere con l'Inter, insieme con i naming rights e le sponsorizzazioni. Sono già fissati nuovi appuntamenti con il Comune per definire un'area, con l'intenzione di non finire nella palude che tiene la Roma prigioniera del suo progetto. Gazidis considera San Siro un'icona del calcio, ma nei suoi piani il nuovo stadio può diventare un'icona della città.
Dovrebbe nascere a sud, intorno a Rogoredo oppure a Baggio. È questo il muro portante che regge l'architettura della sua sfida al pessimismo italiano, per il rilancio del Milan, o come la chiama lui: rigenerazione. Crescita dei ricavi, sostenibilità, autosufficienza economica, in attesa del verdetto Uefa sul fair play finanziario. Gazidis sa di essersi preso un rischio arrivando in Serie A. È uscito dalla sua comfort zone, dovrà mettersi a studiare la lingua italiana e la nostra cultura calcistica, conscio che potrebbe toccargli l'impopolarità per dover reinventare un club con tanta eredità e tanto passato.
Depersonalizzare il Milan, portarlo fuori dall'ombra di Berlusconi è già una grossa sfida.

mercoledì 12 dicembre 2018

L'amica geniale in tv, intervista a Elena Ferrante


Dopo dieci milioni di copie vendute in 40 paesi al mondo proteggendo il mistero sull’identità di Elena Ferrante, sulla copertina della nuova edizione Lila e Lenù hanno il volto di due attrici bambine. È il sublime paradosso con cui L’Amica Geniale entra in una nuova dimensione. La tetralogia è diventata una serie tv in otto episodi, i primi due in anteprima all’ultima Mostra di Venezia e al cinema per tre giorni la scorsa settimana, prima di arrivare dal 30 ottobre su Rai1, Ray Play e Tim Vision. Un casting di otto mesi fra novemila partecipanti ha individuato le protagoniste nell’età dell’infanzia in Ludovica Nasti ed Elisa Del Genio, debuttanti, due dodicenni della provincia napoletana. A distanza, nell’ombra in cui ha deciso di vivere la sua condizione letteraria, Elena Ferrante ha seguito la scelta delle attrici e la scrittura della sceneggiatura, a cura di Laura Paolucci, Francesco Piccolo e Saverio Costanzo, che del film per Hbo-Rai Fiction e Timvision è pure il regista (altra scelta suggerita dalla scrittrice), con la produzione di Lorenzo Mieli e Mario Gianani per Wildside e da Domenico Procacci per Fandango. La voce narrante fuori campo è di Alba Rohrwacher. È una dimensione nuova per la stessa Ferrante, che via mail racconta al Venerdì il suo incontro con il cinema.

Quando nel 1994 Mario Martone preparava la sceneggiatura dall'Amore Molesto, lei scrisse: "Temo di vedere ciò che ho veramente raccontato e disgustarmene; o scoprirne invece la debolezza; o anche semplicemente accorgermi di ciò che manca". Anche stavolta ha temuto di
vivere le stesse sensazioni?
“Sì. Ma oggi è una condizione a cui mi espongo consapevolmente, con ansia, certo, ma anche con curiosità. Una volta, quando si parlava di un film nato da un libro, si usava dire: “riduzione cinematografica”. Oggi non so se questa formula è ancora diffusa, probabilmente no, dà un’idea (sbagliata) di prodotto minore.  Ma di quella espressione ciò che ancora mi interessa è l’idea di movimento: grazie a un certo tipo di lettura specialistica (quella degli sceneggiatori, quella del regista) il romanzo passa dalla pagina allo schermo e nel corso di questo movimento perde la veste letteraria, si denuda. È questa nudità che mi mette ansia e insieme mi interessa.  La lettura di chi fa film è l’unica, forse, che ha l’obbligo di ‘spogliare’ il racconto e prendergli le misure per dargli un abito nuovo. Ma il racconto letterario, ‘ridotto’ al racconto per immagini, privato della sua specificità, disorienta, spaventa, forse addirittura umilia chi l’ha scritto. Viene da chiedersi: ‘Questo è il mio libro? Dov’è ciò che mi pareva di aver scritto?’”.

sabato 8 dicembre 2018

Modric, il re provvisorio

Ai calciatori dei Balcani è stata rimproverata spesso una certa sofisticata incostanza. Ora, mentre abbatte la decennale autorità del mostro a due teste Messi-Ronaldo, il Pallone d'oro a Luka Modric ribalta pure quest'ultimo stereotipo. Ha vinto un piede elegante ma regolare, un virtuoso ma non un solista, non un anarchico.
Nell'anno del Mondiale delle sorprese, condannato a ignorare il fantasma di Leo e un Cristiano dall'immagine compromessa per le accuse di stupro dall'America, il calcio è tornato all'antico scegliendo come simbolo di sé un attore classico, un giocatore che cuce e non uno che strappa, un sarto, un camminatore sul confine fra arte e artigianato: tecnica, estro, pregio, eppure tutto il contrario dello sperpero di solito imputato alla sua stirpe, sul podio del premio fin qui rappresentata da genialoidi alla Savicevic e alla Dzajic, oppure da finalizzatori crudi alla Pancev, alla Mijatovic, alla Suker. In un caso o nell'altro, tutta gente che si fermava un passo prima di vincere.

venerdì 7 dicembre 2018

Bello questo tennis, sembra la boxe: le vite eminenti di Codignola

L’uomo che avrebbe cambiato il tennis per sempre non ha mai giocato una partita e pensava che il lavoro più bello del mondo fosse il cronista di baseball. Nove anni fa John Joseph Moehringer prestava ad Andre Agassi la sua abilità nel mettere insieme parole, lanciando verso un successo planetario la biografia Open, senza firmarla (“perché un’ostetrica non torna a casa col bambino”), e il tennis buttava giù l’ultimo diaframma fra sé e la letteratura. Se dopo il premio Pulitzer per un reportage su una comunità fluviale dell’Alabama, questo corrispondente del Los Angeles Times non avesse interrotto un articolo sui discendenti di Cita lo scimpanzé per dedicarsi ai palleggi e ai tormenti del Kid di Las Vegas, forse non ci saremmo mai neppure accorti che David Foster Wallace aveva vissuto Federer come un’esperienza religiosa.

È da quel libro lì, autunno 2009, che non è più possibile dedicarsi al tennis con lo stesso tono di prima. Ne è una nuova testimonianza il lavoro di Matteo Codignola, Vite brevi di tennisti eminenti (Adelphi, 290 pagine, 22 euro), che ospita in copertina un Jack Kramer ritratto per la pubblicità della Texaco, in pieno stile anni 50, forme arrotondate e viva i pastelli. Codignola è stato il traduttore di uno dei tre libri che meglio decifrano Napoli (Norman Lewis, Napoli ’44), di Patrick McGrath e di Mordecai Richler, ma all’interno di una certa setta è soprattutto l’editor che ha portato in Italia - sempre per Adelphi, 2013 - il libro che Gianni Clerici sosteneva fosse il più bello mai scritto su questo sport, Levels of the Game di John McPhee, nel quale prima sono ricostruiti i meccanismi della mente di un tennista seguendo la semifinale di Forest Hills 1968 fra Ashe e Graebner, e poi vengono descritte vita e lavoro di Robert Twynam, capo giardiniere dell’epoca a Wimbledon. In effetti è un libro chiave per capire il proprio rapporto con il tennis. Si legge e ci si schiera: capolavoro o perversione.

lunedì 3 dicembre 2018

Alle radici di Re Cecconi

La vita che Luciano Re Cecconi avrebbe avuto è tutta dentro un paese costruito in discesa poco fuori Milano, dove ancora abitano sua moglie Cesarina e i figli Stefano e Francesca. «Noi non lo abbiamo mai dimenticato» quasi sussurra Massimo Cozzi, magazziniere di un'azienda di Rho che ha preso l'aspettativa per fare il sindaco a Nerviano. Il Comune è dentro un ex monastero. Cozzi ha un ufficio che dà sul fiume Olona, parcheggia con il disco orario, non ha l'auto di servizio, anzi si sposta in bici e ha tolto il cellulare ai consiglieri. «Ma ora in bilancio ci sono 600mila euro per ristrutturare lo stadio», dice. Il Comunale Re Cecconi, dove fra i dilettanti gioca la Nervianese. Il campo del Luciano bambino è all'oratorio di sant'Ilario. È qui che Re Cecconi festeggerebbe domani 70 anni, senza quel colpo di pistola che un gioielliere gli sparò al petto il 18 gennaio 1977. «Sarebbe stato un allenatore magnifico, aveva etica, competenza, principi saldi», ne è certo Pino Wilson, che di quella Lazio era capitano e leader di una fazione, spogliatoi separati, le risse in allenamento, al cinema, al ristorante, e poi le pistole, un poligono dietro il campo, le luci delle camere in ritiro spente con un proiettile alle lampadine prima di dormire. Luciano detto Cecco stava dall'altra parte. Contro Chinaglia e Wilson, alleato di Martini. Soprannome: il Saggio. Non sparava, non andava al night, non giocava a poker in una Lazio drammaturgicamente perfetta.