venerdì 7 dicembre 2018

Bello questo tennis, sembra la boxe: le vite eminenti di Codignola

L’uomo che avrebbe cambiato il tennis per sempre non ha mai giocato una partita e pensava che il lavoro più bello del mondo fosse il cronista di baseball. Nove anni fa John Joseph Moehringer prestava ad Andre Agassi la sua abilità nel mettere insieme parole, lanciando verso un successo planetario la biografia Open, senza firmarla (“perché un’ostetrica non torna a casa col bambino”), e il tennis buttava giù l’ultimo diaframma fra sé e la letteratura. Se dopo il premio Pulitzer per un reportage su una comunità fluviale dell’Alabama, questo corrispondente del Los Angeles Times non avesse interrotto un articolo sui discendenti di Cita lo scimpanzé per dedicarsi ai palleggi e ai tormenti del Kid di Las Vegas, forse non ci saremmo mai neppure accorti che David Foster Wallace aveva vissuto Federer come un’esperienza religiosa.

È da quel libro lì, autunno 2009, che non è più possibile dedicarsi al tennis con lo stesso tono di prima. Ne è una nuova testimonianza il lavoro di Matteo Codignola, Vite brevi di tennisti eminenti (Adelphi, 290 pagine, 22 euro), che ospita in copertina un Jack Kramer ritratto per la pubblicità della Texaco, in pieno stile anni 50, forme arrotondate e viva i pastelli. Codignola è stato il traduttore di uno dei tre libri che meglio decifrano Napoli (Norman Lewis, Napoli ’44), di Patrick McGrath e di Mordecai Richler, ma all’interno di una certa setta è soprattutto l’editor che ha portato in Italia - sempre per Adelphi, 2013 - il libro che Gianni Clerici sosteneva fosse il più bello mai scritto su questo sport, Levels of the Game di John McPhee, nel quale prima sono ricostruiti i meccanismi della mente di un tennista seguendo la semifinale di Forest Hills 1968 fra Ashe e Graebner, e poi vengono descritte vita e lavoro di Robert Twynam, capo giardiniere dell’epoca a Wimbledon. In effetti è un libro chiave per capire il proprio rapporto con il tennis. Si legge e ci si schiera: capolavoro o perversione.


Nell’introduzione alle sue Vite brevi, Codignola confessa di aver buttato giù queste tre centinaia di pagine come terapia, per fare i conti con un’ossessione, convinto del fatto che “raccontare un vizio una volta per tutte sia il modo migliore per lasciarselo alle spalle e voltare pagina”: premessa già da sola d’una certa ambizione. Il libro nasce dal ritrovamento di una vecchia valigia di cuoio al mercatino di Cormano, poco fuori Milano, contenente buste gialle e ancora al loro interno vecchie foto d’agenzia scattate nel dopoguerra sul circuito tennistico a giocatori e giocatrici. Codignola ne ha scelte una ventina ed è partito col racconto. Pose e gesti, campioni e comparse. Ecco il punto. Mentre il tennis contemporaneo vive i lampi finali della sua età dell’oro, con tre fuoriclasse epocali e ultratrentenni diventati i primi tre di tutti i tempi per titoli di Slam vinti (Federer + Nadal + Djokovic = 51), pur sottraendosene a vicenda; fra le pagine dei libri l’età dell’oro è appena cominciata. Ai narratori si offre un materiale senza limiti, personaggi e storie che aspettano di essere recuperati e raccontati. Non che si parta da zero, non è l’età dei pionieri. È nuova la consapevolezza editoriale, il tennis è credibile nell’industria delle idee e dell’intrattenimento non più come solo fondale per i Finzi-Contini di Bassani o per la Lolita di Nabokov.

Moehringer è stato il seme di una pianta nuova ma chiediamoci perché il terreno fosse pronto ad accoglierlo. Alexis Philonenko, docente di Storia della filosofia all’Università di Rouen, nel 1991 pubblicava in Francia una monumentale Histoire de la boxe, tradotta in Italia sei anni dopo da Il Melangolo. Philonenko attribuiva la responsabilità dell’agonia del pugilato proprio all’ascesa del tennis. “Oggi - scriveva - è il tennis a richiamare folle e denaro; è il tennis che, presentandosi come un combattimento, attrae gli animi, avidi di trionfi e di sconfitte, di capovolgimenti drammatici (…). A ben vedere, la motivazione dei giovani che oggi si orientano verso il tennis è la stessa che alcuni decenni or sono spinse altri giovani verso la boxe: guadagnare denaro e diventare famosi”. Diventato popolare per gli spettatori tv negli anni 70, il tennis si è convertito in patrimonio pubblico nei 90, il decennio del boom di tornei giocati nel mondo e della costruzione dei nuovi mega-impianti: il Suzanne Lenglen da 10mila posti a Parigi aperto nel 1994, l’Arthur Ashe da 24mila a New York nel 1997, il Tennis Garden da 16mila inaugurato nel 2000 a Indian Wells. Gli anni 90 sono stati quelli di nuove icone, figli di immigrati, ragazze dell’Est e l’epifania delle sorelle Williams, scappate dal ghetto nero di Compton. Il tennis ha preso a imbattersi allora in storie di gloria e di riscatto sociale, di sottomissione delle avversità, di cadute dal fascino tragico, incrociando quello spirito working class tipico del pugilato e facendo avverare la profezia del peso massimo George Foreman: “La boxe è lo sport al quale tutti gli altri vorrebbero somigliare”. Il più letterario, con una pila di romanzi portati al cinema. Quando le racchette di nuova generazione hanno aggiunto al gioco pure la brutalità, la mutazione si è compiuta del tutto. Infine sono arrivate le inchieste sui match truccati. Già Jack Kramer nel suo libro The Game aveva avvertito “che il tennis è un gioco ferocemente adattivo, dove
i più deboli cadono lungo la strada, e alla fine rimane in piedi solo il più forte”. Una specie di toro
scatenato.

Anche Codignola cita la boxe, per raccontarci come a lungo il tennis sia stato circondato dal pregiudizio di sport sostanzialmente privo di mascolinità, anche per le fobie che lo scrittore Paul Gallico mise su carta (“i tennisti mi sembrano signorine” - e poi andiamo, tutto quel bianco); lui che prima di occuparsi di pugilato aveva preteso di affrontare sul ring Jack Dempsey, il campione dei massimi, restando in piedi un minuto e trentasette. Molte di queste Vite brevi sembrano appartenere adesso, nell’anno 9 d.M. (dopo Moehringer) sì a corpi da tennisti, ma illuminati da una luce nuova, letterariamente interessanti per le loro storie estreme, si potrebbe dire: da quasi pugili. Non è forse questo il trucco con cui sono potute arrivare al cinema la vita double face di Borg e la sua rivalità con McEnroe? Storie di facce toste, di viaggiatori, di sconfitti, di grandi idealisti e piccoli imbroglioni, tra cui spicca una specie di filosofo come il danese Torben Ulrich. Non un campione. Una semifinale in doppio a Wimbledon come momento di gloria, ma clarinettista, recensore musicale per piccole riviste, figlio di due giocatori che durante i loro allenamenti lo tenevano parcheggiato, dentro la culla, a bordo campo. Perciò diceva che non avrebbe potuto immaginare il tennis senza la musica, e viceversa; perciò “aveva firmato un contratto con una fabbrica francese che produceva le prime racchette di metallo. Ma, nonostante fosse estremamente vantaggioso, l’aveva disdetto quasi subito”. Perché trovava anonime quelle vibrazioni, dopo essersi abituato alle sonorità del legno. Suo figlio Lars è il batterista dei Metallica. Oppure Whitney Reed, il miglior americano inizio anni 60, un maledetto immerso dentro una privata Fat City di alcol, sigarette e notti insonni, uno capace di presentarsi a un torneo con un giorno di ritardo per essersi innamorato in volo di una hostess.

In fondo il tennis è nato accompagnato da leggende estreme, di morte: i diavoli che si tiravano di qua e di là le teste dei dannati; o l’uccisione di Giacomo I di Scozia nel 1437, eliminato da un gruppo di cospiratori grazie al fatto che tre giorni prima aveva fatto chiudere un passaggio segreto, “ritenendo che il buco fetido dell’imbocco distruggesse l’armonia del suo campo da tennis privato”. Il tennis oggi si scrive come su un ring. Io di qua, il resto del mondo di là. “Se pensate che stia presentandovi il tennis come un sogno”, conclude Codignola, “e il tentativo di raccontarlo come una specie di analisi, avete ragione”.

(Il Venerdì, 30 novembre 2017)

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