mercoledì 30 settembre 2015

Defrel e la bellezza cancellata

defrel
L'unica cosa che Defrel sbaglia, accade dopo il fischio dell’arbitro. Fin lì era stato perfetto. Tocco al volo all’indietro verso Duncan e scatto in profondità per farsi ridare la palla. Quattro passaggi di prima del Sassuolo e il suo bel sinistro pieno, sonoro, compiuto. Ancora non sa Defrel, mentre tira, che ha scritto “gol” sulla sabbia. Sarà pure il più bello della sua vita, ma dura un attimo. Glielo annullano.
L’uomo che in questa storia non ha cuore si chiama Michael Fabbri, fa il geometra progettista edile a Faenza, e a 32 anni avrebbe l’occasione per riscattare un’intera categoria dai cliché sulla natura algida a cui ti costringe la professione. Non lo fa. Del resto viene descritto come un uomo che sorride poco, figuriamoci se si lascia abbagliare. Se poi il geometra è anche arbitro, a cosa deve badare? Alla misura, l’ordine, la norma. E' nelle cose. E allora fischia.

giovedì 24 settembre 2015

Il film mai girato di Eduardo e Pasolini

Il film era pronto. Eduardo e Pasolini insieme, uno attore, l'altro regista. È il 24 settembre del '75 quando il "Porno-Teo-Kolossal" arriva in casa De Filippo accompagnato da una lettera. Il capolavoro mai realizzato compie 40 anni oggi. "Caro Eduardo, eccoti finalmente per iscritto il film di cui da anni ti parlo. In sostanza c'è tutto. Mancano i dialoghi. Li scriverò entro il prossimo mese. Ma saranno dialoghi ancora provvisori, perché conto molto sulla tua collaborazione, anche magari improvvisata mentre giriamo. Epifanio lo affido completamente a te: aprioristicamente, per partito preso, per scelta. Epifanio sei tu. Il "tu" del sogno, apparentemente idealizzante, in effetti reale. Ho detto che il testo è per iscritto. In realtà non è così. Infatti l'ho dettato al registratore (per la prima volta in vita mia). Resta perciò, almeno linguisticamente, orale. Ti accorgerai subito infatti leggendo, di una certa sua aria un po' plumbea, ripetitiva, pedante. Passaci sopra. Mi era impossibile - per ragioni pratiche - fare altrimenti. Io stesso l'ho letto per intero oggi - poco fa - per la prima volta. E sono rimasto traumatizzato: sconvolto per il suo impegno "ideologico", appunto, da "poema", e schiacciato dalla sua mole organizzativa. Spero, con tutta la mia passione, non solo che il film ti piaccia e che tu accetti di farlo: ma che mi aiuti e m'incoraggi ad affrontare una simile impresa. Ti abbraccio con affetto". Firmato: tuo Pier Paolo.

mercoledì 23 settembre 2015

I gol di testa che beffano i giganti

moralezIL canone è chiaro. Lui che è il più alto va a saltare. Tu invece no, tu sei quello che crossa: casomai batti i calci d'angolo. Lo schema è immutabile, il calcio ha bisogno di certezze. Ma il colpo di testa conosce ragioni che la ragione non conosce. Altrimenti non ci sarebbe Moralez, e neppure questo gol che né Einstein né Darwin saprebbero spiegarsi. Casca un pallone dal cielo in mezzo a quello che Bruno Pizzul chiamerebbe un grappolo in area, e se il calcio fosse stretta osservanza di fisica tattica e biologia, tutti potrebbero prenderlo, tutti tranne uno: Maxi detto El Frasquito, "il barattolino", un metro e sessanta di statura, qualcuno dice cinquantanove perché il ragazzo alle visite mediche ruba un centimetro sollevando le punte. Siccome invece fa sua la palla con un semplice saltello e spettinandosi appena la gira in porta, uno potrebbe chiedersi a cosa serva trascorrere settimane intere a preparare una partita con allenamenti segreti e blindati; a cosa serva provare schemi, studiarli al computer e assumere analisti.

lunedì 21 settembre 2015

Koulibaly, o elogio della normalità


Com’è banale essere un idolo. Segnare un gol, segnarne un altro, un altro ancora, e non sbagliare mai. Abbracci, baci, la folla che ti ama, tutto normale, bella scoperta. La vera conquista è diventare un beniamino. Perché - alla De Gregori - tra un idolo e un beniamino la differenza salta agli occhi. L’idolo piace perché è il migliore, il beniamino perché è fatto così. Prendete Kalidou Koulibaly, 23 anni, un ragazzone di un metro e 90, novanta sono pure i chili che pesa, nato in Lorena da genitori senegalesi. Si fa fatica a chiamarlo un campione, ma ogni volta che con la maglia del Napoli anticipa il centravanti avversario e tocca il pallone, allo stadio San Paolo se ne cade ‘o teatro. Napoli, sia detto per inciso, è città che ha avuto molti fuoriclasse (Zoff, Krol, Careca), un genio assoluto (Sivori) e il più grande di tutti (Maradona).

Non è vero che risolve tutto la Tristezza

La fortuna di andare al cinema dopo aver letto più o meno tutte le critiche su un film sta nella possibilità di tornare a casa stupiti. Entri in sala già con tutti gli strumenti interpretativi a tua disposizione, peraltro strumenti offerti da gente che di cinema sa più di te: a quel punto, con la certezza che nulla potrà sfuggirti della parafrasi, puoi concederti il piacere di dedicarti alle inezie.
Prendiamo Inside Out. Il film, come ormai tutti sanno, è l'ultimo colpo di genio della Pixar, ed è un nuovo tentativo, forse il più riuscito, di cartoon che parla più agli adulti che ai ragazzi.

sabato 19 settembre 2015

Calvino alle Olimpiadi

Il tabellone della finale di basket a Helsinki 1952
Il tabellone della finale di basket a Helsinki 1952
Quando Italo Calvino va alle Olimpiadi di Helsinki, inviato per l'Unità, non ha che ventinove anni appena, anche se ha già pubblicato "Il sentiero dei nidi di ragno" (1947), "Ultimo viene il corvo" (1949) e "Il visconte dimezzato" (1951). Non ha particolare dimestichezza con lo sport, lo confesserà lui stesso. Ne Il giardino incantato, uno dei racconti della sua raccolta uscita tre anni prima, c'è una pagina ispirata dal tennis tavolo,che ancora chiamavamo ping-pong.


Uscirono dall’acqua e proprio lì vicino alla piscina trovarono un tavolino col ping-ping. Giovannino diede subito un colpo di racchetta alla palla: Serenella fu svelta dall’altra parte a rimandargliela. Giocavano così, dando botte leggere perché da dentro alla villa non sentissero. A un tratto un tiro rimbalzò alto e Giovannino per pararlo fece volare la palla via lontano; batté sopra un gong sospeso tra i sostegni d’una pergola, che vibrò cupo e a lungo. I due bambini si rannicchiarono dietro un’aiuola di ranuncoli. Subito arrivarono due servitori in giacca bianca, reggendo grandi vassoi, posarono i vassoi su un tavolo rotondo sotto un ombrellone a righe gialle e arancio e se ne andarono. (Italo Calvino, Ultimo viene il corvo, Einaudi)

Per il resto Calvino si dichiara profano. "Scrivo", dirà, "perché non ero dotato per il commercio, non ero dotato per lo sport. Scrivo per imparare qualcosa che non so. Non è il desiderio di insegnare ad altri ciò che so o credo di sapere che mi mette voglia di scrivere, ma al contrario la coscienza dolorosa della mia incompetenza".

venerdì 18 settembre 2015

Quando l'Unità stroncò il suo collaboratore Italo Calvino

Il 6 agosto del 1952, sulle pagine dell’Unità, Carlo Salinari torna sull’uscita de Il Visconte dimezzato, la prima opera della trilogia dei nostri antenati di Calvino. Lo fa in sostanza per stroncare il romanzo, che aveva aperto un dibattito vivace dentro il Pci. Calvino all’epoca non ha ancora compiuto trent’anni. Ha già pubblicato, tra le altre cose, Il sentiero dei nidi di ragno e Ultimo viene il corvo. Soprattutto, proprio per l’Unità neppure un mese prima era stato inviato alle Olimpiadi di Helsinki, e da lì aveva scritto dei magnifici reportage. A trent’anni dalla sua morte, l’articolo dell’Unità d’allora.

Calvino ha scritto una favola […] Appena uscito il libro autorevoli critici dei giornali e delle riviste indipendenti hanno esultato: com’è bravo Calvino! “In questo libro non c’è né idee né propaganda politiche: Calvino vi è artista e non uomo di parte”. E poiché un nostro compagno su Rinascita, ha osato esprimere delle riserve, ecco gli stessi critici usare le parole grosse: “E’ un libro – hanno detto – che non doveva essere scritto, e che perciò non dovrebbe essere letto: da mettere all’indice, non della Chiesa, ma del Partito, poiché Calvino è comunista”. “Calvino sotto accusa?”. Povero Bellonci! Da trent’anni a questa parte il destino ha voluto che perdesse sempre le occasioni buone per stare zitto.
Certo questo libro probabilmente non sarà letto, migliaia e migliaia di persone (operai, contadini, intellettuali) che hanno apprezzato Il sentiero dei nidi di ragno probabilmente non leggeranno Il visconte dimezzato. Tuttavia la cosa non sarà dovuta a un Indice che non esiste, e nemmeno all’opinione che può esprimere questo o quel critico comunista, ma a un’altra ragione un pochino più complessa.


Qual è il difetto fondamentale di questo libro di Calvino? Forse il suo carattere di favola? No, perché – e in questo sono d’accordo con Bellonci – il suo temperamento di scrittore lo porta naturalmente verso una simile forma d’espressione. Forse il fatto che è scritto male? No, perché vi sono pagine molto belle, composte con quella grazia e arte di scrittore, che fanno di Calvino il giovane più dotato del dopoguerra: “Quella notte, Medardo tardò a dormire. Camminava avanti e indietro vicino alla sua tenda e sentiva i richiami delle sentinelle, i cavalli nitrire e il rotto parlar nel sonno di qualche soldato. Guardava in cielo le stelle di Boemia, e pensava al nuovo grado, alla battaglia dell’indomani, e alla patria lontana, al suo fruscio di canne nei torrenti”. E vi sono anche figure simpatiche come quel dottor Trelawney.
Il difetto fondamentale è che l’ispirazione della favola non parte dalla nostra realtà, da problemi sentimenti e idee che sono patrimonio comune della nostra esperienza, ma da una suggestione e da un gusto di derivazione intellettualistica e culturale. E mi spiego meglio. Una volta uno studente mi portò alcune sue poesie: ve ne erano di buone e di cattive, come capita. La più brutta di tutte, però e anche questo capita), era proprio quella che l’autore riteneva la più bella: una lirica in cui si cercava di esprimere il tormento del dubbio che in lui, seminarista, si affacciava della divinità. Gli feci osservare che era la meno riuscita anche perché i sentimenti che in essa si cercava di esprimete non erano più oggi dei sentimenti storici, ma potevano costituire solo il dramma – sia pure sinceramente sofferto e rispettabilissimo – di alcune coscienze individuali. E volevo dire che ogni periodo storico ha dei nuclei di problemi che tutti gli uomini – direttamente o indirettamente – si affannano a risolvere. Da questi problemi scaturiscono atteggiamenti, idee, che non hanno più nessuna effettiva funzione. E’ per questo che noi attribuiamo una particolare importanza alla rispondenza dello scrittore con la società del suo tempo, perché i grandi scrittori, da Dante a Leopardi e a Verga, si sono sempre messi al centro di quei nuclei di problemi e di lì hanno ratto la forza del loro canto e la loro universalità. E’ per questo che la libertà dell’artista non deve essere concepita in astratto, ma sempre nei limiti della sua concreta esperienza di uomo, è per questo che l’arte, quando è arte, non può non essere nazionale. E non mi si dica che si fa solo questione di contenuti: certo non bastava dichiararsi romantici per essere grandi scrittori, però tutti i grandi scrittori della prima metà dell’Ottocento erano romantici.
E torniamo a Calvino. La grazia del suo stile e il buon gusto del suo umorismo non bastano a reggere un libro. E a lungo andare questo racconto – che pure è brevissimo – finisce per essere stucchevole. Perché l’affermazione che l’uomo è un impasto di bene e di male e che sarebbe un guaio se così non fosse, la polemica (o la satira) antimanichea, contro le concezioni fanatiche e intolleranti dell’uomo e della vita, sono state al centro di un’esperienza importante compiuta nei secoli scorsi, ma oggi rappresentano un fatto scontato e, in certo senso, equivoco. Il loro ritorno può essere dovuto solo a un richiamo di cultura e di intelletto e non a un’esigenza profonda dell’esperienza umana dello scrittore. Di qui il carattere di divagazione letteraria e di pezzo di bravura che viene ad assumere questo racconto, di qui quell’inevitabile rivolgersi ed ammiccare quasi – in ogni piega del periodo, in ogni sfumatura delle parole – a una ristretta cerchia d’intenditori (a dei Bellonci in folio per spiegarci), da qui l’assenza di quell’adesione col lettore che caratterizzava Il sentiero dei nidi di ragno dove la favola di Calvino s’incontrava con un’esperienza decisiva e sofferta del nostro tempo: con la guerra partigiana.
E per questo, come dicevamo all’inizio, molti (operai, contadini, intellettuali) forse non leggeranno il Visconte dimezzato. Perché non è scritto per loro.

giovedì 17 settembre 2015

Date a Florenzi un gol da tre punti


Questo gol è la prova di un'ingiustizia. Sei a sessanta metri dalla porta. Acceleri, alzi la testa, guardi laggiù. A quel punto ti viene un’idea, la cosa più vicina alla follia che si possa immaginare con un pallone accanto al piede. Scarti l’idea di scartarla perché davanti a te c’è il tempo, c’è lo spazio e c’è il modo. Prendi la mira, calci come se fosse un lancio e per il resto devi solo rimanere a guardare come va. Ma quando finisce dentro, ecco, l’ingiustizia è compiuta, perché un gioiello del genere alla fine vale uno, soltanto uno, esattamente quanto un gol di Inzaghi in fuorigioco o uno strafalcione di Comunardo Niccolai. Basterebbe avanzare di un paio di canali con il telecomando per capire quanto tutto questo sia immorale, basterebbe osservare nello stesso istante Danilo Gallinari che fa canestro da poco meno di sette metri e prendersi tre punti anziché due.

mercoledì 16 settembre 2015

Un giorno diremo: rovesciata alla Pinilla

La prima volta che accade può essere un caso, la seconda una coincidenza, la terza rivela un’attitudine. Ma alla quarta, eh, alla quarta c’è la prova, si scopre la verità: esiste una relazione fra un colpo e il suo autore. Anzi di più: il colpo e il suo autore sono la stessa cosa. Quel gesto è lui. Coincidono. E allora: Mauricio Pinilla uguale rovesciata. Non un copyright, ma certamente un marchio. La cosa è assai curiosa per uno dei tanti deppisti (da Johnny Depp) del calcio, un tipo rock, irriflessivo, eppure incline all’anti-eroismo, al punto da tatuarsi dietro la schiena l’immagine della sua sconfitta più cocente, una traversa colpita al 119’ contro il Brasile ai Mondiali. Pochi centimetri più giù e quella sera a Belo Horizonte sarebbe cambiata la storia del calcio di due Paesi: il Cile sarebbe tornato ai quarti di finale dopo oltre mezzo secolo, e al Brasile non sarebbe più toccato di prenderne sette dalla Germania.

domenica 13 settembre 2015

Il ritiro di Flavia Pennetta: pensieri e parole

abbra "Lasciami dire ancora una cosa"  

Ecco, ci siamo. Adesso lo dico. Fabio lo sa. Lo sa da tanto. Lo sa da quando a inizio anno abbiamo cominciato la nuova avventura, una nuova stagione, un nuovo giro del mondo, i tornei, gli alberghi, i ristoranti. Ogni volta che finiva New York ci pensavo. Questo è l'ultimo. Poi proseguivo. Ora è vero, ora è tutto vero, sparo questa verità in faccia al mondo con una Coppa in mano. Anche Roberta lo sa. L'ho battuta e gliel'ho detto, poco fa, prima, a bordo campo, mentre lei si copriva le labbra con l'asciugamano per dirmi tu sei matta, tu sei sempre stata completamente matta. Forse ha ragione lei, forse ci vuole più follia che ragione per andarsene così. Per questo non lo fa quasi nessuno. Io non la chiamo follia, io lo chiamo sentimento.

venerdì 11 settembre 2015

Hateley, flagello e scagnuffo


C'È questa foto in cui un uomo dai capelli lunghi a un certo punto fa partire un colpo di frusta. La frusta stava nel suo collo. «A volte penso che quel gol abbia aiutato il Milan a mettersi alle spalle gli anni bui». Mark Hateley è nato a Derby, e dove se no. Quando nel 1984 brucia a quel modo Zenga e l'Inter, pare davvero il flagello di dio. "È una forza della natura: negli stacchi per incornare non ha eguali al mondo" scrive Gianni Brera. L'anno dopo lo chiamerà "scagnuffo", uno ancora ed era "imbrocchito".
«Rimarrà per sempre un gol diverso. Perché lo fu per la gente. Il Milan non vinceva un derby da 6 anni, era stato in B due volte, il mio avversario era Collovati, andato via dopo la retrocessione, e i tifosi erano offesi con lui. Quando vidi arrivare il pallone, pensai solo a salire più in alto di lui».

lunedì 7 settembre 2015

Go Nagai

Prima ancora di diventare adulti che avrebbero poi rimpianto d'essere cresciuti, gli ex ragazzi degli anni Ottanta sono stati bambini che non vedevano l'ora di diventare grandi. Prima ancora che subentrasse la sindrome di Peter Pan, c'è stato un tempo in cui crescere sembrava straordinario, e straordinario era sentirsi più coraggiosi dei propri anni, specchiarsi in Goldrake, Mazinga e Jeeg, quei corpi d'acciaio arrivati in tv dal Giappone e dai suoi manga, e che rendevano l'adolescenza un'età meno impacciata. La vera grande novità di quelle storie consisteva nel fatto che dentro le gabbie di metallo in grado di lanciare alabarde spaziali e il doppio maglio perforante vivevano figure che criticavano il mondo degli adulti, che sapevano farsi ascoltare, e rispettare. A quel fenomeno che stravolse abitudini e gusti è dedicato il libro scritto da Giorgio Giuliani e Carlo Mirra: una biografia ragionata, Go Nagai , del padre dei nuovi eroi, che proprio oggi compie 70 anni. Go Nagai era nato un mese dopo l'apocalisse atomica scatenata su Hiroshima e Nagasaki. Lo sviluppo tecnologico e la battaglia del Bene contro il Male sono i due grandi temi a cui ha dedicato la sua vita artistica. Si era formato sulle illustrazioni di Gustavo Doré alla Divina Commedia. Goldrake e i suoi amici crearono un pubblico nuovo. I mecha, i super robot, furono il primo piolo di una scala che ci ha portato fino a Harry Potter, a Panem e agli Shadowhunters. Le mamme provarono a resistere: i cartoni giapponesi mostravano la violenza, e oltre le camerette dei bambini c'era già il terrorismo. Go Nagai rispose: «A loro direi di non lottare contro Mazinga. Meglio averlo alleato che avversario, il mio robot». Chissà poi alla fine chi vinse.

(la Repubblica, 6 settembre 2015)

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domenica 6 settembre 2015

Il papà di Mazinga e Goldrake


1982. “Dietro il nostro rancore di genitori, di nonni, di zii costretti a spendere soldi, rabbia e inutili prediche per limitare l’invasione della fantasia infantile c’è, inconfessabile, il senso di un’ammirata sconfitta. Si chiama Go Nagai, il nostro avversario, e la sua matita sta alla cartoonistica giapponese come la Dormello Olgiata sta al purosangue: dal suo centro di produzione sono usciti i Nearco, i Tenerani, i Ribot che hanno galoppato nei cieli delle televisioni di mezzo mondo, dall’Indonesia alla Francia, dalle Filippine all’Italia. Per milioni di uomini e donne, domani le immagini ricordo dell’infanzia saranno queste, non D’Artagnan e Zane Grey, e neppure Tex Willer o Mandrake”.
Così scrisse Vittorio Zucconi nel giorno in cui ebbe davanti a sé il papà di Mazinga, Goldrake e Jeeg robot. In Italia tutto era cominciato quattro anni prima, su Rete 2, intorno alle sette di sera, più o meno nella stessa fascia oraria in cui Rete 1 aveva abituato il pubblico alle rassicuranti storie di Fonzie o della famiglia Bradford.

sabato 5 settembre 2015

La fucilata eretica di Saronni

saro   Una fucilata, si disse. Forse perché Saronni vinceva sempre in volata, lasciava dietro di sé come il rumore di uno sparo, bang, e invece stavolta aveva fatto le cose in grande. Una fucilata, si disse, forse perché pochi la videro partire, e quando tutti la sentirono ormai era tardi, ormai era arrivata. Due mesi prima l’Italia di Bearzot aveva vinto i Mondiali in Spagna. Saronni a Goodwood, Inghilterra del sud, una ventina di miglia dalla Portsmouth di Dickens, chiudeva in quel modo l’estate più bella di sempre.

venerdì 4 settembre 2015

Il giorno che vinse Moser

moser77 Restarono in due, ed erano abbastanza. Uno era un tedesco, Dietrich Thurau, la cui ferocia veniva mascherata dietro il nomignolo di Didi, forse perché sembrasse innocuo. Aveva vinto l’estate prima tre tappe al Tour, aveva tenuto la maglia gialla per 18 giorni e alla fine in classifica s’era piazzato quinto. L’altro era Moser, Francesco, che non aveva ancora vinto una delle sue tre Roubaix ma aveva già perso due Mondiali dietro l’altro. La Germania nel ciclismo non aveva il rispettabile peso di oggi. Nel giorno in cui a San Cristobal, Venezuela, 4 settembre 1977, Didi Thurau si trova a 3 km dal titolo mondiale, il suo paese aveva avuto solo una volta un corridore fra i primi tre del Tour de France (Kurt Stoepel nel ’34), mai nessuno al Giro e un solo vincitore in 75 Parigi-Roubaix (il primo, Josef Fischer, noto anche per le sue sfide contro i cavalli). I due campioni del mondo partoriti fin lì, Heinz Mȕller nel ’52 e Rudi Altig nel ’66, pur nella loro eccezionalità parevano finanche uno sproposito.

mercoledì 2 settembre 2015

Quando un colpo di tacco non è vanità

L'assist di tacco di Meggiorini in Chievo-Lazio
L'assist di tacco di Meggiorini in Chievo-Lazio

IN fondo un assist che cos’è: il punto più alto nella domenica di una squadra riuscita, il segno di un’intesa, della sua concordia. Il narciso dribbla, il generoso passa. Riccardo Meggiorini tutt’e due. Ha due anime in un corpo solo. Vede questo pallone che sta scappando oltre la linea di fondo e interpreta la scena come se fosse dentro una di quelle vite che piacciono tanto a Ligabue. Gonfia polmoni da mediano, lui che sarebbe un attaccante, e si mette a inseguire la palla come l’assoluzione un peccatore. Non solo. Quando s’accorge che l’unico modo d’afferrarla sarebbe lanciarsi in scivolata, una volgarità da stopper di provincia anni Settanta, lui proprio in scivolata si lancia, a costo di perdere ogni traccia di nobiltà e passare per gregario. Ecco. Quello è il momento in cui si sdoppia Meggiorini, l’istante in cui all’estetica della fatica sostituisce la dimensione del sollazzo. Dentro un’azione di fango infila una vena d’oro. Adopera l’unica parte del corpo che nel calcio può farti passare per un genio o per un cretino, il tacco, dipende solo da te, da come lo usi, e quando; la parte che più d’ogni altra s’identifica con l’egocentrismo e la frivolezza; ma trasformando così un colpo colmo di vanità in un gesto d’altruismo. Assist di tacco, di controbalzo e senza guardare. No-look direbbero al basket. Troppo. Il capolavoro è suo, il gol di Paloschi. Come commentò Pablito Rossi a proposito del cross di Bruno Conti nella semifinale mondiale ‘82 con la Polonia, sul pallone c’era scritto: “Basta spingere”.

martedì 1 settembre 2015

Addio a Cancogni, un premio Strega ai Mondiali

canco
Manlio Cancogni, morto oggi a 99 anni
"Vedendo avanzare quella sagoma potente avevo provato una sensazione di vuoto allo stomaco, e come se una mano estranea avesse sospeso le mie facoltà vitali". Manlio Cancogni era rimasto affatturato da Coppi, dal suo lento avanzare in salita, lento ma meno lento degli altri. Quando il grande Fausto morì, così lo celebrò, in due pagine sull’Espresso, rievocandone un’impresa sull’Appennino in Toscana. Cancogni raccontava di un nubifragio che l’aveva sorpreso e di essersi rifugiato con un collega a Pistoia, in un sottopassaggio. “D’improvviso schiarì e apparve, in fuga, sulla strada lucida di pioggia, lui, Coppi…”. Era bartaliano, Cancogni: lo trovava più intelligente, mentre Coppi gli appariva nevrotico e malinconico: “Aveva la morte addosso”. Il Giro d’Italia lo aveva seguito da inviato, sin dal ’48 per “Il mattino dell’Italia centrale” di Firenze, secondo la tradizione italiana di arruolare scrittori dietro il ciclismo: Campanile, la Ortese, Buzzati, Pratolini, Malaparte, Gatto, Parise, Zavattini. Va detto che il rapporto fra la cultura letteraria italiana e lo sport è stato a lungo controverso, segnato da una discriminazione, dal pregiudizio che esistesse una materia “alta” e una materia “bassa” (lo sport era materia “bassa”), poi per l’uso propagandistico che il regime fascista aveva fatto delle vittorie sportive, infine in qualche misura anche da questo registro letterario adottato dalle pagine sportive dei quotidiani. Come se il pubblico potesse vedere soddisfatta già lì la propria voglia di narrazione sportiva. Cancogni viveva invece la passione per lo sport senza transenne. Un anno dopo aver vinto il premio Strega con “Allegri, gioventù” (Rizzoli, 1973) andava ai Mondiali di calcio in Germania per il Corriere della Sera. Nel ’58 aveva scritto di atletica per la Stampa dagli Europei di Stoccolma e solo due anni prima aveva dedicato uno dei suoi romanzi a un cavallo da corsa “La carriera di Pimlico”: un cavallo da piazzamenti, mediocre, una storia di sofferenza, la condizione dell’uomo medio, scrisse l’Unità “appena accesa da qualche sprazzo di successo in una società che tutto sacrifica al mito del purosangue e della meritocrazia borghese; una società scuderia in cui la massima libertà concessa è il capzioso allentamento delle briglie, per dequalificare e sfruttare altrimenti le residue energie dell’uomo-massa”.