mercoledì 25 luglio 2018

CR7 e la Juventus, l'ultimo strappo dalla Serie A

Non si tirano fuori 350 milioni di euro per vincere un ottavo scudetto di fila, un nono e un decimo; forse nemmeno per dare la caccia alla Champions vale la pena spingersi a tanto. Se la Juventus avesse comprato Cristiano Ronaldo soltanto per vivere gioie che in fondo già conosce, i suoi soldi resterebbero una spesa. Invece sono altro, sono un investimento, sono il prezzo per la resa dei conti definitiva con una dimensione a cui la Juventus sente di non appartenere più. Sarà questo il tema politico e mediatico nel calcio italiano dei prossimi mesi.
La Juventus non sta allargando la distanza con il resto della serie A per accrescere il numero dei suoi titoli; lo fa per andarle oltre, per scrollarsela di dosso, per far diventare la sua egemonia una questione da porre e da risolvere fuori dal terreno su cui la esercita. Prendere Ronaldo e vivere coerentemente con lui non significa battere chi è stato già battuto con Zaza, e neppure superare finalmente quelli che Ronaldo ce l'avevano prima.
L'ingaggio di Ronaldo ha un senso perché aprirà la strada - con un timing perfetto - a discorsi rotondi nelle sedi giuste, in modo da superare i campionati senza storia come quelli in Italia, Germania, Francia.

sabato 21 luglio 2018

La partita che si giocò in una sola metà del campo

La polizia municipale si presentò allo stadio un attimo prima che fosse battuta la palla al centro. Gli austriaci erano tutti schierati, secondo l’ordine che li aveva resi celebri nel mondo [1]. Josef Bican si spazientì perché aveva già piazzato la suola della scarpa sul pallone e nessuno fino a quel momento lo aveva mai obbligato a tirare il piede indietro. Ma il tenente era stato perentorio, aveva tra le mani un foglio di carta che non lasciava spiraglio agli equivoci, chiese di potersi appartare con i due allenatori e a loro per primi comunicò che la partita non poteva cominciare. Marcello Lippi aveva mezzo consumato il quarto Mercator della sua giornata, Hugo Meisl pensò che come al solito, con gli italiani di mezzo, c’era sempre qualche casino che spuntava, ma nessuno dei due aveva alcuna intenzione di rinviare. “Ho qui la relazione definitiva della commissione d’inchiesta sulla staticità dei campi di calcio di tutta la Cacania” [2], disse il tenente allargando le braccia, quasi scusandosi, “e l’analisi finale della commissione di vigilanza sull'agibilità. Metà campo sorge su sottosuolo vuoto. Mi duole comunicarvi che non ci sono le condizioni di sicurezza necessarie per giocare”. Disse così, disse proprio: mi duole, e senza neppure attendere una replica, voltò le spalle e si avviò verso i cancelli ai quali mettere i sigilli.

venerdì 6 luglio 2018

Soldado, il film americano di Sollima


ROMA. Eravamo sarti raffinati e grandi musicisti, montatori, direttori della fotografia e maghi degli effetti speciali. Eravamo affidabili artigiani a cui consegnare un pezzo di film, con la certezza che Ferretti-Lo Schiavo, o Milena Canonero, o Storaro, o Moroder e Morricone, Scalia o Rambaldi avrebbero reso speciali una scena, un taglio di luce o anche solo il profilo di un alieno, il dettaglio indimenticabile del suo dito indice puntato su telefono-casa. Italians, diceva Hollywood, e si pensava a loro. Ora gli Italians reggono le macchine da presa, con una continuità e un'espansione che nel nostro cinema si erano viste raramente. "Le porte le ha aperte Gabriele Muccino una dozzina d'anni fa. Se lui non fosse andato in America, tutto questo non esisterebbe".

Stefano Sollima è l'ultimo a essersi meritato la chiamata. S'è accomodato pochi giorni fa in una poltrona dell'Amc di Marina del Rey, "la mia sala cinematografica preferita al mondo", e ha guardato in anteprima la versione finale del suo Soldado, il sequel di Sicario, giocattolino da cinquanta milioni che Hollywood gli ha messo tra le mani perché il suo viaggio partito dal male di Gomorra. La serie è stato giudicato convincente. Il film esce oggi negli Stati Uniti, noi lo vedremo a ottobre.