martedì 31 maggio 2016

Il paradosso Zidane

Zidane allenatore non è mai esistito. Zidane allenatore era un'idea di cui sorridere, se non addirittura sospettare, maliziosi, come hanno fatto in Spagna, dove certe volte pareva la geniale idea venuta a un padre per aiutare la scalata alla gloria di suo figlio calciatore.
Zidane allenatore sembrava un controsenso, primo perché i grandissimi del campo si trascinano sempre un certo imbarazzo in panchina - con l'eccezione di Cruijff - e secondo perché al Castilla, la succursale del Real, Zidane aveva iniziato la sua seconda carriera con cinque sconfitte nelle prime sei partite. Solo che il calcio conosce mille maniere per burlarsi di noi. Compreso mettere Zidane sulla panchina della squadra più ricca del mondo, e fare di lui il primo allenatore francese in grado di vincere la Coppa dei Campioni. In realtà i francesi si attribuiscono pure il passaporto di Helenio Herrera, di nascita argentino. Ma da oggi probabilmente vorranno dimenticarsene, da oggi vorranno essere certi di aver visto nascere una Storia.

venerdì 27 maggio 2016

Da Borg al nulla: cos'è successo alla Svezia nel tennis


STOCCOLMA. Thomas corse a rete sulla smorzata dell’avversario, aprì il dritto, appoggiò la palla nell'angolo alla sinistra del russo Safin, e poi alzò lo sguardo per vedere dove andava a morire il pallonetto. Oltre la riga. Aveva vinto. Non si inginocchiò, non lanciò la racchetta, non baciò il cemento di Melbourne. Strinse banalmente i pugni e sorrise. Un gesto normale. “Non ebbi la sensazione che fosse qualcosa di storico”. Nel gennaio 2002 la Svezia stava vincendo il suo ultimo Slam e non lo sapeva. Nella terra che dagli anni ‘70 associamo al tennis, non ci sono più campioni. Spariti in 14 anni. Non manca solo chi sia capace di vincere al Roland Garros, manca un titolo in un qualunque altro torneo, mai una finale negli ultimi 5 anni, neppure una semifinale, né un giocatore fra i migliori 100 al mondo. Ce ne sono in tutto due fra i primi 400. Come un Brasile senza calciatori.

martedì 24 maggio 2016

Pantani e la torrida tristezza: vita da ciclisti




Ieri, giornata di riposo, ho lavorato più del solito. Penso a voi, cari lettori, e taccio tutto il possibile per tenervi informati. Dopo tanto gridare al telefono fino a mezzanotte per giungere a tempo in pagina, ieri sera mi hanno dato l’occasione di dire quattro parole alla radio. “Parli piano e calmo” mi hanno consigliato. Finalmente, mi sembrava di respirare. M’avete ascoltato? Parlavo del Giro. Oh! Se avessi potuto ascoltarmi, io stesso, in una piazzetta del mio paese... [1].

domenica 22 maggio 2016

Le Dolomiti e i cristi crocifissi di Buzzati


La pianura era ormai un ricordo. Era cancellato il sole leggero del Friuli, l’ordine gentile e austero, d’intonazione tutta asburgica, di questa terra che sembra nostalgica soltanto della disciplina e della serietà d’un tempo ormai remoto, d’una epoca in cui la campagna era ancora la gran madre. La gente della pianura era salita sulla montagna e il biancheggiare della folla disegnava sul verde compatto dei prati e dei boschi il serpeggiare della salita [1]. "Abbiamo finito con il comprare zollette di zucchero, cioccolato piccole bottiglie di cognac: provavamo quasi orgoglio di salpare per una avventura dalla quale chissà come saremo sbucati poi al sole e alla vita calma di tutti i giorni. Ridevamo di noi stessi, contenti e infagottati di maglie e di giornali" [12]. "Le Dolomiti sono belle e scintillanti come spade. Appartengono all'Iliade del Giro. Promettono gloria e ferite" [2].

venerdì 20 maggio 2016

La bicicletta e l'aria della montagna


"Si va sulle montagne. Ciascuno con i suoi sogni e le sue ferite. Vedremo il corridore che si torce, si flette, spasima. L'immagine a pedali dell'evangelico "Sitio", ho sete. E lì, anche tra i battuti, ci saranno tracce di splendore" [1], "sul ring più grandioso e solenne che la natura possa costruire con i suoi giganteschi e favolosi operai dell’alta montagna [2].
"Le tappe di montagna ci sono sempre state, ma se ci si mette anche la natura, allora il Giro assume quell’aspetto di realtà romanzesca, che era stato il lato più entusiasmante e sadico delle sue prime edizioni. Il Giro non è soltanto ciclismo, si sa. E’ anche erculeismo, capacità di soffrire fino all’annientamento." [3]. "Più o meno consapevole, il tifoso guarda al Giro come a un western: le sequenze di tappa, le fughe tormentose, le salite micidiali, il caldo che cuoce e prosciuga, la neve dei passi alpini, la solitudine delle cronometro, sono fotogrammi obbligati di uno spettacolo che è paragonabile alle epopee filmiche raccontateci da Ford, da Sturgess, e anche da quei registi degli spaghetti-western all’italiana pieni di fumo, boccacce, terrori tanto esagerati da spingere al riso. Un western molto popolare, molto nostrano. Con i suoi eroi tipici, le figure incorniciate secondo le tradizionali caratteristiche. Ecco dunque i Tom Mix, i Buffalo Bill, i Corbett, i Jessie James, e chi li interpreta: Gary Cooper, John Wayne, i vecchietti catarrosi e petulanti di contorno, il medico ubriacone, la donna fatale ai margini della strada, l’assalto alle fontane come alla diligenza, il tormento della fame come se anziché su un sentiero che corre tra mille osterie campagnole il corridore si trovasse tra le Montagne Rocciose. Ecco gli accampamenti, ecco le rincorse tra una banda di cowboys e l’altra, ecco la “rapina” di un traguardo, organizzata tra misteriosi accordi come l’irruzione dentro una banca" [4].
"Uno degli avvisi più diffusi dalla Gazzetta dello Sport ai bordi delle strade, appena il percorso accenni a salire, è quello rivolto agli spettatori un tantino fanatici: “Non spingete i corridori”. Non spingerli in salita va bene, ma spingerli a pedalare un po’ più in fretta in pianura, sarebbe stato un avviso non del tutto riprovevole. E’ vero che i corridori pensano alla salute, al prossimo Tour, alla fidanzata, alla mamma e a tanti altri cavoli loro. Giustamente. Ognuno sa gli affari suoi. Non mi pare tuttavia che sia troppo chiedere loro un minimo di adesione alle tabelle di marcia compilate con largo spirito di comprensione dagli organizzatori" [3]. "Quello che un osservatore disattento potrebbe scambiare per “entusiasmo” – in fondo scusabile – è null’altro che manifestazione d’una profonda diseducazione morale. Atto vergognoso, dunque, per usare la definizione venuta spontanea sulle labbra di tutti. Esiste, oppur no, un rimedio per sopprimere e punire, od energicamente arginare questo malcostume che tanto danno arreca a uno sport la cui esistenza è notoriamente avviata su una brutta china, che lo porta al caos?" [5]. "E adesso rimangono solo le montagne. Come se a calcio, esauriti anche i tempi supplementari, rimanessero solo i calci di rigore. Come se a carte, bruciati gli scartini, in mano sopravvivessero solo carichi e briscole. Solitudine Le montagne sono il giudizio universale, la giustizia giusta, la verità vera. Ai piedi delle montagne i corridori si spogliano di tutto, come davanti a una divinità cui interessa soltanto l' anima, non il corpo, né tantomeno l'abito. Perché ai piedi delle montagne non c'è più squadra o compagno, non c'è più tatuaggio o bandana, non c'è più Twitter o Facebook, non c'è più parola o gesto o smorfia, si è nudi e crudi, si è soli con se stessi eppure contro se stessi, si è liberi ma non si è necessariamente belli o forti, si è quello che si è. E quello che si è, è quello che si ha. Non essere o avere: ma essere e avere. Se ne hai, sei, e vai. Se non ne hai, non sei, non ci sei, non vai da nessuna parte, e amen" [6].
"La gente li saluta felice. Pensa solo alla loro forza, non legge entro le loro rughe fonde la maschera della fatica. La gente li vede una volta sola nella vita, per la frazione d’un minuto. Lancia fiori, grida, s’esalta, li sospinge con l’urlo febbrile. Le ragazze strillano, lanciano baci, si premono le palme sul petto affannato. Nessuno vede, nessuno ascolta il loro vero respiro, nessuno ha tempo di scrutare la nebbia delle loro palpebre stanche, di guardare le bocche deformate dalla sete, le labbra maculate dalla polvere, le mani rattrappite dallo sforzo sul manubrio. Ma io non sono «la gente che applaude allo sforzo generoso»: io sono uno che, un po’ per vocazione e un po’ per mestiere, va da venti anni pedinando solamente lo spettacolo della loro fatica, misurando lo spasimo e l’angoscia, l’accendersi delle speranze e l’intenerirsi della delusione. E ho visto, prima d’oggi, tante altre volte andar su per le salite del monte, sotto la tonnellata del sole e sotto il cilicio della pioggia, tanti altri che, come questi, furono un giorno famosi e di cui, un po’ alla volta, la memoria va impallidendo" [7].
A quattro chilometri da Cividale c'è Firmano, "frazione di Premariacco, circondato dalle discariche. Questa è la storia di quelli che ci vivono, raccontata da loro. Sono 250 e intorno hanno 7 impianti di smaltimento rifiuti, fra attivi, esauriti e in allestimento. Le donne di Firmano, si chiama il gruppo nato spontaneamente, senza una presidente né una segretaria. Sono loro che girano per i paesi del circondario chiedendo appoggio e solidarietà (senza grandi risultati). Sono loro che, ai tempi, hanno scritto a Cossiga. Sono loro che, prima di Natale, hanno fatto stampare una cartolina d'auguri con un Babbo Natale e tre foto di discariche, e la scritta "Buon Natale e felice anno nuovo da Firmano, capitale delle discariche". L'hanno spedita a tutti i parlamentari, a Scalfaro, ai consiglieri regionali, al vescovo. Nessuno ha risposto. Le donne di Firmano mi hanno dato appuntamento al bar-trattoria-tabaccheria Marina, che è l'unico esercizio pubblico della frazione. Vende anche pane, alimentari, un po' di frutta. Per la spesa si va a Premariacco o a Cividale. Nel bar c'è una collezione di vecchie radio, dei poster di Sauris, dove c'è sicuramente un'aria migliore. Abbiamo unito i tavolini, le donne hanno dai 25 agli 80 anni e due cose in comune: vivono a Firmano e sono esasperate dalla puzza. Il problema, all'inizio, è che parlano tutte insieme. Non sono abituate a vedere giornalisti, da queste parti. La storia che puzza non è mai andata oltre i giornali della regione. Ci sono anche tre uomini. Che puzza è, chiedo. Si consultano in friulano. Risposta: "Molto forte, tra la fuga di gas e il cadavere in decomposizione". Quando arriva? "Ci sono due orari quasi fissi, alle 7.45 e verso le otto di sera. Dipende dal vento e dalla bassa pressione. A volte dura 3 giorni di fila. D'estate pareva di morire. Il guaio è che adesso andiamo verso la bella stagione, quando si vorrebbero tenere le finestre aperte".
Parla uno degli uomini, il più anziano. Si chiama Antonio Duriavig, ha 74 anni. "Ho lavorato 12 anni in Belgio, in miniera, e poi alla Fiat Mirafiori. Prima della guerra la mia famiglia era andata in Libia. Sempre sgobbato, come tutti qui. Fino all'87 era un paradiso, poi mi mancava il fiato, ogni giorno devo prendere due pastiglie e uno spray. Si stava meglio in guerra, che almeno avevo un nemico, un fucile lui e uno io. Qui siamo disarmati, contiamo nulla". E sua moglie Angelina: "A me vengono dei mali di testa che non vanno via neanche con la Novalgina. E nausee". Parla un' altra donna, Marina Polentarutti. "Mio figlio è andato a cogliere dei ladrichs (è un'insalata di campo, ndr) e già mentre li curavo mi piangevano gli occhi come nemmeno con le cipolle succede. Li ho messi a mollo per tutta la notte, ma puzzavano ancora tanto. Allora li ho bolliti, perché si mangiano anche bolliti, con le uova sode, ma puzzavano. Per caso è passato il veterinario che m'ha detto: non mangiate quella roba lì, piuttosto fatela analizzare. Allora siamo andati a Udine col pentolino e al laboratorio ci hanno chiesto: di dove venite? Da Firmano, ho detto. E loro hanno detto: ah, allora si capisce tutto. Ma non è solo questo: le pecore non mangiano più l'erba, la annusano e non la toccano". I cavalli rifiutavano il fieno di Firmano già nell'87, e uno dei primi a dare l'allarme fu don Giorgio, parroco di Gagliano. Nell'88 quelli di Firmano restituirono i certificati elettorali, nell'89 raccolsero in giro 6 mila firme. Nel '97 stanno peggio.
Un'altra donna, Luigina Liberale: "Lampo, il mio cane lupo, non vuol più stare fuori quando arriva la puzza. Raspa alla porta e si nasconde in soffitta". Una delle più giovani, Paola Tonutti: "Almeno il tuo cane è vivo. Ne son già morti quattro di tumore, e anche molti canarini. Anche sulle piante, azalee, rose, rododendri, spuntano delle escrescenze come piccoli tumori. Io le butto via per non pensarci, ma poi ci penso. Tra due giorni faccio un'altra gastroscopia. Non è solo la puzza, dev'essere l' aria. Mi vengono macchie sulla pelle, sul cuoio capelluto. Ci siamo informate, un'analisi dell'aria costa almeno un milione, e qui spendiamo già molto di medicine". Marianna Pace: "Mio figlio si lamentava del male agli occhi, ho pensato a un colpo d' aria, sa il motorino. L'oculista ha detto che è allergia o irritazione per qualcosa che c'è nell'aria. Abitiamo a 400 metri dalla discarica". Rina Vanone: "Mia nuora Sonia, 32 anni, 2 figli, sanissima, mai avuto niente. Le hanno fatto il trapianto del midollo. I medici hanno parlato d'inquinamento. L'altra sera siamo andati a letto senza cenare, la bambina continuava a vomitare. Il padrone di uno degli impianti ci ha detto: io gli impianti li ho fatti, li faccio e li farò quando, come e dove voglio". Paola Indrigo: "Io prima di sposarmi stavo a Monfalcone, proprio accanto alla Centrale elettrica. Vai dalla padella nella brace, mi ha detto un amico medico quando mi sono trasferita a Firmano. Sono le donne ad avere il peso maggiore della puzza, gli uomini la mattina vanno via presto, a lavorare. Quando arriva la puzza, devi smettere, qualunque cosa tu stia facendo. Bruciano gli occhi, vomiti. E' come essere in una camera a gas, perché la puzza entra dai buchi fatti per legge nel muro, per il gas. Chiudere le finestre non serve. Noi ce ne andremmo anche, ma chi compra a Firmano? Nemmeno alla metà". Walter Nadalutti: "Io abito a Ipplis, ma col vento la puzza arriva anche lì. Ho lavorato in Honduras, che quando c'erano 40 gradi all'ombra sembrava di star freschi, e poi i dollari servivano per la casa. Ho lavorato alla Danieli, a Buttrio, e la mattina presto bisognava stare attenti a non investire una lepre, un fagiano. Non ne vedo più. Dai campi sono sparite anche le rane. Io dico: se fa tanti danni una discarica piccola, cosa succederà con quella venti volte più grande?". Giannina Liberale: "Io sto nella casa più antica, e a forza di passarci davanti i camion dei rifiuti, anche tedeschi, l'hanno crepata. Un giorno mi hanno fatto una Tac d'urgenza, a furia di vomitare ero diventata nera in faccia". Luigina, sua sorella: "Noi non ce ne vogliamo andare, è la casa dei nonni, dei padri. Vogliamo difenderla, anche se la casa di famiglia sta diventando la tomba di famiglia. L'imprenditore dice: io faccio il mio mestiere. E a noi chi ci tutela? C'è da andare giù di testa. Ci hanno tolto l'aria e la dignità, deve proprio morire qualcuno perché ci si occupi seriamente di Firmano?". Michelangelo Durante: "Io abito a 150 metri dalla Prefir e a 500 dalla nuova Gesteco. Ho la fortuna di studiare a Udine, ma i miei sono stati spesso male, mia madre è anche svenuta e il mal di testa con normali analgesici non passava, all'ospedale le hanno fatto le endovene. Sappiamo che il problema dei rifiuti esiste, e che questa è zona vocata. La rabbia nasce dalla cattiva gestione degli impianti (non copertura, non impermeabilizzazione), non dalla loro esistenza. Alle Usl ci hanno detto: in casi così, bisogna aspettare dieci anni per capire cosa succede. Ma da dieci anni ci sentiamo cittadini di serie C, oggetti di sperimentazione, non comunità da tutelare".
Ancora Paola Indrigo: "A parte lo star bene, a quante cose abbiamo rinunciato: a raccogliere le erbe spontanee, a bere l'acqua del rubinetto, che prima era buonissima. Solo bottiglie di minerale. Io non uso più nemmeno la verdura dell'orto. Il biologo m'ha detto che prima di consumarla dovrei farla analizzare. Ma si può passare la vita a fare analisi? E che vita è?". Sono storie di vita sempre più difficile. Firmano è un pugno di case, quasi tutte villette. Da un lato il fiume Natisone la separa da Premariacco, dall'altro le fanno corona le discariche. Di rifiuti urbani, una di rifiuti tossici nocivi (esaurita), una di rifiuti speciali (ma non tossici, non nocivi, non marcescibili, non putrescibili, e allora come si spiega la puzza?). Ma incombe, in allestimento, una discarica enorme, per rifiuti tossici nocivi, autorizzata (decreto del 6 ottobre '95) su parere favorevole del ministero dell'ambiente, contrari Usl, Comune e Regione. Prevede un presidio sanitario ed esami biennali di mutagenesi sugli esseri viventi (persone, animali, piante). Un salto di qualità, per persone che già non fanno una vita normale in presenza di rifiuti normali. Un'angoscia in più, nel silenzio generale. Le donne di Firmano si alzano, chi deve andare a prendere il figlio a scuola, chi preparare da mangiare. Annoto qualche altra frase. Ha vomitato anche il maresciallo dei carabinieri. Sì, ma i carabinieri son bravi, hanno fatto già 18 verbali. I camion cambiano le targhe dietro al cimitero di Orsaria. Non sono solo rifiuti nostri, vengono quasi tutti da fuori. Fanno i soldi con le cave, prima tirano fuori la ghiaia poi le inzeppano di porcherie. Nessuno di Firmano ci lavora, non sappiamo cosa succede davvero. Ai guidatori dei camion danno mezzo milione in più se non parlano con nessuno, se non si fermano a mangiare e a bere. Non ci hanno tolto la dignità ma anche la speranza, passa la voglia di fare, anche di piantare un chiodo, che idea di futuro possiamo dare ai nostri figli, che già quando arriva la puzza non possono fare i compiti? Ormai le abbiamo provate tutte, ci manca solo di andare a Roma. No, è qualcuno di Roma che dovrebbe venire a Firmano. O di Udine. Per farla finire bene, questa storia che puzza. Che forse non è una bomba ecologica, ma è una vergogna. Le donne di Firmano mi hanno lasciato certificati medici, in cui si fa risalire alle emanazioni delle discariche l'origine di nausee, dispepsie, cefalee, epigastralgie. Ma perché siete così isolate, ho chiesto, e così poco sostenute. Perché gli altri, qui intorno, hanno paura, hanno detto. Hanno paura, gli altri. Qui Friuli, profondo est, marzo '97, un esasperato saluto dalla capitale delle discariche. Una, ora, bloccata per cinque mesi dalla Provincia: due campioni di carotatura hanno rivelato tracce di rifiuti tossico-nocivi. Una piccola battaglia vinta, per le donne di Firmano. Ma c'è ancora molto da fare, lo sanno" [8].
“Domani che cosa succederà sui passi di Pordoi e Gardena? Non si parla d’altro nei conciliaboli segreti di squadra, a tavola, durante il pranzo, al banco del bar, da un letto all’altro, nel buio, prima che il sonno piombi addosso" [9]. "Voi, corridori, che siete uomini semplici, vicini alla terra dei vivi e dei morti, non credete ai fantasmi, ma sapete soltanto che domani c’è la tappa delle Dolomiti? (...) Corridori che vi apprestate a scalare le rampe delle Dolomiti – le montagne più favolose del mondo – partite con lo spirito di Ottavio Bottecchia nel cuore. Imparate da lui – il silenzio del muratore costruisce – cosa significa avere fede in se medesimi, amare il prossimo ma operare per conto proprio, non credere alle paghe mortificatrici degli effimeri contratti ma credere nelle conquiste audaci, plasmate nella carne cruda del coraggio" [10].
note
[1] Claudio Gregori, la Gazzetta dello sport, 31 maggio 1997
[2] Bruno Roghi, Corriere dello sport, 1 giugno 1953
[3] Velso Mucci, l'Unità, 3 giugno 1962
[4] Giovanni Arpino, la Stampa, 1 aprile 1970
[5] Vittorio Varale, 23 ottobre 1962
[6] Marco Pastonesi, 23 maggio 2012
[7] Orio Vergani, Corriere della sera, 4 luglio 1946
[8] Gianni Mura, la Repubblica, 16 marzo 1997
[9] Dino Buzzati, Corriere della sera, 2 giugno 1949
[10] Bruno Roghi, Gazzetta dello sport, 1937, (in "Eroi pirati e altre storie su due ruote", Rizzoli, 2010)

giovedì 19 maggio 2016

Il metodo di Malvaldi

"Il" Malvaldi. Come un dizionario. Così dice di sé quando vuol prendersi in giro questo pisano di 42 anni, papà da sette, per dieci studente di canto in Conservatorio ("basso profondo ") e poi ricercatore di chimica alla Normale. "Diceva scemenze Einstein, figurarsi il Malvaldi". Finché sono arrivati i libri. Dieci romanzi in dieci anni, di cui sei del ciclo giallo del BarLume, dove una compagnia di pensionati fa da cornice alle investigazioni. Traduzioni in 11 Paesi, un milione di copie, la serie tv. L'ultimo libro, La battaglia navale, è in testa alle vendite da tre settimane. Tutto in casa Sellerio, sotto gli stessi colori delle copertine di Camilleri. "Parrà turpe, ma a lui devo la tranquillità economica. Se Camilleri scrive e vende, consente a uno o due giovani all'anno di provarci. Ho sfruttato la sua traccia. Oggi scrivere gialli è comodo. Passa per un'operazione culturale. Quando lui partì con Montalbano, equivaleva a farsi dare del rattuso. Per me che ne sono tifoso, stargli accanto è come giocare nel Torino".

mercoledì 18 maggio 2016

Tenetevi la precocità

PROVATE voi a dirglielo, provate a convincere Pugliesi Maurizio da Capannoli, provincia di Pisa, che passano più o meno intorno ai venti, i migliori anni della nostra vita. Perso dietro il suo sogno infantile, «perché la serie A è il sogno di tutti i bambini», non li scambierebbe di certo con i quasi quaranta che invece si ritrova. Trentanove e centoquaranta giorni per l'esattezza, nel momento in cui Joel Obi, nigeriano del Torino, stacca i piedi da terra, allunga il collo e con la testa colpisce il pallone che dalla destra Zappacosta gli ha buttato un po' alla cieca al centro. Le mani di Maurizio, sarebbe facile far battute sull'età, cedono e il pallone passa. Però che gioia aver finalmente preso un gol in serie A.

martedì 17 maggio 2016

Sono stato Schillaci

SBUCÒ dal nulla e aveva gli occhi a palla. I gol in B col Messina lo portarono alla Juve. Un anno di Juve lo portò ai Mondiali. I Mondiali del '90 lo portarono in cima. Totò Schillaci è stato un lampo, fra presidenti discussi, arresti in famiglia, telefonate registrate dall'anti-mafia, il dolore per la droga di suo cugino Maurizio: lo racconta nell'autobiografia "Il gol è tutto", domani in libreria. «La gente pensa che esista solo il campo. Invece per resistere nel calcio bisogna accettare altre cose. Io le ho accettate. Se vuoi essere un personaggio, devi stare al gioco. La sincerità è un bene a cui si rinuncia. Perciò esiste il calciatorese, quella lingua in cui si parla e non si dice niente».

Che cosa non racconta un calciatore?
«Alla mia prima partita, nello spogliatoio del Messina, c'era un barattolino di perline rosse. Pastiglie di Micoren. Ognuno ne prendeva due, servivano a spezzare il fiato. Le presi anch'io, fidandomi dei medici».

lunedì 16 maggio 2016

L'ultimo scudetto del Torino


Quarant'anni fa il Torino vinceva il suo settimo scudetto. Questa è la cronaca di quel giorno, attraverso le parole e le testimonianze d'epoca tratte dagli archivi. 
La curva Maratona è una piacevolissima orgia di rosso. Lo stadio intero ribolle d’un indicibile entusiasmo. Dopo 27 anni di sofferta attesa il Torino ha vinto il suo settimo scudetto. (…) Una cosa bella, grande, difficile da raccontare. Una cosa commovente diciamo senza ritegni e senza paure. Una festa di popolo che esulta per la sua squadra, assieme alla sua squadra. Tutti in piedi, tutti osannanti. E molti occhi lucidi di nostalgia e gonfi di ricordi a cercar Superga, là, sulla collina dietro il rettifilo dei distinti. Il nome di Valentino Mazzola che si unisce e confonde con quello di Claudio Sala, quelli di Gabetto, Ossola, Maroso sulle bocche di ognuno con quelle di Pulici, di Graziani e di Pecci. Abbiamo altre volte vissuto e goduto il giorno dello scudetto con l’Inter, col Milan, con la Juventus, ma nessuno mai come questo è stato di sicuro così intenso, così schiettamente popolare [1].
Ercole Faliva, un tubista di Codogno, provincia di Milano, 35 anni, se l'è fatta a piedi dal suo paese a Torino: partito da casa lunedì scorso, è arrivato giovedì alle 15 allo stadio di via Filadelfia dove la squadra si stava allenando. In tre giorni ha compiuto 130 chilometri alla media di 37 al giorno. Graziano Criscimanni, invece, ha scelto l'autostop: la distanza da Catania al Piemonte sconsigliava imprese podistiche. Da tutta Italia, con ogni mezzo, chi per voto chi per passione, i tifosi dei colori granata hanno marciato su Torino per assistere al giorno del trionfo. Attorno alla squadra, intanto, è fiorita una catena di iniziative commerciali: la "Boutique del tifoso" di Franco Costa non riesce a soddisfare tutte le richieste (un centinaio al giorno) di bandiere, coccarde e gigantografie del Torino; un giornalista, Salvatore Lo Presti, ha fatto stampare 50.000 copie di un suo libro sul Torino, "Profondo granata": quasi la metà sono state già prenotate a scatola chiusa [2].
Non basta rifarsi alla tragedia di ventisette anni fa, al rogo di Superga, alla lunga attesa delle tribù granatiere. Questo scudetto tinto di vermiglio, i fiori all’occhiello di tante persone costituiscono – seppur in modo inconscio – una rivincita prettamente torinese, piemontarda in ogni millimetro di osso e midollo, in ogni goccia di sangue per ogni vena. Perché la Juventus è universale, il Torino è un dialetto. La Madama è un esperanto anche calcistico, il Toro è gergo. E qui il peso del campanile trova finalmente sfogo, piedestallo, unicità espressiva, anche se l’immagine della squadra granata è amata per quanto seminarono tanto tempo fa e in ogni luogo d’Italia i gol e i lutti dei Valentino Mazzola e dei Maroso. Oggi, Torino granatiera gode. Clamorosamente. Ma si chiude anche a versare una lagrima di commozione nel groppo di tanta gioia, nel rilassarsi di tante tensioni. E si parla di calcio, di Pulici o Castellini o Claudio “poeta pelotero” solo per dar realtà a un sogno troppo vasto, quasi inabbracciabile. [3]
la Repubblica del 16 maggio 1976
la Repubblica del 16 maggio 1976
La paternità dell'impresa spetta soprattutto a Gigi Radice, brianzolo, 45 anni, detto "il tedesco" per il carattere rude e il taglio cortissimo dei capelli biondi. Assunto nell'estate scorsa, in un batter d'occhio Radice ha saputo ringiovanire, capire e correggere una squadra valida potenzialmente, ma fino allora immatura, debole in alcuni ruoli-chiave e incostante. Le componenti dello scudetto del Torino, alla resa dei conti, sono due. Gli acquisti di Caporale e Pecci dal Bologna e di Patrizio Sala dal Monza. Caporale, 29 anni, una carriera senza bagliori alle spalle, sembrava avviato tranquillamente alla pensione: Radice lo ha rispolverato facendone un libero stringato, moderno, capace di comandare a bacchetta la difesa. Pecci, 21 anni, ha saputo frenare il suo carattere ribelle e assumere la regia della squadra con la disinvoltura di un veterano. Ma la sorpresa più grande l'ha fornita Patrizio Sala, anche egli ventunenne, un fisico asciutto e nervoso, un po' come il terzino romanista Rocca, ma due polmoni a mantice. Dall'inizio alla fine del campionato ha corso senza sosta per il campo a ritmi vertiginosi sobbarcandosi una mole di lavoro massacrante. La seconda componente risiede nello schieramento tattico. Castellini portiere, Caporale libero, Santin e Mozzini sulle due punte avversarie, Salvadori (un'altra rivelazione) terzino a tutto campo, Patrizio Sala e Zaccarelli stantuffi sulle diagonali destra e sinistra, Pecci perno centrale di centrocampo a ordinare la manovra, Claudio Sala "uomo-ovunque" ma più spesso proiettato sulla fascia esterna destra, Pulici e Graziani pendolari sul fronte d'attacco: ecco lo schema di Radice. Rispetto a quello della Juventus è meno elaborato e richiede maggiore potenza, rispetto a quello che più comunemente viene seguito in serie A ha caratteristiche più spiccatamente offensive: le punte fisse sono due e sia Pecci che Claudio Sala gli offrono una collaborazione costante, risultando più rifinitori che centrocampisti. La fascia mediana del campo resta così affidata in gran parte a Patrizio Sala e Zaccarelli (chiamati a un enorme dispendio di energie), con Salvadori pronto a sostenerli: a correre sono soprattutto questi tre giocatori. Se ne giova soprattutto Claudio Sala, fino all'anno scorso geniale ma incostante, adesso - sollevato da obblighi pressanti di marcatura - più lucido, continuo nel rendimento e preciso: un calcolo statistico ha rilevato che dal piede di Claudio Sala sono partiti i passaggi decisivi per il 65 per cento dei 35 gol segnati da Pulici e Graziani. Radice, insomma, dopo avere studiato i piani a tavolino ha puntato tutto sulla coppia avanzata. Ne valeva la pena: nessun'altra squadra in Italia vanta due cannonieri del calibro di Pulici e Graziani. Per la prima volta nella storia dei campionati italiani, al primo e secondo posto della classifica cannonieri figurano due giocatori della stessa squadra. Questo è il "nuovo" Torino: più forte, sostengono in molti, del "grande" Torino, quello scomparso a Superga. Difficile fare paragoni a così lunga distanza di tempo. Allenamenti, tattiche e avversari di allora erano troppo diversi da quelli di adesso. [2]
L’impresa realizzata dal Torino di oggi è in tutto degna del Torino di allora. Essa non premia soltanto la tenacia, il puntiglio, l’impegno di un presidente come Pianelli e degli uomini che lo hanno affiancato, da anni cercando di assicurarsi i giovani più promettenti e validi con un coraggio che ha talvolta sfiorato la temerarietà e il puro rischio. Essa non premia soltanto un giovane allenatore come Radice, che ha dato prova delle sue indubbie qualità tecniche e umane, impiantando in pochi mesi una formazione logica e guidandola con gelida calma – virtù finora sconosciuta nell’ambiente granata – nel periodo più teso della stagione. Essa premia soprattutto i tifosi, rimasti incrollabilmente fedeli alla loro bandiera anche dopo il declino susseguito al terribile rogo di Superga [4]
Volere lo scudetto ha significato soffrirlo. Solo all'ultima giornata, che dico, solo agli ultimi minuti del campionato lo scudetto è divenuto granata ventisette anni dopo Superga. Il mito doloroso che sublimava un passato di gloria e che pareva gelosa memoria di un tempo perduto si aggancia oggi a questa splendida realtà e in essa si rinnova. E nessuno osa più dire - chi l'avrebbe detto - come più volte ha pensato e ha detto nelle convulse tappe del torneo, e come più volte s'è domandato con disperata trepidazione nel corso di questa stessa partita perché il Torino - come si dice - è una fede - ed il momento così a lungo atteso dopo troppe dispersioni doveva arrivare [5]
L’urto che la vittoria granatiera porta al mondo della nostra pelota è altamente positivo, propizio e da imitare. Una strada globale ma casalinga, senza inutili millanterie olandesi o teutoniche. Ed è una vittoria che farà del bene ulteriormente alle due società, ai loro diversi popoli sostenitori: perché cancella di colpo quei residui di vittimismo e di doloroso rimando che travagliavano l’animo granata; perché consente al club cugino e avversario di iniziare qualche mossa di rinnovamento; perché questo stesso club bianconero, perdendo seppure da secondo l’ennesimo titolo, scavalca di un balzo tutte le menzognere campagne contestatorie che lo hanno assillato per almeno due anni; e perché, infine, un Torino di questo stampo, in una prossima Coppa dei Campioni, sarà squadra da vedere, con curiosità e responsabilità di giudizio. La festa grande non abbisogna di spiegazioni ulteriori: è un risultato, un traguardo di per sé. I vari mediconi della critica sportiva ora si chineranno a scrutare e a diagnosticare tanti perché. Lasciamoli fare: tanto non parlano il nostro dialetto. Limitiamoci a constatare questa legge: che almeno nello sport talvolta vince il migliore. La gioia popolare parte anche da qui [3]
note
[1] Bruno Panzera, l'Unità, 17 maggio 1976
[2] Franco Recanatesi, la Repubblica, 16 maggio 1976
[3] Giovanni Arpino, Stampa sera, 17 maggio 1976
[4] Gianni De Felice, Corriere della sera, 17 maggio 1976
[5] Giorgio Mottana, la Gazzetta dello sport, 17 maggio 1976

domenica 15 maggio 2016

Il cronoman è l'ala destra del ciclismo


"E’ come i classici della letteratura per ragazzi, il Giro. E’ una storia di giovinezza, di prima primissima giovinezza. E’ la voglia di sapere chi è il ragazzo più forte di tutti. Ma proprio perché è una storia di ragazzi più incombente si fa il senso della tragedia, della morte, della sconfitta. Della vecchiaia del campione" [1]. "Il Circo ha debuttato in Toscana con una prima d’eccezione, con numeri fuori programma e un tutto esaurito" [2]. "A differenza di quella dei paesi protestanti, le domeniche dei paesi cattolici odorano di vino, di brillantina e di peccato. Il loro potere di corruzione è irresistibile. Esse vi vengono a cercare all'alba fin nel vostro letto, filtrando attraverso gli scuri delle persiane, e hanno una particolare luminosità, da cui non ci si difende serrando le palpebre. Invano si cerca di riprendere sonno, invano si tenta di dimenticare il delitto di aver lavorato gli altri sei giorni della settimana. Il buon Dio cattolico, che odia l'attività e il dinamismo, non perdona questo irridimibile peccato e vi obbliga a subirne la penitenza. Lavoratori, in piedi! Nella noia di ventiquattro ore di festa sconterete la vostra colpa" [3]."Sulle salite del Chianti l’umore battagliero degli uomini già si palesò" [4]. "Il Chianti senese è un grande parco ciclistico, un paradiso per chi interpreta la bicicletta come una compagna che regala emozioni e sentimenti. E un po' anche per la sua tradizione: dovunque, in Toscana, si respira aria di autentico ciclismo" [5]. "Su queste strade io ragazzo, cercavo scampo alla mia irrequietezza. Ecco Valdarno, ecco Val di Chiana, conosciute come il fondo delle mie tasche adolescenti, piene di sassi rosa pescati nella Sieve, di fionde, di figurine colorate, di giornali sportici e dispense poliziesche" [6]. "In Toscana è stato il grande amore per lo sport del ciclismo a creare due siepi compatte e profonde di popolo. Sui muretti, sui pendii e non soltanto nelle vie delle città, migliaia e migliaia di donne, giovani e ragazze, salutavano entusiasticamente il passaggio del Giro. Venendo su per le colline, di lontano, pareva di vedere certi fianchi del monte coperti di vigne fitte di grappoli d’uva nera, che poi da vicino si rivelavano per quel che erano realmente: gruppi densi di gente" [7]. "La bellezza in Toscana è dura, con un velo di grazia" [8]. "E' un'arma devastante, la cronometro" [9]. "Nelle cronometro non serve alcuna tattica se non quella di andare forte, in solitudine" [10].
"I ciclisti non portano in faccia le età di mezzo. Hanno volti giovani o vecchi che non dipendono dagli anni. Volti che si segnano e si sciupano tutti in un momento, in una salita, dopo una vittoria o una sconfitta, durante una cronometro. È una gara per ossessivi, la cronometro, per marziani. Il velocista è come il portiere nel calcio, non deve pensare quando scatta, deve uscire a valanga alla conquista della vittoria, (...) il cronoman è l’ala destra del ciclismo, è la solitudine dell’ala destra. Corre lungo il ciglio della strada, sulla fascia, quasi mai in mezzo, ogni tanto svaria, va a sinistra, poi torna a destra, segue una sua traiettoria mentale, dribbla i fantasmi e la noia. Solo che il ciclista non arriva mai al cross, va direttamente in rete, dopo chilometri e chilometri. Entra in rete, quando taglia il traguardo. E non gioisce. I cronomen non gioiscono al traguardo, non alzano le braccia al cielo, continuano a tenerle sul manubrio. Neanche uno scalatore, né un velocista, neppure un gregario, nemmeno se vince a sorpresa, esulta alla fine di una cronometro. Rifiata, rialza la schiena e scrolla la testa. (...) Le biciclette a cronometro sono mostruose, giocattoli futuristi per bambini cresciuti, torelli meccanici da fiera paesana – ci sali in groppa, metti un euro e ti disarcionano. Sella alta, manubrio basso dotato di corna e protuberanze che chiamano spinaci. Faccia in giù e culo in su. In posizione di discesa. Dicono, aerodinamica. Da mal di schiena, penso. Da colpo della strega. Ma è così che si va [11]. "La bicicletta è nata come anti-cavallo. Per essa l'uomo diventò somiero di se stesso e si esaltò del proprio vigore. Bicicletta e uomo si fusero con gli anni fino a suscitare misteriosissime simbiosi dinamiche. Uomini difformi piccoli sgraziati ottennero con la bicicletta risultati sportivi strabilianti. I "giganti della strada" nacquero dall'impulso turistico dei poveri e dal loro desiderio di rivincita sociale. I borghesi abbandonarono la bicicletta, di cui erano stati entusiasti, non appena si accorsero che era di tutti, e che non giovava a distinguerli. Scopersero il motorismo e lasciarono la casta ebbrezza del pedalare ai più poveri di loro" [12].
"A cronometro senti il tuo respiro come un mantice, percepisci tutti i muscoli, cerchi di modulare lo sforzo, di interpretare il tuo corpo al limite e mantenerti sempre sotto la soglia del possibile crollo, è un tempo in cui sei terribilmente solo, sei con te stesso, uno che non sta bene con se stesso non può fare la cronometro, racconta. Quando viaggi in gruppo, la maggior parte dei sensi è tesa, sul chi vive, ma ogni tanto ti distrai e vai con la mente altrove, in certi momenti riesci anche a guardarti attorno e vedere quale Italia attraversi, cogli gli odori, la natura, la gente, ma anche in gruppo sei solo, un corridore è sempre solo con la sua bicicletta, è tutt’uno con la sua bici e tutto solo, cerchi di assecondare le sensazioni del corpo, di superare le crisi transitorie, con la testa provi ad anticipare gli eventi, racconta" [11].
note
[1] Antonio D’Orrico, l'Unità, 31 maggio 1992
[2] Vasco Pratolini, Il Nuovo Corriere di Firenze, 27 maggio 1947
[3] Indro Montanelli, Corriere della Sera, 6 giugno 1947
[4] Vittorio Varale, la Stampa, 17 aprile 1950
[5] Fabian Cancellara a Marco Pastonesi, Gazzetta dello sport, 2 marzo 2013
[6] Vasco Pratolini, "Cronache dal Giro d’Italia", 1947
[7] Velso Mucci, l'Unità, 22 maggio 1962
[8] Guido Piovene, "Viaggio in Italia", 1951
[9] Mario Fossati, la Repubblica, 16 giugno 1992
[10] Gianni Mura, la Repubblica, 28 luglio 1992
[11] Gian Luca Favetto, "Italia provincia del Giro", Mondadori, 2006
[12] Gianni Brera, "Addio bicicletta", 1964

sabato 14 maggio 2016

Sulle strade di Bartali, Giusto tra le nazioni


"In una settimana siamo scesi, scenderemo ancora e risaliremo. Ma si può già tentare un bilancio. (...). È un giro ideale. Quello che la gente aspetta per ore ai bordi della strada e aspetta un passaggio che è già avvenimento e spettacolo, cosa importa se si vede meglio stando a casa? Negli ultimi giorni ho visto molti cartelli che dicevano "dai Gimondi che ce la fai" o "forza Felice". Gimondi ha smesso da anni, ma anche questo non importa: continua a pedalare nel Giro dei sogni, il Giro che manda in onda l'Italia del valzer dei caffè, come cantava De Gregori, ma anche delle canottiere e dei 54 per 13, l'Italia di Lino Banfi e del circolo di rinascita giovanile Bruce Lee (verso Gragnano), dei circhi poveri, con un leone solo e anche malandato, delle edicole zeppe di riviste porno, delle scolaresche allineate che domani si beccheranno il tema: "Il Giro d'Italia è passato dal mio paese: sensazioni e colori" [1]."Si va in Umbria. Che cosa conosce di questa regione bella? «I cioccolatini Perugina»" [2] rispose Vinokourov alla Gazzetta. C'è molto di più. "Se da noi c'è una città della pace, lo sanno tutti, è Assisi, la patria di Francesco" [3]Pensando al calcio viene in mente il "derby di Promozione tra Real Virtus e Subasio. Alla fine, scazzottata generale, coi giocatori che si tolgono la maglia così per l'arbitro è più difficile identificarli. Scatta quindi una multa collettiva, più pesante però per la Real Virtus (90 euro, contro 70)"[3]Pensando alle bici viene in mente Bartali durante la guerra. "In quel periodo la specializzazione di Bartali era la staffetta in bici: portava falsi documenti che evitavano la deportazione agli ebrei, in accordo col Vaticano. Prima o poi, ritroveremo Ginettaccio nell'elenco dei Giusti fra le Nazioni. C'è un film del 1985 («The Assisi Underground») su quelle vicende. E c'è ancora una targa, piccola, con scritto Shalom vicino all'ingresso della casa di Bartali. «Certe cose le si fa per farle, non per dirle» s'imbronciava lui quando qualcuno gli faceva notare che di quel suo impegno avrebbe potuto parlare di più. Adesso si può. L'ha fatto l'Unità, agli inizi d'aprile. E lo faccio brevemente in questa sede: Bartali ha rischiato la pelle per salvare vite, non solo per vincere corse" [4].
"La prima luce sull'altro Bartali, non quello agonistico ma quello umanitario, non quello brontolone ma quello silenzioso, non quello fuoriclasse ma quello fuorilegge, è stata accesa da Angelina Magnotta, 65 anni, toscana di Pontremoli, insegnante di italiano e latino. «Nel 2005 andai a Gerusalemme come preside degli Uffici scolastici regionali - racconta - responsabile del progetto "I giovani ricordano la Shoah". Furono giornate di incontri e studi, conoscenze e approfondimenti. Alla fine, il saluto si trasformò in una missione: "Per 27 mila ebrei italiani salvati, abbiamo solo 300 italiani salvatori. I conti non tornano. Cercatene altri". Tornata a casa, mi misi al lavoro. E cominciai da Bartali. La sua attività clandestina era già stata illustrata in "Assisi Underground", un libro del 1978 e poi film del 1985, di Alexander Ramati, ma da allora mai più esplorata e documentata». Oltre ai famigliari (i figli Luigi e Andrea, e la moglie Adriana), la Magnotta ha incontrato Agostino Davitti, che le ha narrato la storia del padre Antonio, guardia costiera a Portoferraio, sull'Isola d'Elba. «Quando venne arrestato, Antonio Davitti aveva in tasca solo una foto autografata di Bartali, il suo eroe, quella in cui Gino vinceva in volata la Reggello-Secchieta. Il carceriere di Davitti, responsabile dello smistamento dei prigionieri nel lager di Dachau, era un grande appassionato di ciclismo. Si arrivò a un incredibile baratto: se Davitti gli avesse dato la foto di Bartali, in cambio il carceriere gli avrebbe permesso di scegliere i compagni con cui sarebbe stato trasferito in una fattoria a lavorare "fuori dal campo". O Bartali o la morte. Davitti diede la foto di Bartali, il soldato tedesco mantenne la parola data, dopo due giorni prese i 15 uomini indicati più altri cinque, i primi che arrivarono, e li mandò alla fattoria. Là, nutrendosi con latte e patate, Davitti e gli altri riuscirono a salvarsi e a tornare in Italia». Gambe e cuore Agostino Davitti aveva registrato il racconto dal padre Antonio e inviato il nastro a Bartali, che però non ne aveva parlato con nessuno. C'era da aspettarselo. Per Gino, «il bene va fatto e non detto». La ricerca della Magnotta ha avviato le pratiche per il riconoscimento storico. Ma per l'ingresso ufficiale di Bartali nello Yad Vashem erano indispensabili testimonianze dirette. Da lì l'impegno di «Pagine ebraiche» e quello della famiglia. Intorno, «Mille diavoli in corpo» (Giunti) di Paolo Alberati, fino alla biografia «La strada del coraggio» (editore 66th and 2nd) dei canadesi Aili e Andres McConnon, attraverso la testimonianza decisiva di Giorgio Goldenberg raccolta nel dicembre 2010 proprio da «Pagine ebraiche» con Adam Smulevich. Angelina Magnotta ha continuato la sua opera di divulgazione con un libro («Gino Bartali e la Shoah», Edizioni dell'Assemblea, scaricabile gratuitamente dal sito http://www.consiglio.regione.toscana.it/upload/eda/pubblicazioni/pub3982.pdf) e la prosegue con interventi nelle scuole. Il 2014 si celebrano i 100 anni dalla nascita del campione. «Ho imparato ad amare Gino perché era un grande, non solo con le gambe, ma anche con il cuore» [5].
"«L'ho visto una sola volta, ma me lo ricordo come se fosse qui adesso. Gino Bartali stava alla ruota, una porta girevole, che lo nascondeva quasi completamente alla vista. In silenzio. E consegnava una busta». Suor Eleonora Bifarini ha 96 anni. Nata a Ripa, un paesino a una decina di km da Perugia, il 26 aprile 1916. Origini umili, infanzia povera. Nel Monastero di San Quirico, ad Assisi, entrò a 10 anni: «Uno zio frate a Santa Maria degli Angeli, e missionario in America, diceva che la nostra famiglia aveva bisogno di un miracolo al giorno per tirare avanti, e che noi creature non avevamo possibilità, e che l'unica soluzione era che andassimo dalle monache». Cinque anni dopo decise che sarebbe rimasta lì. E 10 anni più tardi divenne Suor Eleonora, sorella clarissa di clausura, e si dedicò per sempre a Dio. «Bartali - racconta Suor Eleonora - veniva, consegnava una busta, mangiava, poi andava nella Chiesa di San Francesco, pregava, tornava qui, ritirava un'altra busta e ripartiva. Era un messaggero, a suo modo un missionario: portava fotografie vere, ritirava documenti falsi. Li metteva nel telaio della bicicletta, forse nel manubrio, forse nel reggisella, poi con la scusa di allenarsi, li trasportava a Firenze. E così garantiva una nuova identità a uomini e donne ebrei, salvandoli dalla deportazione». Tra l'8 settembre 1943 e il 17 giugno 1944, Assisi era diventata porto, rifugio, asilo. I monasteri - le collettine francesi, le stimmatine, le cappuccine tedesche, le benedettine di Sant'Apollinare - offrivano le foresterie per esiliati, perseguitati, sbandati, evasi, fuggitivi. «Così anche nel nostro Monastero - ricorda Suor Eleonora -. Madre Giuseppina Biviglia, la badessa, cominciò a ospitare tanti disgraziati, che venivano e andavano». «Le persone che si rifugiavano da noi - scrisse Madre Giuseppina nel libro delle memorie del Monastero - furono, per grazia di Dio, nei nostri riguardi tutte oneste, rette, buone, e anche religiose». Cattolici ed ebrei, fascisti durante il Governo Badoglio, socialisti durante la Repubblica sociale. Madre Giuseppina concludeva: «Era proprio un'arca di Noè». «Bartali - prosegue Suor Eleonora - faceva parte di un'organizzazione che aveva, come coordinatore, padre Rufino Niccacci, guardiano al Convento di San Damiano. Era lui a smistare i rifugiati. Ed era il tipografo Trento Brizi, di Assisi, a stampare i documenti falsi con le fotografie vere, che Bartali poi trasportava per distribuirli». (...) E Bartali? «Dicevano che fosse un grande campione, e che il suo avversario fosse un certo Coppi, ma io non me ne sono mai interessato molto - ammette suor Eleonora -. Però ho visto qualcosa in tv, documentari, filmati, corse, e il ciclismo mi è piaciuto». Ha conosciuto la moglie Adriana e il figlio Andrea: «Gentili e affettuosi. Con la signora Adriana, che ha quasi la mia età, facciamo la gara a chi ha più acciacchi. Io solo alle ginocchia. Adesso mi muovo in carrozzina, una specie di bicicletta. Una volta è arrivato anche un gruppo di ciclisti, pantaloncini corti e scarpe con i tacchetti, camminavano e scivolavano. Che ridicoli» [6].
note
[1] Gianni Mura, la Repubblica, 21 maggio 1982
[2] Claudio Gregori, la Gazzetta dello sport, 16 maggio 2010
[3] Gianni Mura, la Repubblica, 10 ottobre 2010
[4] Gianni Mura, la Repubblica, 4 maggio 2003
[5] Marco Pastonesi, la Gazzetta dello sport, 2 novembre 2013
[6] Marco Pastonesi, la Gazzetta dello sport, 15 maggio 2012

giovedì 12 maggio 2016

Le favole abruzzesi di Montanelli


"Il Giro d'Italia scoprì le montagne il 18 maggio 1909 nella Chieti-Napoli. Erano 246 chilometri di polvere e ghiaia: la corsa affrontò le salite di Rocca Pia, Castel di Sangro, Rionero Sannitico e il Macerone. Quest'ultimo, seppur alto solamente 648 metri, era il vero spauracchio. I corridori, però, lo dovettero affrontare su biciclette senza cambio, che pesavano anche 15-16 chili, su strade primitive, solcate da carreggiate profonde. Solo Giovanni Gerbi, il mitico Diavolo Rosso, riuscì a non mettere piede a terra, anche se poi fu Giovanni Rossignoli a vincere la tappa" [1].Dopo ventinove anni oggi si torna sulla salita di Roccaraso.
Il Giro"ha preso l’Italia come un mastro da legno prende un tronco d’albero; e l’ha segata per benino in più pezzi, preoccupandosi soprattutto che i denti della sega toccassero insieme i punti di due delle infinite stazioni termali, balneari, montane o comunque turistiche di questa nostra benedetta Italia. Il guaio è che ciò che la sega taglia è quasi sempre una sezione appenninica o alpina: il lettore s’immagini cosa ne viene di Sali e scendi e di volta e strizza" [2]. "Abbiamo fatto una breve sosta a Campomarino, per rifornirci di pane e formaggio. Si era entrati nel Molise. Per caso ci siamo fermati proprio davanti alla sezione del PCI. C’erano i compagni e c’era il sindaco, che è un compagno. In pochi minuti ci hanno informati: l’amministrazione è di sinistra dalla fine della guerra, e così anche in altri tre comuni viciniori: la chiamano la “fascia rossa”. La popolazione è di origine albanese, e parla ancora albanese. Un vecchio compagno mi ha detto, mezzo in italiano e mezzo in albanese, di riferire a “quelli di Montecitorio” che lì a Campomarino e in tutto il Molise, non c’è il “Mezzogiorno”, c’è la “mezzanotte”: “Il Mezzogiorno è a Roma, a Milano. In sezione ho visto una stampa a colori portata da Cleveland (Usa) nel 1912. Può essere l’antenata di Ben Shan. Titolo, in italiano e inglese: La piramide del capitalismo. C’è, sulla punta, il capitalista in poltrona, che fuma il sigaro: e a mano a mano che si scendono i piani trasversali sempre più larghi, c’è il prete che prega per il capitalista, il soldato che spara per il capitalista, e in fondo, sotto il piano più largo, la massa dei lavoratori che reggono sulle loro schiene tutto l’edificio" [3]. "La strada è una spada tagliente che incide. Per non ferirsi bisogna brandirne l'elsa" [4]. “La verde conca di Isernia. La strada diventa asfaltata. La campagna sembra ricca, coltivatissima. Ma c’è uno strano silenzio nell’aria. E non si vede un contadino, né un passante, a pagarlo oro. I cascinali che fiancheggiano la strada sono chiusi e deserti” [5]."Mi parlassero di naziskin a Isernia, non ci crederei" [6]. "Quando si passa da Rionero Sannitico noi andiamo a mangiare in una casa che è un negozio e vende di tutto ma c’è anche la cucina e ci si mangiava, quattro tavoli a piano terra con le tovagliette di plastica, c’è buio e fresco attorno. A mandar avanti tutto sono tre vecchie, gentilissime sorelle tutte vestite di nero, anzi, con scialletti pure neri, sembrano appena uscite dalle pagine di Palazzeschi. Noi siamo gli ospiti d’onore, andiamo al piano di sopra, in casa, nella sala da pranzo col soffitto stuccato, gli specchi appannati, il toro di Siviglia, la finta ceramica di Papa Giovanni, le foto dei nonni, la bottiglia di elisir. Le sorelle scarpinano su e giù per la scala, prosciutto di montagna, pasticcio di maccheroni, bistecca e insalata, pecorino dolce, mele e pere, caffè, mille lire ma non è questo. È il fatto di passare così in fretta e di trovare persone gentili e di andarsene in fretta, una dice che ha le mani bagnate, le stringiamo un’estremità dello scialletto. C’erano anche quelli dell’Équipe. Com’è Parigi, ha chiesto una nipote delle vecchie. È bella, ha detto J.C. che parlicchia l’italiano, ma anche qui è molto bello. Lei ha sorriso" [7].
"Una volta la folla aveva un color grigio e verdognolo. Il grigio era la borghesia, il verdognolo la vita militare; quello che s’era avanzato del corredo militare. Moltissimi italiani portavano, a consumo, un vecchio pantalone grigioverde «grattato». Poi, c’era il grigio dell’abito borghese, sogno dei «congeda’». Tutti gli italiani, per venti anni, hanno avuto l’aria dei «congeda’». In campagna, piaceva il grigio azzurrino, il grigio rosato, il grigio violaceo. Certi riflessi erano inconfondibili: i romagnoli amavano un grigio chiaro, acciaiato o, meglio, con riflessi di alluminio. Di bruno, color ala di passero, vestivano in Abruzzo. Era il colore del fustagno. Poi si accecava per il bianco. Da Pescara in giù, pantaloni bianchi, che dalla macchina sembravano candidissimi: se ti fermavi erano color avorio, velati di sudore, bruciati dal ferro, macchiati dal pomodoro. Scarpe di tela bianca, appena si arrivava in vista dei paesi. La camicia alla Robespierre – con sudati ciuffi di pelo nello scollo – trionfava verso Napoli, col berretto alla gelatiera" [8].
"L'Abruzzo ci è venuto incontro nella persona di una donna che teneva per mano una bimbetta. Non era una donna molto vecchia: un enorme scialle nero le avviluppava interamente la magra figura ed essa, sedendosi, lo aprì con le braccia per trarselo sulla testa e parvero le ali di un mostruoso uccello notturno che si distendessero per il volo. Sedette sul ciglione della strada ma molto in alto e tacque per un pezzo guardandoci insospettita. Teneva però, strettissima nella sua, la mano della bambina e solo dopo un poco si decise a chiederci, timidamente, se i corridori facevano del male a nessuno. "A nessuno" garantimmo, "nemmeno ai propri concorrenti". La donna parve rassicurata e dopo un poco cominciò a parlare con la piccola. Non era facile capire quello che diceva, ma credetti intendere che le raccontasse la storia di suo padre che fu il primo in quella contrada a veder passare una bicicletta e corse al paese ad annunziarlo a tutti gli uomini; tenuto consulto e stabilito che un mostro cosiffatto non poteva essere altri che il lupo di Pretorio, si armarono di forconi e con essi vennero sulla strada per accogliere degnamente il malcapitato. Il quale, per sua fortuna, era già scomparso all'orizzonte. Ma questa favola la donna, più che alla sua giovane compagna, la raccontava a se stessa. (...) Nell'impervia e chiusa civiltà abruzzese le favole non sono monopolio dei bambini, come altrove. Esse sono il modo di sentire e di rappresentare anche dei grandi. Questa è la sola terra d'Italia dove i lupi circolino ancora per le strade dei villaggi, vestiti da uomini, e il serpente possa insinuarsi nei letti delle ragazze per sedurli. E le favole d'Abruzzo non sono soltanto in Abruzzo, ma dovunque sia un abruzzese" [9].
"Rivisondoli. A un lato della strada si legge su un cartello: Forza, Battista" [10]. "L’altopiano si spalanca quasi all’improvviso sulla strada che da Sulmona porta a Roccaraso. O viceversa. E’ come entrare, per un attimo, in un’altra dimensione, come trovarsi sulla prateria, lungo una delle mitiche Routes degli Stati Uniti. L’erba, le montagne, e il nastro d’asfalto che si srotola, piatto, davanti a me. Più che D’Annunzio o Silone, i loro romanzi, le loro storie, viene alla mente Jack Kerouac. On the road. Nove chilometri attorno a cui Carlo V decise di edificare cinque rifugi fortificati dopo che trecento fanti della Lega Veneta e cinquecento soldati del Principe d’Orange vi trovarono la morte a causa di una tormenta di neve. (…) L’odore dei tratturi, il profumo dei mostaccioli, della focaccia bianca, delle ferratelle, il sapore della salsiccia paesana e del pecorino gregoriano". [11]. "Quando una salita ti obbliga ad inarcare la schiena e buttare il volto sul manubrio, e ti fa dondolare come un batacchio di campana, di qua e di là, nella cadenza della pedalata che ti taglia il respiro; quando una discesa ti mette le ali ai piedi come una divinità pagana, e ti costringe a serrare ben forte le mani sulle due leve dei freni, lasciando dietro di te, nelle curve, una scia di ferodo bruciacchiato sul legno dei cerchioni, in un gioco azzardato e pericoloso di equilibrio affidato al precario contatto delle due gomme che hai gonfiato dure come il sasso; quando in pianura devi per forza arrancare per tener dietro alla ruota del compagno che ti precede perché sai che se ti distacchi naufraghi nel gruppo dei ritardatari, senza possibilità di rifarti con l’inseguimento; quando tutto questo accade tu non vedi che cosa sta alla destra ed alla sinistra della strada. I paesi sono solamente case messe in fila, la campagna non è che un gran cartone verde, la folla non è che una macchia scura, punteggiata da gridi d’entusiasmo. In corsa vedi ben poco, non vedi nemmeno la strada, forse, tanto sei preso dalla tua fatica, una fatica che non sai ancora se riuscirà a toccare la vittoria, o se resterà per sempre sconosciuta" [12].
note
[1] Claudio Gregori, la Gazzetta dello sport, 12 maggio 2009
[2] Velso Mucci, l'Unità, 21 maggio 1962
[3] Velso Mucci, l'Unità, 28 maggio 1962
[4] Claudio Gregori, la Gazzetta dello sport, 22 maggio 1997
[5] Mario Soldati, "Fuga in Italia", Mondadori, 1969
[6] Gianni Mura, la Repubblica, 22 ottobre 2000
[7] Gianni Mura, la Gazzetta dello sport, 27 maggio 1969
[8] Orio Vergani, Corriere della sera, 20 giugno 1946
[9] Indro Montanelli, Corriere della sera, 22 maggio 1948 (in "Indro al Giro", Rizzoli, 2016)
[10] Achille Campanile, Battista al Giro d’Italia, 1932
[11] Roberto Perrone, Manuale del viaggiatore goloso, Mondadori
[12] Enrico Emanuelli, la Gazzetta dello sport, 1937, citato in "Eroi, pirati e altre storie su due ruote", Bur

mercoledì 11 maggio 2016

Il Giro di Buzzati e Ortese in Campania


"La Campania ha creato attorno al Giro un'atmosfera euforica, dimentica di antichi e recenti guai" [1]. "Sulla vocazione sudista del Giro d’Italia, per non dire di tutto il nostro ciclismo, si è scritto molto nel passato, e molto si scriverà nel futuro. Nessuno la mette in dubbio, pochi l’assecondano. L’Italia è grande, d’accordo, e soprattutto è lunga, dunque il Giro non può accontentare tutte le regioni. Però l’impressione è che la corsa ceda troppo al richiamo diciamo canonico di alcune località settentrionali, rinunciando a valide utili esplorazioni nel Meridione. (...)

Vado, batto e smetto: il rigore prima dell'addio

CHE bello questo regalo. Stai per andartene, il sole è al tramonto, la porta alle tue spalle è quasi chiusa e l'arbitro fischia un calcio di rigore. Così agli amici viene voglia di fermarti, vogliono scattarti l'ultima foto ricordo e farti ciao mentre sorridi. Vai, vai, tiralo tu. Capita a Luca Toni che sta salutando dopo tre campionati Verona e il calcio dopo ventidue. Capita a Gianpaolo Bellini che si stacca dall'Atalanta dopo aver portato quella maglia dalle giovanili fino alla fine, 1986-2016, trent'anni senza cambiare colori. Il Totti di Bergamo. Viene perfino da commuoversi. Grazie a tutti, che cari che sono gli amici, allora batto io. Solo questo tiro e vado, ancora uno e basta. Mani sul fianco, rincorsa e all'improvviso il panico. E se poi lo sbagli? Questo allora non è un regalo. Questa è una trappola. Stai per andartene, il meglio del tuo calcio è passato e noi siamo purtroppo cresciuti fra Hollywood e il romance, con la bizzarra idea che l'ultima pagina sia quella che conta più delle altre, che il lieto fine debba essere il canone. Provate a tirarlo voi un calcio di rigore in queste condizioni, nel giorno dell'addio, provate ad arrivare su quel pallone davanti a una porta che all'improvviso sembra piccolissima, sapendo che sarà l'ultima volta, e dunque senza rivincita, sapendo che dopo non ci sarà nient'altro da ricordare né da dimenticare. Meglio a questo punto che non ci sia nulla di cui farsi perdonare.

martedì 10 maggio 2016

Il Giro dei Giri: la Calabria


"Oggi il Giro plana a Sud verso il mare e il sole fa lampeggiare sulle acque straordinari disegni" [1]. "Nel sole del mattino, con le sue ombre lievi e celesti, la Calabria pareva una di quelle terre che si vedono nelle vetrine delle agenzie di viaggi, piene di felicità (...) Sul bordo della strada due bovi, straordinariamente carducciani, che, immobili, contemplavano il fondo valle, cioè la parte opposta, non volsero di un millimetro la testa, quando la bufera delle macchine passò rasente. La strada si spinse tra boscaglie che giurerei, a giudicare dalla fisionomia, popolate da iene e briganti, ma non ne sortì nulla di male (...) Le ombre dei grandi campioni morti sono venute e con spettrali gambe pedalano evanescenti velocipedi. Anch’essi, vecchi, cadenti, stanchissimi e un poco pazzi. Ti scortano in silenzio. Ora, per darti coraggio, le ranocchie di Calabria ti canteranno le loro marcette militari. E per farti strada le lucciole, di solito così fiscali, accenderanno apposta i fanalini" [2].
Cinque giorni tra la Calabria e la Basilicata trascorse in bici Luigi Vittorio Bertarelli, milanese, imprenditore tessile, un trentottenne nel 1897. Era tra i fondatori del Touring Club, il suo reportage finì sul giornale La Bicicletta. "Non vi è alcuno che conosca così poco il proprio paese quanto l'italiano (...) Cosicché il settentrionale in Calabria assume il carattere di qualche cosa di raro, di un mondo così diverso che non si può formarsene un'idea, e l'Alta Italia nel linguaggio popolare calabrese diventa l'Altra Italia" [3]Bertarelli mostrò la fretta contro la lentezza del Gran Tour. Mostrò una Calabria di spiagge basse e di dune sabbiose, piante, chiazze di acque stagnanti, canneti sterminati . "E' un caleidoscopio. Dal Capo Vaticano al Capo Subero sono 50 km di spiaggia ove acqua e terra sono dipinte di tali luci che nessuna tavolozza saprebbe riprodurre (...) Splendidi convolvoli dalle rosee corolle pensano come liane dai sugheri contorti, si allacciano a lentischi impenetrabili, cespugli di camomilla quasi arborea mescono le loro mille margherite al verde dei quercioli; grandi cardi selvatici monocromi, e fichi d'India assiepano il ciglio della strada; rilucono come occhi felini sui frassini le cantaridi; armenti di montoni neri, più sporchi del possibile, le ricurve corna spesso rotte, pascolano sulla scogliera, guardati da cani ringhiosi (...) Racconti paurosi di briganti vengono in mente in quel paesaggio, che ne fu un tempo classica cornice. Qui ebbero nido inespugnabile capi di fama terribile: oggi ne restano solo le tradizioni. Ragazze che tornano dal lavoro mi salutano francamente; i lavoratori fermano le zappe e mi stanno a guardare, e sempre mi apostrofano con un inesprimibile garbuglio di suoni che vuol dire: d'onde vieni? dove vai? Nessuno è mai armato, né qui né altrove, in Calabria (...) Ritorno sulla strada: il sole è vincitore" [4].
"Sono quattro i corridori calabresi approdati al professionismo. Il primo è stato Giuseppe Canale, classe '34, pro' nel '59. Poi Pino Faraca, di Cosenza: pro' dall'81 all'86, nel Giro '81 conquistò la maglia bianca (vinse con la Honved Bottecchia la cronosquadre Lignano Bibione). Il terzo è ancora un cosentino: Michele Coppolillo, classe '67, tra i grandi dal '91 al 2001 (vinse un Pantalica e una tappa al Mediterraneo). Infine Roberto Sgambelluri, di Melito di Porto Salvo (classe '74), ritiratosi nel 2004: al suo attivo anche una tappa al Giro d'Italia, la Rieti-Lanciano nel 1997" [5]. La storia della famiglia Faraca raccontata da Marco Pastonesi: "Pino, primo di 7 fratelli, 5 maschi e 2 femmine: se c'è stato un momento in cui tutti e cinque i maschi andavano in bici, nel senso del pronti-via, la colpa è del papà Francesco. Che si difende: «No, la colpa è del Giro d' Italia... Era il '49. Terza tappa: Villa San Giovanni-Cosenza, 214 km, scovai un bel posto per godermi il passaggio dei corridori. Un bel posto, ma sbagliato: era in discesa. Sfrecciò Guido De Santi, poi vincitore per distacco, sfrecciò il gruppo, sfrecciò la maglia rosa, che era Cottur. Il giorno dopo, Cosenza-Salerno, 292 chilometri, vinse Coppi. Da quel momento m'innamorai della bici. Comprai a rate una Girardengo, cambio a due levette posteriori: se la corsa partiva da Reggio, 200 chilometri ad andare, 150 di corsa, altri 200 a tornare, tutto in bici. Da dilettante ho corso con Pambianco, Ranucci, Aldo Moser e Maule. Se una San Pellegrino fosse stata di un solo chilometro più corta, l'avrei vinta io, invece fui ripreso e staccato». Intanto Pino dava battaglia da dilettante: «Emigrante, perché le corse sono concentrate in Lombardia, Veneto, Emilia e Toscana, ma sempre con un' irresistibile nostalgia per la mia terra e il mio mare». Dava battaglia da professionista: «Nel 1981, primo Giro, primo fra i neoprofessionisti, maglia bianca». «Il mio primo eroe - confida Coppolillo, cosentino, gregario di Argentin e Pantani - è stato Faraca». Quando Pino non ha più potuto dare battaglia in salita («Di un Giro dell'Appennino ricordo solo la partenza e poi il risveglio nelle lenzuola di un ospedale, mia madre che dice "Pino, io vado", io che le rispondo "di già?", e lei che spiega "Pino, è una settimana che sono qui"»), dà battaglia sulla tela: «Lì ricompaiono strade, facce, muscoli, e poi velocità, colori, montagne, e poi ancora la stessa voglia di scalare e scollinare. Vincerò le mie Tre Cime di Lavaredo quando qualcuno, guardando un mio quadro, senza paura di sbagliare dirà: "È un Faraca"». Per ora si deve accontentare di: «È Faraca» [6].
Amantea, al chilometro 60, è la città di Anton Calabrès, partito per le lontane Americhe con Colombo sulla Pinta. Lì passano in testa Boem Rosskopf Braendle e Mohoric. “Va da sé che i corridori il mare non l’hanno visto (…) Il mare, se non altro, ha visto i corridori, spingendo le sue creature fino ai bordi della strada. Pescatori e marinai, turisti e bagnini, se rallenti un attimo vedi anche le prime spellature, e senti l’odore delle lozioni abbronzanti, dei fasci d’alghe sulla spiaggia. Ma è tutto confuso, non c’è tempo. Non s’è fermato nessuno, i corridori sanno il mare a memoria. Il mare rende buffi i corridori che sembrano affetti da strane malattie epidermiche, neri sul volto e sul collo, e da sopra il ginocchio alle caviglie, spaventosamente pallidi per il resto del corpo. E’ buono il mare solo nel tardo inverno, quando anche i sassi sembrano conservare il ricorso dell’estate precedente e il presagio di quella che verrà. Adesso non è buono né cattivo. Non c’è, semplicemente” [7]. “Ho iniziato ad amare le biciclette facendo correre le palline con l’effigie dei ciclisti in interminabili pomeriggi passati attorno a una pista di sabbia sull’arenile (…) Costruivamo le piste scegliendo il bambino più piccolo, e trascinandolo per le gambe, come fosse un aratro, su e giù per la spiaggia fino a riportarlo al punto di partenza per chiudere il circuito. Uno scavo superficiale di sabbia umida e compatta che ricordava le volute di un intestino. Con un secco colpo dell’indice che scivolava sul fianco del pollice, spingevamo avanti le biglie di plastica colorate, con le immagini dei corridori più famosi. La mia preferita era quella blu con il faccione malinconico di Federico Bahamontes, soprannominato l’aquila di Toledo” [8]. "Giro di Calabria, non so di che anno. Incontro Lupo Mascheroni, la notte della vigilia: Mascheroni è il capo meccanico della Legnano. Gino corre per la sua Bartali. Perché non si va tutti e tre al cinema?, propone Ginettaccio: la corsa è un affare di domani. Duecentocinquanta tormentati chilometri, il menù. Contano per il campionato italiano un cinematografo fumoso, un interminabile giallo. Gino va a nanna che è l'una. Sulla porta della camera ci saluta. "E voi credete che domani io perda il Giro di Calabria e il titolo? Mi avete accompagnato - sogghigna - al cinematografo, per testimoniare una mia probabile sconfitta, minchioni che siete!". L'indomani Gino vince. Ci scorge, nel dopocorsa e ci indica ai suoi ammiratori. Sulle spalle dei più accesi, mi sembrò il Gattamelata di Donatello. Un Gattamelata sbalzato di sella, solamente privo dello spadone. Gli occhi gli lampeggiavano" [9].
Il primo arrivo di tappa in Calabria è del 1929, si va da Potenza a Cosenza e vince Binda. Oggi, da Catanzaro a Praia a Mare, è  “una galoppata frenetica sotto il sole, un sole cattivo, nella circostanza specifica, perché fa accusare di più lo sforzo, e il sudore della fronte cola giù dagli occhi e bisogna correre a bocca chiusa, perché il sudore s’infila dappertutto” [7]. "Qualcuno, nel dignitoso Mezzogiorno, regge ancora sbrendoli con annose bretelle borghesi. La vecchia cinghia militare, nel resto d’Italia: o addirittura un pezzo di corda, come i frati. Gli italiani, vestiti così, aspettano vicino alle siepi, vicino ai ponti, vicino alle barriere daziarie: arrampicati sui tralicci dei piloni dell’alta tensione, seduti sui muretti diroccati. Aspettano non si sa cosa, non si sa se tristi o contenti" [10]. “Una tappa balneare, si diceva alla vigilia” [7]mentre invece "qui, nella terra di Calabria, che ha affascinato Omero, che, nell'Odissea scrisse: A venir qui anche un dio immortale doveva restare stupito guardando e godere in cuor suo" [5] vince un ragazzo che si chiama Ulissi.
note
[1] Claudio Gregori, la Gazzetta dello sport, 18 maggio 1998
[2] Dino Buzzati, Corriere della sera, 24 maggio 1949
[3] Augusto Guido Bianchi, La Bicicletta, 1897, prefazione al reportage di Luigi Vittorio Bertarelli
[4] Luigi Vittorio Bertarelli, La Bicicletta, 1897
[5] La Gazzetta dello sport, 4 maggio 2005
[5] Claudio Gregori, la Gazzetta dello sport, 8 maggio 2005
[6] Marco Pastonesi, la Gazzetta dello sport, 21 gennaio 2005
[7] Gianni Mura, la Gazzetta dello sport, 29 maggio 1966
[8] Francesco M. Cataluccio, L’ambaradan delle quisquiglie, Sellerio
[9] Mario Fossati, la Repubblica, 17 luglio 1999
[10] Orio Vergani, Corriere della sera, 20 giugno 1946

domenica 8 maggio 2016

Le biciclette d'Olanda


“Tutti gli olandesi sanno l’inglese così non dovevo parlare olandese, bel sollievo. Volevo noleggiare un’auto ma non ho potuto. Però la gente da cui stavo aveva biciclette, così un giorno sono andato fuori in bici e ho visto orde di vacche e oche e canali (...) Arnhem, dove c’erano tonnellate di Van Gogh da sballo”[1]Da sballo, per gli olandesi di Arnhem, è Tom Dumoulin che parte in maglia rosa.
“Si fa attenzione alla prima fuga, al primo staccato, alla prima foratura. A scuola si guardava il primo a chi la maestra sorridesse per prima, il capoclasse, in genere, a chi era interrogato per primo. Si sapeva che era perfettamente inutile far caso al primo, ma si continuava su questa linea ogni primo giorno di scuola, e si continua ogni primo giorno di Giro” [2]. Stavolta i primi a scappare si chiamano Omar, Giacomo e Maarten, di cognome fanno Fraile Berlato e Tjallingii . "L’Olanda è la negazione, implicita o esplicita, dell’esistenza del peccato individuale. Per dirlo in una formula, è il congiungimento di Padre Teilhard con Marcuse, sotto lo sguardo di Calvino" [3]Le bici hanno tutte le ragioni per abitarla. "Amsterdam è il paradiso della bici: 750 mila abitanti, un milione di bici, 400 km di piste ciclabili (250 a doppio senso, 150 a senso unico), 25 posteggi per bici, 15 punti di noleggio, più di 100 negozi dove acquistare e riparare. Ci sono anche 120 pedalò per girare nei canali. Eppure l'amministrazione locale vuole ancora promuovere l'uso della bici. Di tutti gli spostamenti, il 40% viene fatto in bici. E secondo il codice stradale olandese, le bici hanno la precedenza assoluta. Tant'è vero che, in caso di incidente, sono gli automobilisti a dover provare la propria non colpevolezza" [4]La bici è dramma, ma dramma autentico, come raccontò Theo Coster: "Presi il mio nome da clandestino, Theo, dal protagonista di un libro. Usavo raramente il cognome van Beek, perlopiù conservavo il mio, Coster. La scuola che frequentavo ad Apeldoorn era cattolica. Io però non sapevo niente del cristianesimo. Conoscevo a stento il Nuovo testamento. (…) Andavo ad Apeldoorn in bicicletta, e lungo il cammino c’era un posto di blocco in cui a volte la polizia mi controllava i documenti, ma – senza la J – è sempre andata bene. Quando era necessario dicevo di essere il nipote del maestro van Beek" [5]La bici è lavoro. "Passarono sotto il viadotto; in Streenstraat, Hans appoggiò la bicicletta delle consegne contro il bordo del marciapiede. Il proprietario del negozio e un suo aiutante stavano sistemando un vaso di rose su un piedestallo in vetrina sul quale avevano drappeggiato un telo di velluto nero (…) Le piante erano state consegnate, le cassette vuote caricate di nuovo sulla bicicletta" [6]. “Rob van der Plas, di soldi ne deve vedere meno. Ha uno stand di quattro metri quadri. La sua casa editrice si chiama Bicycle Books: solo libri sulla bicicletta. E metà li ha scritti lui. E’ un mago della manutenzione: se vuole può insegnarti come far durare una bicicletta in eterno, ammesso che la cosa interessi a qualcuno. Ha una faccia da musicista triste, quelli che suonano il clavicordo, tutto il tempo ad accordare perché è uno strumento antico, si sa. E’ nato in Olanda, vive in California. Gli chiedo che ci viene a fare a Francoforte. Lui, serafico: vendo. Libri sulla biciclette? Libri sulle biciclette. Apre il quadernetto degli appuntamenti e mi fa vedere: francesi, tedeschi, un brasiliano, un giapponese. Penso alle biciclette che, in giro per il mondo, saranno miracolate dalla sua sapienza. Un eroe, a modo suo” [7].
Quei tre matti partiti in fuga là davanti provano ad arrivare in un antico teatro di guerra "una piccola cittadina olandese. Il suo nome è Nijmegen, e si pronuncia come si vuole" [8]. "Il Giro non e' un paradiso affollato di angeli oranti. Le sue ali conoscono la polvere e il vento. Le gerarchie della corsa non sono di granito: sono spesso squassate da movimenti tellurici. E quest'anno la strada, dopo due giorni, promette già sterminate battaglie" [9]. "Non ho idea di come fosse Nijmegen una volta; probabilmente, a giudicare dalle rovine, da alcuni tetti rimasti, da qualche porta istoriata ancora visibile qui e là, esisteva una graziosa zona vecchia della città. (...) Nijmegen è una cittadina in cui la gente dorme nelle cantine e si aggira guardinga per le strade (...) Sebbene Nijmegen non mostri i segni di una grande ricchezza, i quartieri più poveri, i più vecchi e interessanti, non versano nelle terribili condizioni degli slum di una cittadina inglese o americana di dimensioni equivalenti. Gli abitanti di Nijmegen erano ovviamente gente abituata alla sicurezza, un popolo timorato di Dio, devotamente cattolico, che conduceva una vita provinciale e tranquilla, lavorava duro e non sprecava, né desiderava o poteva contare su alcuna misura di protezione per la vecchiaia. (...) Una grande strada con ponte attraversa il fiume Waal, e una relazione strategica lega questa parte dell’Olanda alla Germania, alla costruzione della Linea Sigfrido e al corso del Reno: per tutti questi motivi (semplificando i termini), Nijmegen si è ritrovata nel bel mezzo del sentiero percorso da eserciti nemici. (...) A Nijmegen il caldo non esiste, e quel poco di carbone che c’è viene usato per produrre energia elettrica, cosicché di notte, dietro alle finestre oscurate, la gente può almeno guardarsi in faccia (...) A Nijmegen la vita non è esattamente grigia e monotona, anche se è facile immaginarsi che in un posto come questo non sia mai stata realmente gaia. Non è una cittadina con bar e caffè e sale da ballo, e non ho mai nemmeno visto l’insegna di un cinema"[8].
Quando a un posto così di chilometri ne mancano quindici, col suo minuto di vantaggio Berlato si sta domandando se possa bastare. “Questo dovremmo fare anche noi: vedere com’è fatto, e non soltanto il Giro, non soltanto la fiera allegra e vanitosa che gli corre dietro, ma il nostro stesso cuore e ascoltare se risponde”[10]. "Se si guarda la corsa in chiave poetica, il fuggitivo è un simbolo di libertà. La volata, invece, è la metafora della dittatura. Chi fugge infrange lo status quo. Chi insegue cerca di ripristinare l'ordine. Nietzsche direbbe che il fuggitivo è dionisiaco, brandisce il tirso. Vive la corsa come caccia, estasi, allucinazione, spasimo. Rappresenta la trasgressione. Quei gregarioni belli come corazzieri, allineati lungo la strada militarmente, sono invece le forze del male. Praticano anche la tortura con crudeltà. Non acchiappano solo i fuggitivi, sotterrandoli nel gruppo come in una bara colorata. Prima li lasciano morire come aragoste in un bagno di vapore" [11]Se solo Berlato sapesse. "In gergo si parla di "fuga del cavallo morto", per indicare il tentativo del corridore senza speranza, che viene lasciato a sfinirsi con la testa al sole. In corsa sono di moda espressioni come lasciarli a bagnomaria, farli bollire. Ieri hanno fatto bollire"[11]Borlato e visto sfrecciare Kittel, "lo sprinter più forte del gruppo"12.
note
[1] Breat Easton Ellis, "Le regole dell’attrazione", Einaudi
[2] Gianni Mura, la Gazzetta dello sport, 1967
[3] Guido Piovene
[4] Marco Pastonesi, la Gazzetta dello sport, 1 aprile 2010
[5] Theo Coster, "I nostri giorni con Anna: il racconto dei compagni di classe di Anna Frank", Rizzoli
[6] Jan Siebelink, "Nel giardino del padre", Marsilio
[7] Alessandro Baricco, "Barnum 2", Feltrinelli
[8] Martha Gellhorn, "I volti della guerra", Il Saggiatore
[9] Claudio Gregori, la Gazzetta dello Sport, 18 maggio 1998
[10] Alfonso Gatto, l'Unità, 15 maggio 1948
[11] Claudio Gregori, la Gazzetta dello Sport, 26 maggio 1998