mercoledì 28 dicembre 2022

Perché vanno ancora a miss Italia

Le guardi, le ascolti, e non c’è più una miss che voglia essere solo una miss. Una si è presentata con un Master in giornalismo sportivo, un’altra è iscritta a una facoltà trilingue, c’è chi si sta laureando in Scienze internazionali, chi in Filosofia, chi farà la cardiochirurga. La faccenda si fa complessa. Il passato ha sempre il pregio di essere più nitido. Chi vinceva, si faceva chiamare reginetta. Reginetta di bellezza. Era l’Italia in cui l’educazione delle bambine poteva passare dall’attesa di un principe più o meno azzurro. Te ne stavi scalza ad aspettare, lui portava una scarpetta - spesso senza citofonare - e se la misura era giusta, smack, vissero felici e contenti. Eri miss qualcosa e in fondo quella era la tua strada.
Sono saltati gli schemi. Per capirci qualcosa, bisogna arrivare in questo albergone romano oltre la via Aurelia, alla fine di una serie di collegi pontifizi, dentro una sala allestita con diciotto file di sedie dallo schienale in velluto rosso. Sarebbero tristi per un convegno di radiologi, figurarsi per la finale di miss Italia, che ai bei tempi rendeva glamour il nome di Salsomaggiore. È qui che ha chiesto asilo politico questo concorso che era un romanzone popolare, finito in esilio in un centro congressi, senza diretta tv, sulla zattera dello streaming via social, stritolato da una serie di veti perché “i valori non sono più in linea con quelli di oggi”.
È qui che bisogna venire a chiedere cosa spinga 21 ragazze scelte fra ventimila, a intrecciare i loro percorsi di emancipazione con una sfilata in passerella, dentro un costume da bagno e con un numerino sul petto. Scoperta: non sfilano più ma dialogano, indossano un abito e il numerino da fiera è stato abolito. Patrizia Mirigliani è la figlia dello storico patron Enzo. È lei che regge il gioco, allarga le braccia, dice di non sapere perché non ci sia più spazio in tv - quando in tv è pieno di ragazze uscite dal concorso. “Siamo un fenomeno di costume, non un concorso di bellezza. Se vogliamo parlare di libertà, non si può impedire a una ragazza di indossare un costume di bagno, solo per non essere etichettata come superficiale. Sulle spiagge d’estate se ne vedono di più succinti. Da miss Italia sono arrivate donne nella politica, nello spettacolo, nel giornalismo”. La vincitrice di un anno fa, Zeudi di Palma, è appena stata invitata al ministero della Cultura per la giornata del contrasto alla violenza contro le donne. E allora i valori: sono in linea o non sono in linea?

mercoledì 21 dicembre 2022

Il Marocco di Centocelle

È nelle apparenti minuzie che si costruisce una casa comune. Un piatto di polenta, per esempio. Le donne cattoliche la prepareranno senza salsiccia e dalla moschea porteranno il cous cous, come accade da tre anni nella domenica del mercatino di Natale, alla parrocchia San Felice da Cantalice. È davanti alla facciata di questa chiesa a forma di capanna che mezzo secolo fa passeggiava l’Accattone di Pasolini, appoggiando il braccio sinistro sulle spalle di Stella, “lo sai che io già te vojo bene, me pare che pure te c’hai bisogno d’un conforto”. Centocelle era margine, era un ciglio di Roma, dieci anni prima c’era venuta la regina Elisabetta in visita e durante la guerra i partigiani avevano insediato un comando sotto il pergolato dell’osteria in piazza Mitri. Era il tempo in cui Sergio Citti diceva che i Parioli sono “er contrario de’ ‘e borgate”

Ora le borgate sono periferie, si somigliano tutte, sul retro di San Felice hanno dipinto un murale di Baglioni - “strada facendo, vedrai | che non sei più da solo” - perché da ragazzetto veniva a suonare la chitarra in chiesa. La parrocchia di frate Mario Fucà è diventata il centro di un corpaccione che fa 54 mila abitanti, il 18% stranieri. Se domani il Marocco dovesse aggiungere un’altra perla al suo storico Mondiale, se un gol in Qatar dovesse far ballare di nuovo tutti all’angolo di via degli Aceri, allora domenica la polenta col cous cous sarà nei piatti quando mancheranno poche ore alla finale, e a Centocelle saranno tutti sotto una stessa bandiera. Il centro di Roma è lontano 7 km. Nel 61 era un viaggio. Ora che il mondo ti entra nella vita con un telefonino, sono sei fermate di metro C che Accattone non aveva. Alla Casa del popolo in via delle Acacie, Teresa Mecca racconta dei corsi di italiano per adulti, stranieri e immigrati. “Si sono iscritti in trenta”, dice, “anche egiziani, tunisini, una siriana”. L’ambizione è aprire uno sportello che fornisca assistenza non solo burocratica, ma di partecipazione civica. “Forse le comunità sono distanti - dice frate Mario - forse non sono tutte rose e fiori, ma esiste un affiatamento tra le persone che costruiscono ponti e aggregazione. Qui non ci sono mai stati episodi di intolleranza, neppure di rifiuto reciproco. Se vogliamo vivere in pace, dobbiamo scommettere sulla valorizzazione della diversità. Mi pare che la comunità musulmana gradisca quest’attenzione”. 


giovedì 15 dicembre 2022

La magia che Marco D'Amore vede in Napoli

C'è un uomo esageratamente anziano accecato da una luce in uno scrigno. L'ha aperto con le mani che tremano per l'età, per la fatica di una ricerca. Ha percorso i sentieri di tufo del sottosuolo, si è tuffato nel golfo, ha visto spiriti e fantasmi. Ha pure baciato una sirena, non una qualunque, Partenope, per capire da dove vengano miti e leggende della città. Marco D'Amore è stato al trucco sei ore, prima di girare la scena chiave del suo film Napoli magica, nei sotterranei di Castel dell'Ovo, dove Virgilio nascose l'uovo su cui si posano l'edificio e la città, guai a romperlo, sarebbe una sciagura.

«È un progetto che mette in scena un fallimento — dice — l'impossibilità di raccontare Napoli nella sua pienezza. Come ogni città-mondo ». Prodotto da Sky e Mad Entertainment, il film sarà fuori concorso al festival di Torino, in sala tre giorni dal 5 dicembre, con un linguaggio a metà tra documentario e finzione. È un viaggio nelle credenze di Napoli e dentro ciò che di Napoli si crede, nelle convinzioni dei vivi e nel culto dei morti, un'indagine su Storia e percezione, complessi di superiorità e inferiorità, sul misterioso bisogno di affetto e la necessità di piacere, sulla separazione tra élite e popolo, in un posto dove stanno insieme l'illuminismo di Vico e il corno rosso della superstizione. Ed è curioso che questo percorso nell'aldilà lo faccia il volto che in Gomorra era l'Immortale.

«È il mio desiderio di conoscenza, una spinta che sento da ragazzino. Sono andato via a 18 anni, sono tornato a 30. Ho studiato a Milano, ho girato il mondo con la compagnia di Servillo. Mamma mi portava al Duomo, papà allo stadio. Sono le due passeggiate che mi hanno formato, ma il volto meno folkloristico di Napoli si conosce poco, anche in città. Pasolini ci chiamò una tribù che ha deciso di estinguersi, eppure esiste qui una spinta alla modernità e al progresso. Pazienza se mi sento contestare di non mettere distanza tra me e un'eredità artistica di cui non ho alcun merito, di essere troppo napoletano nel punto di vista politico».

Tra il cimitero delle Fontanelle, le catacombe di San Gaudioso e la cappella del Cristo Velato, il film è un atto di devozione. Eppure, D'Amore tradisce il piacere di camminare nei risvolti, sui sentieri della Napoli scientifica. Mette in scena l'afasia del popolo incapace di definire cosa siano magia e bellezza. Chiude con una sorpresa, uno sberleffo tra Collodi e Apuleio in cui pare invocare una moratoria, il silenzio dell'ignoranza su Napoli. C'è tanto studio dell'antropologia cittadina in dettagli, eccessi, scene comiche, omaggi a Totò e Peppino.


lunedì 12 dicembre 2022

La Roma di Ornella Vanoni

C’è un chilometro di distanza tra l’Auditorium della Conciliazione e Regina Coeli, una passeggiata d’una dozzina di minuti tra il palco di domani sera e le celle scure dove in fondo tutto è cominciato, dove ‘na campana sona a tutti l’ore, il punto metaforico da cui è partita la parabola del successo di Ornella Vanoni. Giorgio Strehler, Fausto Amodei e Fiorenzo Carpi le avevano cucito addosso un repertorio e un personaggio, la cantante della mala. Era una 23enne reduce da un debutto in scena ne I Giacobini di Zardi. Si inventò un genere, di cui era l'interprete ufficiale. I giornali dell'epoca parlavano di "voce interessante da mezzo soprano, calda e penetrante", di "capacità scenica non frequente", e in uno dei pezzi più popolari cantava che le Mantellate so’ delle suore, ma a Roma so’ sortanto celle scure. Era stato costruito apposta perché sembrasse il recupero colto di una tradizione popolare. Invece Strehler era triestino, Amodei torinese, Carpi milanese come lei. Lo presentarono al festival dei due mondi di Spoleto. Cantava il mondo chiuso dentro la sezione femminile del carcere di via Lungara, nato dalla trasformazione di un monastero seicentesco delle Carmelitane Scalze, ma di secolare nella canzone non c’era nulla, una fake-song, sebbene stesse bene pure nel repertorio folk di Gabriella Ferri e Lando Fiorini.
La giovane Ornella che aveva preso il diploma per fare l’estetista perché «avevo l'acne», si ritrovò cucita sulla pelle l’etichetta di cantante cerebrale. Nei titoli era accostata spesso così a Laura Betti, capace d’essere insieme sia felliniana sia pasoliniana, oltre che attrice preferita di Bellocchio. L’Ornella delle Mantellate sparì presto dalla scena. Divenne quasi subito molto altro, si diede alla prosa, al cinema, alla musica leggera. Roma ebbe di nuovo un ruolo, venne per sposare l’impresario Lucio Ardenzi, uscendo dalla figura politicamente scorretta di cantante della mala, quelle esibizioni che erano state raccontate dai critici del 1959 come una “apparizione espressionista, cantava guardando il soffitto, pallida, gli occhi brucianti, le mani bianchissime e lunghe nelle nella semioscurità della sala”.