lunedì 12 dicembre 2022

La Roma di Ornella Vanoni

C’è un chilometro di distanza tra l’Auditorium della Conciliazione e Regina Coeli, una passeggiata d’una dozzina di minuti tra il palco di domani sera e le celle scure dove in fondo tutto è cominciato, dove ‘na campana sona a tutti l’ore, il punto metaforico da cui è partita la parabola del successo di Ornella Vanoni. Giorgio Strehler, Fausto Amodei e Fiorenzo Carpi le avevano cucito addosso un repertorio e un personaggio, la cantante della mala. Era una 23enne reduce da un debutto in scena ne I Giacobini di Zardi. Si inventò un genere, di cui era l'interprete ufficiale. I giornali dell'epoca parlavano di "voce interessante da mezzo soprano, calda e penetrante", di "capacità scenica non frequente", e in uno dei pezzi più popolari cantava che le Mantellate so’ delle suore, ma a Roma so’ sortanto celle scure. Era stato costruito apposta perché sembrasse il recupero colto di una tradizione popolare. Invece Strehler era triestino, Amodei torinese, Carpi milanese come lei. Lo presentarono al festival dei due mondi di Spoleto. Cantava il mondo chiuso dentro la sezione femminile del carcere di via Lungara, nato dalla trasformazione di un monastero seicentesco delle Carmelitane Scalze, ma di secolare nella canzone non c’era nulla, una fake-song, sebbene stesse bene pure nel repertorio folk di Gabriella Ferri e Lando Fiorini.
La giovane Ornella che aveva preso il diploma per fare l’estetista perché «avevo l'acne», si ritrovò cucita sulla pelle l’etichetta di cantante cerebrale. Nei titoli era accostata spesso così a Laura Betti, capace d’essere insieme sia felliniana sia pasoliniana, oltre che attrice preferita di Bellocchio. L’Ornella delle Mantellate sparì presto dalla scena. Divenne quasi subito molto altro, si diede alla prosa, al cinema, alla musica leggera. Roma ebbe di nuovo un ruolo, venne per sposare l’impresario Lucio Ardenzi, uscendo dalla figura politicamente scorretta di cantante della mala, quelle esibizioni che erano state raccontate dai critici del 1959 come una “apparizione espressionista, cantava guardando il soffitto, pallida, gli occhi brucianti, le mani bianchissime e lunghe nelle nella semioscurità della sala”. 


Alla vigilia della tappa romana di questo nuovo tour, dopo il numero zero di Mantova e la prima uscita di Padova, Ornella Vanoni racconta al telefono che “a Roma ho vissuto per 11 anni, ho ricordi belli e brutti, ho fatto molta televisione. Ho abitato prima a Prati e poi sull’Appia Antica, una città bellissima”. Anche una cine-città di lì a poco, con una dozzina di film, il primo per la regia di Corbucci, si intitolava Romolo e Remo. “Se capita - dice in una pausa delle prove - mi rivedo volentieri. I film non sono sono tanti, non tutti sono stati belli”. Un chilometro oltre le Mantellate e 63 anni più tardi, sul palco con lei c’è un quintetto di sole musiciste: Sade Mangiaracina al pianoforte, Eleonora Strino alla chitarra, Federica Michisanti al contrabbasso, Laura Klain alla batteria e Leila Shirvani al violoncello, per una rilettura jazz del suo percorso, ogni sera una scaletta da montare e rimontare. “Ho lavorato in passato con jazzisti straordinari e sono eccezionali adesso le musiciste che mi accompagnano. Il fatto che siano tutte donne è per me un valore aggiunto. Sono stata certamente femminista negli anni Settanta, senza potermi dire militante. La mia militanza credo di averla fatta in musica, quando ho cantato Mi sono innamorata di te, il pezzo di Tenco, cambiando il concetto di ciò che a una donna in amore era consentito e cosa no, imponendo l’idea che anche una donna può pensare e dire certe cose in amore”.
Tra le Mantellate e l’Auditorium ci sono stati 112 lavori in tutto, tra album originali e raccolte, 55 milioni di dischi venduti, 8 volte al festival di Sanremo, e un frammento di infanzia. “Nessuno cantava in casa mia, quando ero bambina. Forse solo la cameriera”.

[uscito su Repubblica Roma il 5 dicembre 2022]

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