mercoledì 21 dicembre 2022

Il Marocco di Centocelle

È nelle apparenti minuzie che si costruisce una casa comune. Un piatto di polenta, per esempio. Le donne cattoliche la prepareranno senza salsiccia e dalla moschea porteranno il cous cous, come accade da tre anni nella domenica del mercatino di Natale, alla parrocchia San Felice da Cantalice. È davanti alla facciata di questa chiesa a forma di capanna che mezzo secolo fa passeggiava l’Accattone di Pasolini, appoggiando il braccio sinistro sulle spalle di Stella, “lo sai che io già te vojo bene, me pare che pure te c’hai bisogno d’un conforto”. Centocelle era margine, era un ciglio di Roma, dieci anni prima c’era venuta la regina Elisabetta in visita e durante la guerra i partigiani avevano insediato un comando sotto il pergolato dell’osteria in piazza Mitri. Era il tempo in cui Sergio Citti diceva che i Parioli sono “er contrario de’ ‘e borgate”

Ora le borgate sono periferie, si somigliano tutte, sul retro di San Felice hanno dipinto un murale di Baglioni - “strada facendo, vedrai | che non sei più da solo” - perché da ragazzetto veniva a suonare la chitarra in chiesa. La parrocchia di frate Mario Fucà è diventata il centro di un corpaccione che fa 54 mila abitanti, il 18% stranieri. Se domani il Marocco dovesse aggiungere un’altra perla al suo storico Mondiale, se un gol in Qatar dovesse far ballare di nuovo tutti all’angolo di via degli Aceri, allora domenica la polenta col cous cous sarà nei piatti quando mancheranno poche ore alla finale, e a Centocelle saranno tutti sotto una stessa bandiera. Il centro di Roma è lontano 7 km. Nel 61 era un viaggio. Ora che il mondo ti entra nella vita con un telefonino, sono sei fermate di metro C che Accattone non aveva. Alla Casa del popolo in via delle Acacie, Teresa Mecca racconta dei corsi di italiano per adulti, stranieri e immigrati. “Si sono iscritti in trenta”, dice, “anche egiziani, tunisini, una siriana”. L’ambizione è aprire uno sportello che fornisca assistenza non solo burocratica, ma di partecipazione civica. “Forse le comunità sono distanti - dice frate Mario - forse non sono tutte rose e fiori, ma esiste un affiatamento tra le persone che costruiscono ponti e aggregazione. Qui non ci sono mai stati episodi di intolleranza, neppure di rifiuto reciproco. Se vogliamo vivere in pace, dobbiamo scommettere sulla valorizzazione della diversità. Mi pare che la comunità musulmana gradisca quest’attenzione”. 


La moschea al-Huda è a un centinaio di passi. Il suo nome significa “la retta via”. Sotto la guida dell’imam Mohammed Ben Mohamed accoglie fedeli da più di 25 paesi, la maggior parte dei quali maghrebini. È stata una delle prime di Roma, il sermone di mezzogiorno del venerdì [la khutba] si tiene in arabo e italiano. Due figli dell’imam sono nati qui. Quando è stato formato il gruppo degli scout musulmani, hanno iniziato a frequentare più spesso i cattolici. Gli incendi dolosi di tre anni fa alle attività commerciali del quartiere si spinsero anche nell’area marocchina, dove adesso le bandiere sono appese alle vetrine. Al numero 12 di via Pioppi, macelleria Baraka, c’è la maglia del terzino Hakimi e un televisore davanti al quale si radunano una trentina di tifosi ogni volta. È il negozio di Larbou Sadik, da 22 anni in Italia, prim’ancora autista e frigoriferista, i condizionatori se li è montati da solo. I quattro figli sono nati in Italia e dice che se l’avversaria fosse stata la Nazionale di Mancini, non la Francia, avrebbero avuto il cuore a metà, perché “casa è dove sei nato, ma pure dove trovi il piatto a tavola”.

Al Mercato Arabo, Ibrahim Rabeh racconta la sua storia di figlio di un ambulante partito dal Marocco, girovago per l’Europa, stregato da Napoli, “la città per la quale ha sviluppato un senso di appartenenza che ci ha trasmesso. A Napoli non sapevo di essere marocchino”. Lui e suo fratello sono nati là. Il padre incontrò per caso una donna tunisina, un’insegnante in gita scolastica. Volò a casa sua, la chiese in sposa alla famiglia. È uno dei molti immigrati che si oppongono con fierezza ai soprusi della camorra, una verità rimossa dai nostri racconti dell’immigrazione. “Non pagava il pizzo. Gli hanno bruciato due volte il negozio. Quando torno a Napoli, vado a guardare il segno dei proiettili sulla saracinesca. Teneva testa al Biondo nel rione, finché un giorno al Tg capimmo dalle immagini dell’arresto chi fosse davvero questo Biondo”. 

Ecco cosa succede quando segna il Marocco. Questa è la tempesta emotiva che scatena. Ibrahim è cittadino italiano. Ha studiato antropologia a Roma, suo fratello ingegneria a Napoli. Hanno una sorella infermiera, l’altra insegnante. “Farcela con un cognome arabo è un’impresa. Penso che Fatima c’è riuscita solo perché è bianca come una mozzarella. Eravamo invisibili, ora col Mondiale ci vedono. Uno di seconda generazione vive tutto peggio. Cerca un equilibrio nella sua identità in bilico. Non è più solo musulmano, scopre che non sarà mai del tutto italiano. Più sei integrato, più ti fa male. Puoi diventare chi vuoi, resterai quello dei cammelli e delle 72 vergini. Penso alle bambine arabe del tutto integrate, immerse nella cultura italiana fino ai suoi aspetti pop, pubblicano video su TikTok con le compagne di scuola, e un giorno provano lo shock di sentirsi chiamate marocchine di merda. Se non ci fosse un’intera comunità a mediare, questo odio si potrebbe trasformare in un clima da banlieue. Non si può elemosinare un’appartenza, geografica e sentimentale. Ecco perché gli Hakimi e gli Ziyech sono tornati a giocare per il Marocco. Il mio rancore l’ho trasformato in freddezza. La parola e l’ironia battono il razzismo. Ai più piccoli dico: parlate. Anche col confronto duro si costruisce qualcosa”. Se poi segna En-Nesyri ancora meglio. Non sei di Centocelle, se non tifi per il Marocco.

[uscito su Repubblica Roma il 14 dicembre 2022]

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