
Merckx si rialzò, inseguì, tornò in gruppo. Provò pure ad andarsene, a due giri dalla fine. Inutile. All’ultimo partì Kuiper. Parve una follia, un giochino tattico per aiutare i suoi e sfibrare i belgi. Invece arrivò. Da solo, 17 secondi prima degli altri. Moser era quel giorno “l’uomo nuovo del ciclismo italiano”. Così lo chiamavano i giornali. Aveva 24 anni ed era stato per sette giorni maglia gialla al Tour. Si lanciò a inseguire Kuiper ma non lo prese, perciò alla fine era furioso con tutti, compreso il c.t. Martini. “Alla nostra commissione tecnica non importa nulla se facciamo figuracce. Prima del Mondiale ci vorrebbero corse meno dure: invece ci fanno gareggiare su tracciati impegnativi, arriviamo qui con le gambe che sembrano pezzi di legno. E poi pretendono che vinciamo”. Moser era fatto così. E’ il primo Mondiale di ciclismo ch’io ricordi. Quando ero bambino, a casa mia era stata introdotta la regola per cui noi figli potessimo vedere la tv due volte a settimana. Si sfogliavano con cura Radiocorriere e Sorrisi & Canzoni per non sbagliare la scelta. Ancora oggi, se potessi scegliere un solo programma all’anno, sceglierei i Mondiali di ciclismo. Ma fuori dai miei giorni m’imbucavo in camera di mio padre quando guardava lo sport. Apparteneva alla generazione che venerava la triade popolare dell’epoca: calcio-ciclismo-pugilato. Impazziva per Omar Sivori, per Carlos Monzón e da bambino s’era appassionato a Coppi. Non era tifoso di Moser, nemmeno di Saronni. L’avrei visto entusiasmarsi più tardi, solo per Pantani.
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