giovedì 13 ottobre 2016

Un salone così grande


La prima volta che misi piede in casa sua, il professor Borraccia aveva lasciato sul fondo di una ceneriera scorie di sigarette, saranno state almeno una dozzina. Pareva si fosse divertito a sminuzzare in residui di polvere il suo vizio e a tenerlo parcheggiato chissà da quante ore di proposito laggiù, a una profondità da cui esalava per noialtri un castigo senza scrupoli. La seconda volta al fumo pareva essersi concesso perfino più generoso, e dalla terza in poi non ne parliamo. Non si trattava di amnesia, questo mi fu presto chiaro: era una cattiva abitudine. Lui accumulava rimasugli puzzolenti, a me toccava invece liquidarli. Non c’era nulla che mi desse più fastidio. In quell’appartamento di via Labicana avrebbero potuto chiedermi di strigliare il pavimento in marmo fino a spaccarmi la schiena, di stirare una giogaia di camicie, di preparare la cena per un corpo d’armata, di dare acqua alla Brighamia insignis e all’Adenium Obesium, di lustrare vetri e tapparelle due volte a settimana - questo e altro avrebbero potuto chiedermi, e io non avrei detto niente. Tutto compensava la vista dal terrazzo, il parco del colle Oppio e oltre lo sguardo l’ombra del Colosseo; all’orizzonte opposto il campanile di santa Maria maggiore, settantacinque metri ficcati nel cielo di Roma come la lancia nel costato di Cristo. Tutto accettavo e avrei accettato, tranne mettere le mani in quella montagna di cenere accumulata senza un perché, al chiuso di un salone.