venerdì 27 febbraio 2015

Se oggi nascesse un altro Gigi Riva

L'esultanza di Quagliarella a Bilbao
L'esultanza di Quagliarella a Bilbao
Sei vittorie su sei in due giorni di Coppe portano l'Italia al secondo posto nel ranking stagionale Uefa, dietro la Spagna, davanti alla Germania e all'Inghilterra. In due notti il calcio italiano si è tolto vent'anni di dosso. Non basta per dire che la crisi è finita, ma potrebbe essere sufficiente a mettere fine a un po' di slogan che girano sul conto della serie A.
A parlar male del calcio italiano non si sbaglia mai. Se la Juve va in fuga, il campionato è mediocre perché non ci sono alternative al suo potere. Ma se un giorno viene fermata dal Cesena, il campionato è mediocre perché è livellato verso il basso.

Pionieri ed eroi del calcio italiano

Se oggi siamo qui, persi dietro un pallone, la colpa è di un uomo con troppi impegni e mille interessi, Edoardo Bosio, ragioniere, fotografo, regista cinematografico. Un canottiere di Torino che a fine Ottocento parte per un periodo d’aggiornamento presso la ditta Thomas & Adams di Nottingham (oggi diremmo uno stage) e dall’Inghilterra rientra con dei palloni di cuoio e una febbre nuova. Il calcio quando non era ancora calcio rivive ora con le sue ingenuità e il suo romanticismo in “Il meraviglioso giuoco. Pionieri ed eroi del calcio italiano 1887-1926” (Laterza, 288 pagine, 19 euro), nuovo libro di Enrico Brizzi, che da Jack Frusciante in poi si è spesso dedicato all’altra sua grande passione pop dopo la musica.
Il “giuoco” del titolo dice già parecchio. Senza cedimenti a una nostalgia improbabile (Brizzi ha un mucchio di libri alle spalle ma appena 40 anni), al libro preme raccontare soprattutto modi e motivi di uno slittamento di classe, come cioè il football degli esordi sia diventato malattia nazionale, per quali vie nello spazio di una cinquantina d’anni da attività d’élite, per pochi e nobili, questo sport si sia trasformato in intrattenimento popolare, e poi addirittura il miglior strumento per capire e raccontare il Paese, se non il mondo.

mercoledì 25 febbraio 2015

Il signor Malaussène gioca in difesa

regini C’è una vecchia bugia passata di moda. “Si vince e si perde in undici”. Uno stopper lisciava la palla di testa, la buttava con uno svirgolone dentro la propria porta e poteva comunque tornarsene a casa felice, confortato dall'ipocrisia con cui il suo allenatore copriva il misfatto. Gli autogol di Comunardo Niccolai non sono stati mai un problema. “Si vince e si perde in undici”. Ecco. Non più. Dimenticatelo.
Prepariamoci a cancellare tutto questo, se in una sola sera - dentro la stessa partita - un allenatore dice di non poterne più degli errori di un difensore e l’altro mette le mani al collo al suo. Genoa-Samp certifica la nascita di un principio: non tutte le colpe sono eguali.

Totti, il labiale e la sincerità rubata

TANTO non serve voltare lo sguardo e far finta di niente. Se devi uscire, devi uscire. «Chi, io?». Esatto, tu. Proprio tu che poco fa avevi fatto gol, l'uomo che in pubblico non viene chiamato mai con il suo cognome, ma per il suo ruolo, con la "a" un poco chiusa, stretta fino quasi a diventare una "o". Il Capitòno. Questi francesi. Però esci. Numero rosso: il 10. Ci sono momenti in cui i calciatori smettono di calcolare. Tornano istinto puro. Una delusione non si può mascherare. Le sostituzioni, per esempio. Quando a Verona Totti s'accorge che la cosa lo riguarda, non commenta con la mano sulla bocca come fanno tutti, e primo fra tutti Cassano.

martedì 24 febbraio 2015

Il calcio matematico di Hitzfeld



PERUZZI , Ferrara e Deschamps. Zidane, Boksic e Vieri. Che Juve, la Juve di Lippi. In Europa non perdeva da 11 partite. Fino a quella sera lì, 28 maggio ‘97. «La chiave di tutto era convincere i miei che potevamo batterli». Infatti. 3 a 1 per il Borussia (due gol di Riedle). «Credi in te stesso. È stata la mia filosofia ». Ottmar Hitzfeld era il motivatore di quella banda capace di riportare dopo 32 anni lo scudetto a Dortmund e dopo 14 la Champions in Germania. È l'uomo che ha tolto per sempre di dosso a un ambiente la paura di vincere. Oggi commenta il calcio per Sky nel suo Paese. Nessuno più di lui sa cos'è il calcio a Dortmund.
«Arrivai nel ‘91, c'erano dei sogni, li abbiamo realizzati. La Ruhrpott è la regione degli operai, del lavoro durissimo. Non c'era altra cosa che il calcio, la vera religione di quell'area. Diventammo campioni con Chapuisat in attacco, uno svizzero che non erano in tanti a conoscere. Io sì, io venivo dalla Svizzera».

mercoledì 18 febbraio 2015

Djuric e l'orgoglio di essere provinciali

djuric QUANDO Milan Djuric sprinta verso l'area della Juve con i suoi due metri d'altezza e apre il piattone sinistro davanti a Buffon, neppure s'immagina quello che sta per combinare. Papà Goran, centravanti della serie C jugoslava, è scappato da Tuzla che lui era un bebè. Bosnia 1991, su una sponda dell'Adriatico sta iniziando la guerra civile. Sulla nostra ci stiamo occupando di mucillagine.
I Djuric si lasciano alle spalle alghe e carrarmati; sbarcano da una zia che vive a Pesaro. Milan cresce lì, sempre incollato a un pallone, il Cesena va a dargli un'occhiata e dopo qualche minuto di provino porta dritto a casa questo ragazzone nel frattempo sedicenne, riservandogli il tipico cammino fatto di gavetta e prestiti. Problema da quinta elementare: se dal 2006 al 2015 la carriera di Djuric tocca Ascoli, Crotone, Cremona, Trapani, Cittadella e di nuovo Cesena, calcolare qual è il suo bacino d'utenza. Soluzione: piccolo così. E di questi tempi non ci fai una bella figura.

lunedì 16 febbraio 2015

Cade la terra

ESTELLA, monaca spogliata, è l'ultima abitante di Alento, un borgo immaginario del meridione svuotato dalla minaccia di una frana. Dinanzi a questa terra che si disfa, la donna cerca un riparo per le biografie, la memoria e le voci di uomini e donne in esilio, primo fra tutti Marcello, di cui un giorno è stata istitutrice con molti tormenti non ancora placati. Intorno a questo spunto, con Cade la terra pubblicato da Giunti Carmen Pellegrino, giovane, cresciuta in Campania, già autrice di saggi e racconti, ha costruito un romanzo d'esordio ambizioso, alto, riuscito; coerente con la sua passione per la "abbandonologia". La lingua raffinata e mai banale (valgano per tutti i termini di "stallatico", "scarruffare", "tinnula"), come sospesa, fuori dal tempo, costruisce un clima rarefatto e teso, in certe pagine di una densità psicologica alla Tennessee Williams. Una galleria di esistenze «dal viso pieno di autunni» ci racconta quanto sia illusorio il confine tra chi per noi non muore mai del tutto e chi invece non è mai stato vivo abbastanza.

(la Repubblica, 15 febbraio 2015)

mercoledì 11 febbraio 2015

Non dite a Barry Copa che i rigori sono una lotteria

barrycopa Barry Copa, portiere ivoriano campione d'Africa, eroe della finale per via dei rigori parati e dell'ultimo segnato, ha annunciato l'addio alla nazionale. Questa è la sua storia.

A BOUBACAR Barry Copa avevano fatto un discorsetto, di quelli che iniziano e capisci dove stanno andando a parare. Sai com'è, l'età, le incertezze, gli errori. Insomma, sei fuori. Dopo tre Mondiali e sei Coppe d'Africa, è il momento di cambiare. È il momento di lasciare la porta della Costa d'Avorio a Sylvain Gbohouo, che è 9 anni più giovane, 10 centimetri più alto e 13 chili più potente. E che cosa può rispondere un trentacinquenne che si definisce "un giocatore modesto di un club modesto come il Lokeren"? Mormora sì, va bene, e siede in panchina.

A proposito di Siani e Pino Daniele

Quante sono le Napoli possibili. 
Veniva da chiederselo un mese fa quando morì Pino Daniele, lutto generazionale come pochi, ma anche trasversale alle cosiddette due città, tanto per restare dentro il canone delle definizioni antropologico-letterarie (cfr. Domenico Rea, Raffaele La Capria), e lutto trasversale forse perfino più di quello collettivo per Troisi.
Quante sono le Napoli possibili dentro le forme artistiche, della scrittura, della recitazione, della musica, veniva da chiedersi di nuovo ieri sera mentre sul palco del festival di Sanremo si esibiva Alessandro Siani, spaccando il pubblico: chi rideva in teatro e chi a casa trovava le sue battute già sentite, molto sentite; senza qui entrare nel merito della loro scorrettezza e della loro opportunità, giacché dovremmo altrimenti discutere sugli eventuali limiti che la comicità deve o non deve darsi, sulla volgarità e/o sulla banalità. Non è il caso. Il punto adesso è un altro.

mercoledì 4 febbraio 2015

Bad boy Maurito e la Milano degli eccessi


UNO era fuggito dal ritiro dell'Under 21 francese per andare in discoteca, un altro aveva nel curriculum lo sputo a un avversario e un arresto per minacce a un tassista. Il terzo tuittava dai letti ancora caldi d'amore e il quarto, be', il quarto era Osvaldo. Fu quando gli misero dentro lo spogliatoio tutto questo ben di dio — M'Vila, Medel e Icardi insieme al calcio ribelle di Daniel — che a Walter Mazzarri vennero le ultime parole famose: «Mi piace allenare giocatori non banali». Era luglio. Poi l'estate finisce, si torna in città e pure i playboy di Milano Marittima conoscono la routine. Tutti. Tranne gli interisti. Ormai rassegnati dinanzi alla vocazione del club ad attrarre, come dire, i creativi.