venerdì 30 maggio 2014

Pensieri sparsi su Ghost Stories dei Coldplay


È il disco che racconta la fine di un amore. È un disco impastato di quella malinconia lì. È un disco che, eccetera eccetera. Di Ghost Stories dei Coldplay questo si dice, questo si sta dicendo. Ma se Chris Martin non ci avesse raccontato che si stava lasciando con Gwyneth Paltrow, forse dai testi non ce ne saremmo nemmeno accorti. In fondo le canzoni questo sono: ti amo, mi manchi, resta cu' mme.

I calzettoni bianchi di Arconada

arconadaLeader è una parola che si usa troppo spesso, dentro un campo di calcio e fuori. Con i leader si esagera. State sempre a cercarne uno, ma i leader sono un problema, i leader sono un pericolo. Esistono le squadre, questo è il calcio. In campo esistono undici personalità, undici esperienze differenti. Non si dovrebbe mai dipendere da un uomo solo, perché quando i leader sbagliano, o quando vengono a mancare, mandano la squadra giù per un precipizio. Non provate a leggere dentro queste mie parole un messaggio politico. Io di politica parlo solo con i miei amici più stretti. Di due cose non parlo: di politica e religione. Tutto quello che di me trovate in giro su questi due argomenti, bene, sono scemenze. Il divorzio, la pillola, eccetera. Tutti chiedevano un mio parere, quando ero Luis Arconada, il numero uno della nazionale di Spagna al Mundial '82, organizzato in casa nostra. Ma ero solo un portiere di calcio, non un personaggio della scena pubblica.

giovedì 29 maggio 2014

Per favore non dite niente

perfavore Non è vero che una polemica aiuta il cammino di un libro. Non sempre, non vale per tutti. Al romanzo di Marco Ciriello, Per favore non dite niente, la polemica ha fatto male.
È nota la storia della diffida firmata dall'ufficio legale della Federcalcio. Meno noto è il tema di cui si occupa il romanzo, cosa imperdonabile trattandosi di un libro. Devo chiarire che conosco Marco Ciriello di persona, così come sento di dover aggiungere che l'ho conosciuto solo dopo aver apprezzato quello che scrive.

martedì 27 maggio 2014

Arzú e le lacrime dell'Honduras

arzu Non sapevamo picchiare, non sapevamo perdere tempo e avevamo la mano sul petto mentre suonava l'inno nazionale. E' peccato essere poveri, è peccato essere piccoli. E allora ci fecero fuori. Alla vigilia del Mundial in Spagna, il mio Honduras era una delle squadre di cui si poteva ridere. Gli articoli che raccontavano di noi, parlavano di stregoni, filtri magici e Maradona d'ebano. Questo eravamo: facili parole. Due settimane dopo diventammo un fastidio, un fastidio di cui liberarsi. Come l'Algeria, che poteva fare fuori la Germania. Come il Camerun, che poteva fuori l'Italia. Noi avevamo addirittura osato intralciare il passo dei padroni di casa, 1-1 a Valencia all'esordio: la notte che passò alla storia come l'Hondurazo.

Al Tarabulsi, lo sceicco e il fuorigioco di Giresse

kuwait 1982    Eppure la prima volta avete riso di noi, della nostra ingenuità e della nostra rabbia. La prima volta che voi europei avete incrociato uno sceicco su un campo di calcio, avete costruito intorno a noi un quadretto di folklore e di cliché. La avete chiamata una vergogna. Platini spalancò il campo per Giresse con un passaggio dei suoi, uno di quei tocchi che creano lo spazio anche là dove lo spazio prima non c'era. Carlos Alberto Parreira, ct del Kuwait al Mundial di Spagna, ci aveva insegnato a difendere in linea. Giocavamo la zona molto prima che fosse adottata da tanti. Nella sua carriera ha guidato cinque nazionali diverse in cinque edizioni differenti.

domenica 25 maggio 2014

N'Kono, il leone indomabile

nkono Appoggiai male un piede mentre arretravo e scivolai. Posso ripeterlo un altro milione di volte. In eterno. Non presi soldi dagli italiani. Sul colpo di testa di Graziani, semplicemente, scivolai.
Noi, i Leoni Indomabili. Eliminati, ma eroi. Chiudemmo il Mundial di Spagna da imbattuti. Non lo avrebbe immaginato nessuno. Eppure tutti si chiesero perché non provammo a battere l’Italia per eliminarla, perché ci accontentammo del pareggio dopo averlo raggiunto. Ci mancò la freschezza che avevamo avuto contro la Polonia, questa è la verità. Se avessimo voluto sul serio truccare la partita, avremmo approfittato di altre mille occasioni.

venerdì 23 maggio 2014

Mehdi Cerbah e la vergogna di Gijon

cerbah Simpatico non è un complimento. Simpatico vuol dire innocuo, piacevole e inoffensivo, docile, mansueto. Vi auguro che non vi chiamino mai così, che non vi chiamino mai come facevano con noi, l'Algeria del 1982. Era metà giugno, faceva caldo a Gijon quando diventammo la sorpresa dei Mondiali. La prima squadra africana a firmare un'impresa, memorabile, altro che, se è vero che battemmo la Germania. A loro mancava solo Hansi Mueller, il regista dalle ginocchia di cristallo. Gli altri campioni c'erano tutti. I bookmakers inglesi davano la nostra vittoria 12 a 1, beati quelli che ebbero l'intuizione di puntarci 10 sterline sopra. Madjer e Belloumi lasciarono il segno più di Littbarski e Rummenigge, e Hrubesch, e Breitner, e Stielike.

martedì 20 maggio 2014

Processo a Maradona e alla mano de dios

manodedios La mano de dios, ci risiamo. Qualche giorno fa, al festival del diritto e della letteratura di Palmi, quel gesto e il suo autore sono stati messi sotto processo, 28 anni dopo. L'accusa: il giornalista Flavio Tranquillo. La difesa: l'avvocato Claudio Botti. Il giudice: il giudice Antonio Salvati. E' andata così.
Flavio Tranquillo ha chiesto la condanna di Maradona per due motivi. Il primo basato sul rilievo per cui se ci sono delle regole, vanno rispettate. E con convinzione, ha sottolineato, citando la lezione di Paolo Borsellino. Un principio da applicare all'interno e all’esterno di un campo di calcio. Il secondo motivo è a suo dire romantico: Maradona va condannato anche per aver fatto ricorso all’inganno, lui che era genio nell’arte del calcio, perché dell'inganno non avrebbe avuto bisogno. Si direbbe un'aggravante.

lunedì 19 maggio 2014

Dove le strade non hanno nome: la recensione di Ramona Granato

Le strade che non hanno nome, nel libro di Carotenuto, sono quelle della canzone degli U2 "Where the streets have no name" - che nel 1993, anno in cui sono ambientate le vicende della trama, sono in concerto a Napoli -, ma sono anche quelle di Napoli, o meglio, quelle che dovrebbero essere quelle di Napoli, per poter cancellare i pregiudizi che si incollano addosso alle persone a causa del nome della strada in cui sono nati o vivono. Si incollano perché ce li incollano gli altri e perché ce li incolliamo da soli, come se avessimo bisogno di un'immagine in cui credere, di un nome affisso sul muro per farci recapitare i pensieri.
(la recensione completa di Ramona Granato è qui)


sabato 17 maggio 2014

Essere colchoneros

atl-madrid-tifo Essere colchoneros significa pensare cose come quelle che dice Diego Pablo Simeone. "Nel calcio si deve avere sempre paura, solo chi ha paura scopre di avere coraggio".
Parole che oggi fanno di lui l'esatta incarnazione del perfetto uomo Atletico, e non solo perché aveva la maglia bianca e rossa nell'anno dell'ultimo campionato vinto, 1996. L'altra Madrid ha riscoperto con lui il coraggio di pensare in grande, di illudersi, di sentirsi in grado di vincere tutto, persino di demolire la sua mitografia, costruita sull'idea di un club magnifico e perdente. Simeone è tornato per ribaltare un mondo.

mercoledì 14 maggio 2014

Ramón Quiroga e la marmelada del '78

Quiroga_figurina1978 Io, il venduto. Io, quello che aprì la porta all'Argentina. Io, Ramón Quiroga. Ve lo giuro sui miei capelli corti e le mie rughe: sono innocente. Le cose nel '78 sono andate così, e mi dovete credere. Il 21 giugno era il giorno decisivo: per la finale dei Mondiali si sarebbe qualificata la prima piazzata nel girone della seconda fase. Senza semifinali, la stessa formula del '74. Argentina o Brasile. L'Argentina quella sera aveva il vantaggio di andare in campo conoscendo già il risultato dei rivali. Sapeva che per farcela avrebbe dovuto vincere 4-0: contro di noi, il Perù, e in porta per il Perù c'ero io. Ma io sono nato a Rosario, Argentina, il Perù mi aveva solo offerto un passaporto e un posto in nazionale. E Argentina-Perù, quella sera, proprio a Rosario si giocava. La città di Che Guevara. La città di Cesar Menotti, il ct della nazionale che i generali volevano vedere campione del mondo.

domenica 11 maggio 2014

Il Giro a Dublino e le biciclette di James Joyce


Al centro del giardino incolto, situato dietro la casa, c'era un melo, e qua e là cespugli isolati, sotto uno dei quali trovai la pompa della bicicletta dell'ultimo inquilino, tutta arrugginita. Era stato un prete molto caritatevole: nel testamento aveva lasciato tutto il suo denaro a istituzioni pie e i mobili alla sorella.
(Gente di Dublino)

Olivares e la partita in 11 contro nessuno

juanitoScoprimmo che ci fischiavano. Arrivammo in Germania e ce l'avevano con noi. Eravamo la squadra di Pinochet, ci eravamo qualificati grazie alla rinuncia dell'Urss, ma soprattutto con una partita diventata barzelletta. In Cile le cose andarono così. Il Palazzo della Moneda era caduto da due mesi. Settembre '73. "Ho fiducia nel Cile e nel suo destino", aveva detto Allende alla radio, poco prima di morire durante il golpe di Pinochet. Ci stavamo infilando nel buio. Chi si opponeva finiva allo stadio, il nostro, l'Estadio Nacional, a Santiago. Non c'era più posto per i gol, lo avevano trasformato in un gigantesco campo di concentramento per chi aveva idee diverse da quelle del generale.

Le 100 partite più belle dei Mondiali

Rivera e Riva, Italia-Germania 4-3 (1970)
Rivera e Riva, Italia-Germania 4-3 (1970)
 Nel suo ultimo numero, il Guerin Sportivo ha messo in fila le 100 partite più belle viste ai Mondiali. Una lista in cui vale la pena andare a buttare un occhio. Venticinque di queste 100 partite hanno avuto in campo il Brasile, la nazionale che ne ha giocate di più. Seguono la Germania con 24, l'Italia con 22 e l'Argentina con 20. Sono queste le quattro squadre regine. Poi spiccano le 12 dell'Olanda e le 11 di Francia e Inghilterra. La finale che occupa il posto più in basso in classifica è quella del 1962 fra Brasile e Cecoslovacchia (finita 3-1): 26esima. Fuori dalle 20 partite più belle ci sono altre tre finali: quella del '90 fra Germania e Argentina (1-0), quella del quinto titolo brasiliano nel 2002 con vittoria sulla Germania e Francia-Brasile del '98.

venerdì 9 maggio 2014

Quando fui la carogna, e lo Stato trattò con me


Ero al liceo scientifico. Successe in terza. Classe difficile, la terza. Si sa come va. Cambiano i professori, le cartelle si appesantiscono, le ragazze ti lasciano. Arrivano materie nuove e tu hai i pensieri da un'altra parte. La filosofia, per esempio. Pur coltivando una certe propensione a far risiedere la testa fra le nuvole, ti imbatti in personaggi belli strani, tipo quel Talete e la sua acqua, ed è soltanto l'inizio.
Insomma. Interrogazione. La prima interrogazione della mia storia in filosofia.

Tomaszewski, il clown di Wembley

toma3Clown. Così mi chiamò Brian Clough, che in Inghilterra all'epoca allenava il Derby County. Anzi. Un clown con i guanti, disse. Solo perché qualche volta respingevo con i pugni, quando a suo dire potevo bloccare il pallone. Clown, boh, può darsi pure. Ma andiamo in campo e vediamo chi è Jan Tomaszewski. Loro, gli inglesi, avevano inventato il calcio. Noi, polacchi, a un Mondiale c'eravamo stati solo nel '38 e non se lo ricordava nessuno. Da quando nel '50 aveva deciso di uscire dal suo superbo isolamento, l'Inghilterra non aveva mai fallito una qualificazione. 17 ottobre 1973, ultima partita del girone. O noi, o loro: una delle squadre sarebbe rimasta a casa, l'altra sarebbe andata in Germania.

martedì 6 maggio 2014

Tenetevi il mento con la mano

Quale consiglio daresti a chi ha l’ambizione di pubblicare un libro?
"Di farsi una foto tenendosi il mento con la mano, preferibilmente la sinistra. Questa è proprio la classica posa dello scrittore, il libro sarà pubblicato, vincerà un mucchio di premi e venderà anche moltissimo".


(quando uno si monta la testa comincia a rilasciare interviste di questo tipo a Jepmagazine: leggila tutta qui)

venerdì 2 maggio 2014

Leão e la democrazia di Socrates

leao Quando dopo due mondiali vinti, il Brasile rientrò dall'Inghilterra con un'eliminazione al primo turno, tutti dissero che serviva un nuovo portiere, più giovane, più grosso. Ero io. Émerson Leão. Il Leone. Aspettavo il Messico nel '70 per diventare campione del mondo a ventuno anni. L'ultimo Mondiale di Pelé, sapevo che avrebbe voluto lasciare con un'altra impresa. Io sarei stato il portiere titolare, così garantiva il ct Joao Saldanha. Quando cominciarono le eliminatorie, in conferenza stampa fece i nomi degli 11 uomini che considerava titolari per il biennio. Aveva un'ambizione enorme: far giocare il Brasile con cinque numeri 10. Davvero.