Non è vero che una polemica aiuta il cammino di un libro. Non sempre, non vale per tutti. Al romanzo di Marco Ciriello, Per favore non dite niente, la polemica ha fatto male.
È nota la storia della diffida firmata dall'ufficio legale della Federcalcio. Meno noto è il tema di cui si occupa il romanzo, cosa imperdonabile trattandosi di un libro. Devo chiarire che conosco Marco Ciriello di persona, così come sento di dover aggiungere che l'ho conosciuto solo dopo aver apprezzato quello che scrive.
Un anno e mezzo fa mi era molto piaciuto il suo "Il Vangelo a benzina" (ed. Bompiani), e non c'eravamo mai incontrati, intravisti, sentiti, scritti e neppure pensati. Ecco.
Ciriello ha scritto un libro sul dolore, questa è la verità, un dolore di cui ciascuno ha esperienza: la morte per cancro di chi ti cammina accanto. Racconta quei giorni di tempo sospeso, la precaria condizione dei sentimenti, la fatalità che si fa strada sotto pelle. Non c'è una sola pagina che rinunci al registro della delicatezza, al rispetto verso chi da quel dolore è stato scavato, anche la lingua (assai diversa dal suo romanzo precedente) è frenata, trattenuta nella sua eleganza. Marco, il nome del protagonista, è un ex giocatore che come tanti finisce per proseguire la sua vita ricca e scombinata su una panchina. Fino al giorno in cui sua moglie Carla si ammala. A quel punto il calcio scivola in secondo piano. Ma le analogie con la drammatica vicenda di Prandelli finiscono qui. Sono differenti i successi e gli insuccessi da calciatore, diverso è il curriculum, diverso è finanche l'uomo. Marco non è credente, ascolta le opere di Mahler e scopre in Ingmar Bergman una sensibilità vicina alla sua. Marco non è Prandelli, semmai un impasto di personaggi calcistici in cui ciascuno sarà libero di intravedere questo o quello. "Nel calcio non ci sono innocenti", nel calcio c'è "questa gente di mondo, meschina, furba, incapace di stare zitta ai funerali perché ha imparato dalla tv che bisogna sempre dire qualcosa e dirla bene".
Questo romanzo non è l'equivalente della Grace di Olivier Dahan né dello Strauss Kahn di Abel Ferrara. Ciriello lavora sulla trasfigurazione di personaggi e di vicende, come sa bene chi conosce il suo blog Mexicanjournalist. Qui non si sfogliano le pagine per rintracciare quanto Prandelli c'è in Marco, ma per innamorarsi del mondo che è solo di Marco e non di Cesare, un mondo semplice e profondo, fatto di baci al pane prima che sia gettato e di rigori da calciare in fallo laterale se sono stati conquistati con l'inganno. A Ciriello insomma importa dirci il come, non chi. Gli importa raccontare la maniera in cui il dolore deforma, durante e dopo. "Sara ha già chiamato, richiamerà domani sera. Paolo è passato ieri, ripasserà fra due giorni. Fra quattro ho il derby, fra due mesi finisce il campionato, altri due e ricomincia. È questa la fine? Saper contare?". All'alta qualità del romanzo ha fatto torto il marketing della casa editrice Chiarelettere, ma se io fossi Prandelli sarei felice di essere stato accostato a un allenatore e a un uomo come Marco.
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