Quarant'anni fa, proprio in questi giorni, le commedie di Eduardo De Filippo cominciavano a conoscere uno straordinario successo in Inghilterra, nell'interpretazione di Joan Plowright e Laurence Olivier, con la regia di Franco Zeffirelli. Metto qui, un po' alla volta, i 4 capitoli di uno studio che feci nel 1993 sulla traduzione in inglese dei suoi lavori: le scelte fatte, i motivi del successo. Sperando che possa essere utile a qualche studente.
***
1. L'universalità del teatro di De Filippo
“Il teatro è lo
sforzo disperato che compie l'uomo nel
tentativo
di dare alla vita un qualsiasi significato”
(Eduardo
De Filippo)
Tutta l'opera di Eduardo si presenta come
un'interminabile notte di convalescenza, la stessa che pesa sul finale aperto
di Napoli milionaria! Partono da una debolezza, da un'ingiustizia, le
sue commedie. Partono dalle vicende di una città, la sua città, e finiscono per
rappresentare le fragili convenzioni del mondo, smascherandole. Quando Eduardo
riesce ad evadere dai confini nazionali, è subito evidente che di strettamente
localistico, nel suo teatro, c'è davvero poco. Il linguaggio, certo. E poi,
l'ispirazione, i personaggi, gli ambienti. Tutto qui. Il resto appartiene alla
sfera delle esperienze universali. Non sarebbe possibile, altrimenti, spiegare
il successo mondiale delle sue opere: dei suoi testi, oltre che delle sue
rappresentazioni. Un successo, ovviamente, di pubblico, ma non solo. Gli
studiosi e i critici percepirono immediatamente quanto fosse fuori luogo il
tentativo di imprigionare Eduardo all'interno di una tradizione regionale. Il
significante, quello è inequivocabilmente dialettale. Il respiro del suo teatro,
no. E' dal secondo dopoguerra in avanti che l'universalità di Eduardo invade il
palcoscenico ed entra nelle sale. Prima d'allora, era rimasta pura teoria.
La prima
commedia ad essere rappresentata all'estero è Questi fantasmi. Siamo nel
1947, il teatro è il Nacional di Buenos Aires. Era stata scritta appena un anno
prima. E più o meno contemporaneamente, lo stesso destino tocca a Filumena
Marturano, che viene messa in scena al teatro Impero di Asmara, in Eritrea,
alla presenza del negus. Da questo momento in avanti, le commedie di Eduardo
cominciano a fare il giro del mondo. Senza sosta. 1
Cosa sia piaciuto all'estero, di Eduardo, se lo sono chiesto in
tanti. Limitando il discorso in chiave britannica, è d'interesse primario la
conferenza tenuta all'Italian Institute di Londra, il 18 ottobre 1976, da
Felicity Firth, docente presso l'Università di Bristol. “A mio avviso le
commedie di Eduardo sono irresistibili a causa della paradossale commistione di
cinismo e buona fede. Per cinismo intendo la sua raffinatezza, la sua saggezza
terrena, la sua penetrazione psicologica, o, se preferite, la chiarezza della
sua visione (...)”2
“Vorrei avanzare l'ipotesi che la moderna commedia europea, ossia
la commedia degli intellettuali, nasce in buona parte dalla diffidenza. L'ethos
è ripetutamente quello dell'insignificanza e dell'isolamento in un mondo
assurdo; il linguaggio ha cessato di comunicare significati e le strutture
sociali sono irrise. Questa è l'eredità di Pirandello e di Jarry, una specie di
ironia liberatrice che ci permette di allontanare, per la durata della commedia, la necessità
della vita d'ogni giorno così come la viviamo. Socialmente il mondo irreale di
Pinter, di Ionesco e di Monty Pithon, un mondo sprovvisto del tradizionale
centro di gravità borghese, nel quale occorre trovarsi fuori centro se si vuole
evitare il vuoto. Gli eroi sono individualisti, anticonformisti, eccentrici e
originali”3, continua la Firth.
La disintegrazione del mondo, la convivenza
difficile con una realtà scomoda, perfino lo “spirito della fiducia reazionaria
di Eduardo nei valori assoluti”4: ecco i temi che secondo la
professoressa Firth rendono le commedie di De Filippo non “soltanto il prodotto
d'un ambiente del dopoguerra, ma anche quello di un'epoca relativistica” 5.
“Scrittori come Thomas Stearns Eliot - continua - ci hanno detto
da molto tempo che non siamo in grado di sopportare troppa realtà. Eduardo ci
dice di voltarci e di affrontarla. Ci fa guardare oltre i trucchi da
prestigiatore della vita, e contemplare il sangue e le piume in fondo alla
gabbia, la violenza, l'ingiustizia, la vendetta e la fame”6. Ed ancora: “Vorrei citare ancora una volta Mia famiglia,
al punto in cui Alberto Stigliano descrive i suoi sentimenti alla nascita del
primo figlio (...): "Nun moro cchiù". Non morirò più. E' stato detto
in centinaia di modi. Che altro sta dicendo se non "Oh Death, where is thy
sting"? Oppure: "Death shall have no more domination over
me". "Nun
moro cchiù" ha la stessa qualità lapidaria del "S'ha da aspettà"
di Gennaro” 7.
La conferenza, come accennato, risale
all'ottobre del '76, quando cioè la conoscenza del teatro di Eduardo presso il
pubblico e la critica inglese è abbastanza sedimentata. Sui palcoscenici del
Regno erano già passate, negli anni precedenti,
Natale in casa Cupiello, Io l'erede, Questi fantasmi,
Sabato domenica e lunedì, Filumena Marturano, della quale
Zeffirelli andava allora preparando una nuova versione, con Joan Plowright nel
ruolo principale. Così,
la lettura dell'opera di De Filippo data dalla professoressa Firth diventa
esattamente una testimonianza di come l'Inghilterra si sia lasciata catturare
dai temi tipici del drammaturgo napoletano: “Da questo esame della signora
Firth è apparsa la completezza della comprensione dei valori del teatro
eduardiano da parte degli inglesi, una comprensione che va al di là
dell'entusiasmo per un attore che è stato definito il più grande dell'epoca
presente”8.
Ma i critici di lingua inglese avevano già
cominciato ad esaminare i testi di Eduardo prima che questi giungessero nei
teatri del loro Paese, o nei primissimi anni in cui ciò accadeva. E
l'universalità era stata colta sin da allora. Nel 1962, ad
esempio, dalle colonne di “The London magazine”, Harold Acton sottolinea come
il teatro di De Filippo condivida le medesime esperienze degli spettatori a cui
si rivolge: “Apart from the pleasure of skilled performance, Eduardo's success
is due to the fact that he reflects the experiences of his public and
establishes a closer contact with it than his predecessor”9.
Quale pubblico, ecco il punto. Non è certamente il pubblico
napoletano. Almeno, non esclusivamente quello. “Nella sua produzione teatrale
ci sono cinque opere nelle quali a noi sembra di trovare che la sua città
prenda il sopravvento sia come ispirazione, sia come contenuto: Non ti pago
del 1940, Bene mio e core mio del 1955, De Pretore Vincenzo del
1957, Il cilindro del 1965 e Tommaso d'Amalfi del 1963.
Illustrano credenze, concezioni, caratteri appartenenti a Napoli o mettono in
luce la situazione particolare e tutt'altro che privilegiata di quella città.
Le altre opere, nell'ambientazione e nell'espressione sono pure napoletane, ma
affrontano temi e situazioni che vanno ben oltre la città. Napoli insomma non è
altro che una lente d'ingrandimento attraverso la quale l'autore contempla
l'umanità”10. Caratteristica, questa, che
appartiene ai grandi scrittori, quelli che “più descrivono il loro paesaggio,
la loro città, più riescono a toccare le corde del sentimento comune a tutti
gli uomini. I luoghi della realtà e della biografia, infatti, sono spesso i
"luoghi dell'anima": la Roma piccolo borghese di Pirandello
romanziere,
la Londra sadica di Dickens, la Parigi
affaristica di Balzac, la Dublino viscerale di Joyce fanno parte di una
geografia letteraria riconoscibile e amata dai lettori di tutto il mondo”11.
Eduardo, per la verità, non negava né faceva
mistero di questo suo metodo compositivo. Anzi, era stato lui stesso ad
anticipare il concetto, nel corso di un'intervista: “Del resto - disse in
quell'occasione - non tratto problemi soltanto italiani o napoletani. In
Francia Filumena Marturano l'hanno trovata molto divertente. In Grecia
ho delle magnifiche critiche. Ormai sono greco. Per esempio, in Ungheria, ho
avuto degli articoli magnifici. Certe cose sono simili in tutti i Paesi. Napoli
milionaria! è stata data a Monaco, Berlino e Baden in tedesco”12. E da allora, il suo successo nel mondo è andato via via
crescendo. Joan Plowright, l'attrice alla quale sono stati affidati negli anni
Settanta i ruoli di Rosa Priore e Filumena Marturano nelle versioni inglesi,
ebbe modo di dire che “un teatro vernacolo diventa universale quando agita i
grandi sentimenti dell'uomo”13.
Napoli, dunque, è soltanto un punto di
partenza. L'unico possibile, se vogliamo, per Eduardo. Ma le particolarità di
questa città, le sue qualità speciali così come le sue spettacolari miserie,
non potevano soddisfare da sole le esigenze narrative di un drammaturgo dallo
sguardo decisamente più profondo, quale era De Filippo. “Come Pirandello
abbandonò le sue caratteristiche siciliane in favore di concetti universali, e
come Di Giacomo lasciò l'ambiente napoletano per un mondo più vasto, così De
Filippo assurge dalla presentazione delle locali debolezze napoletane alla
profonda riflessione sui problemi dell'uomo” 14.
Le sue tematiche, tuttavia, sono estremamente semplici. E' un teatro popolare,
il suo. Nel senso che porta in scena la vita semplice, del popolo, della
piccola borghesia, e a loro si rivolge. Concetti comuni, quelli di Eduardo, di
grande coinvolgimento spettacolare e di altrettanto grande intensità emotiva: “I
suoi personaggi sono in genere piccoli borghesi mescolati alla vita minuta di
ogni giorno, con i problemi morali, economici, pratici di tutti ma con
un'aspirazione alla giustizia ed alla moralità che li rende tipici ed attuali;
cioè, appunto: universali”15. E' la materia eduardiana a
prevalere sulla forma. Il vernacolo con cui De Filippo lascia che parlino i
suoi personaggi, non è affatto un limite per l'esportazione delle idee: “Se il
linguaggio di queste opere (...) è fondamentalmente dialettale, e napoletana è
l'ambientazione, lo spirito che le anima è universale ed è questa la
caratteristica che ha dato al teatro di Eduardo il segno della poesia e il
diritto di cittadinanza nel teatro di ogni Paese”16.
Ma l'universalità dei concetti eduardiani,
riconosciuta un po' da tutti senza alcuna difficoltà, non relega comunque in
secondo piano la tradizione alla quale De Filippo si rifaceva. Un aspetto
tutt'altro che secondario per gli stessi critici stranieri. Scrive
Eric Bentley: “Eduardo De Filippo started with an infinitely suggestive and
dramatic milieu, Naples, and with a theater which, if not great, had yet a real
existence, in a sense in which our broadways and boulevards and west endes are
deserts of unreality. These circumstances (...) brought Eduardo to the
threshold of great theater; (...) and it is thus that one of the most
traditional artists of our time became one of the most original”17
In un saggio del 1951, inoltre, Eric Bentley ipotizza che quelli
di Eduardo siano dei “laboriosi drammi a tesi”, in cui vengono espressi
principalmente i giudizi dell'autore, “manifestazioni personali della sua
volontà personale, ma, in quanto espressioni di una tradizione sociale, sono
del tutto comprensibili”18. Bentley continua: “Napoli è il
serbatoio al quale Eduardo, consapevolmente e
inconsapevolmente,
attinge. E non solo alla città nel suo insieme, ma anche al teatro napoletano
in particolare. Un teatro popolare, non un teatro d'arte. Ciò significa, prima
di tutto, che è un teatro dialettale, non italiano. Si serve di un linguaggio
parlato, non di una lingua ufficiale, nazionale, borghese. La mancanza di un
repertorio teatrale nazionale italiano può essere deplorata, ma il difetto ha
una qualità: il repertorio regionale”19.
Adesione alla tradizione locale e spirito
universale. I due argomenti tornano fianco a fianco nel discorso dell'oratore
designato al senato dell'università di Birmingham, il 15 luglio 1977, nel
giorno del conferimento ad Eduardo De Filippo della laurea in lettere honoris
causa: “Vico, Bellini, Pirandello e Croce sono alcuni esempi del grande apporto
intellettuale e culturale che il
Meridione ha donato all'Italia. E che questo apporto continui ancor oggi è
provato dalla versatile attività artistica di Eduardo De Filippo (...)
Attraverso questa ricca sfaccettatura di azione teatrale egli porta avanti una
secolare tradizione italiana, ed è diventato ormai un'amatissima istituzione
nazionale”20.
“Gli argomenti delle sue commedie - prosegue
la motivazione - spaziano su un vasto panorama emotivo e sociale, ma la maggior
parte sono ambientate nella sua città natale e ritraggono le vicissitudini di
un larghissimo campionario di personaggi presi dal popolo e dalla borghesia napoletana
(...) Thornton Wilder, Harold Acton, Eric Bentley e altri illustri letterati
inglesi e americani hanno scritto lunghi saggi sul lavoro di Eduardo De
Filippo, con giudizi assai positivi. Le migliori commedie da lui scritte, nelle
quali tragedia e commedia sono intrecciati direttamente, sono scritte in
napoletano; paradossalmente, esse raggiungono però portata universale dd gran
lunga maggiore di quelle scritte in italiano”21.
Se l'universalità del contenuto etico ed il
tradizionalismo dei valori avevano costituito un'ottima base su cui costruire
l'incontro con la società anglosassone, il dialetto, quella base, avrebbe
potuto teoricamente demolirla. Non andò così, invece. Che cos'era il dialetto
per Eduardo? Da cosa nasceva la sua esigenza di scrivere in napoletano e di
relegare al margine delle sue opere la lingua italiana? Perché tale scelta? Per
il drammaturgo napoletano, il dialetto era la più fertile possibilità
espressiva, la lingua del popolo, quella in grado di esprimere con maggiore
pienezza i moti interiori e la realtà viva del mondo dei semplici. Il dialetto, insomma, consentiva a Eduardo di
raccontare tutto ciò che apparteneva a quella comunità, quel gruppo interno che
Cortelazzo definisce come il gruppo legato dal “sentimento di noi” in quanto
opposto agli “altri”22. Per di più, nelle opere di Eduardo
il dialetto si riscatta dal suo eterno ruolo di subalternità rispetto ad una
lingua nazionale. Eduardo stesso precisava: “Io mi servo del dialetto perché
sono di natura dialettale, perché non saprei recitare in lingua. E' questo
rapporto tra autore e attore che devo risolvere. Io mi sono accorto che più le
commedie sono in dialetto più sono universali. Filumena Marturano è
stata tradotta in tutti i Paesi. Quando invece ho voluto fare una commedia in
lingua, è rimasta nel cassetto. Studiando a fondo i napoletani, io ho scritto
le mie commedie e quanto più ho approfondito questo studio, tanto maggiore è
stato fuori Napoli e fuori d'Italia il successo della commedia”23.
Con il passare degli anni, Eduardo sarebbe
anche arrivato a scrivere commedie in italiano, o prevalentemente in italiano
ma condite da frasi e modi gergali del napoletano. Il dialetto, però, sarebbe
sempre rimasto per lui un approdo irrinunciabile. Nella commedia Mia
famiglia, ad esempio, lascia che uno dei personaggi, Guidone, ne faccia un
elogio appassionato.
GUIDONE (pronto) “Quello che ho detto io. Beppe, senti a
me, frocoleaténne. (Ripensando all'espressione dialettale che gli è venuta
alle labbra, socchiude gli occhi estasiato, ripronunciando la parola per
assaporarne tutto il gusto che gliene viene, ogni qualvolta può dimostrare agli
altri quale raffinato conoscitore egli sia di battute, frasi e motti
partenopei) Frocoleaténenne! Sentite, io credo che non ci sia al mondo
nessun altro dialetto capace di poter esprimere qualunque sensazione e stato
d'animo: frocoleaténenne!... come se il mondo si frantumasse in minutissime
scaglie di mica... come se un'enorme torta millefoglie sparpagliasse felice le
sue squame profumate alla vainiglia sulla tela di Penelope... La parola ha in
se stessa una miracolosa scala musicale, ricca di semitoni e di bemolli.
Frocoleaténne! (traducendo in lingua)
Lascia che il mondo caschi, non te ne dare per inteso... (E conclude
convinto) Io so' pazzo p''o dialetto
nostro”24.
Eduardo riuscì a conservare il suo
napoletano perfino durante gli anni del fascismo, quando venne cioè scoraggiato
e successivamente addirittura impedito l'uso di lingue che non fossero
l'italiano, nella convinzione che il rispetto della diversità linguistica si
trasformasse in un colpo all'autorità del dispotico potere centrale. Del resto,
l'ostilità verso manifestazioni linguistiche non ufficiali è caratteristica
comune a tutti i regimi antidemocratici. In Italia, la dittatura fascista
arrivò ad imporre la traduzione di tutto quanto fosse traducibile, per poi
proibire anche la pubblicazione di testi in friulano. Il napoletano di Eduardo,
invece, fu tollerato. La censura colpì, nel 1932, il titolo dell'atto unico Le
bische, imponendo la trasformazione in Quei figuri di trent'anni fa.
Malgrado ciò, De Filippo continuò lungo la sua strada, facendo le proprie
scelte con una certa libertà. Negli anni del governo Mussolini, poté perfino
permettersi riviste e commedie di satira, come Basta il succo di limone e
La fortuna con la effe maiuscola. Così, nel dopoguerra, il dialetto
napoletano, già conosciuto grazie alle canzoni, diventò oggetto di studio anche
all'estero. Ai londinesi, nel 1962 (quando cioè le commedie di De Filippo non
sono ancora arrivate in Inghilterra), lo studioso Harold Acton spiega su quale
tradizione culturale esso poggi. E' un saggio che finisce per diffondere
notevole curiosità intorno al drammaturgo napoletano. Il primo saggio,
probabilmente, a sottolineare correttamente gli aspetti principali e le
caratteristiche delle sue opere. Attraverso il lungo articolo di Acton, la Gran
Bretagna stabilisce il primo vero contatto con i testi di Eduardo.
La parte iniziale di quel saggio è appunto
dedicata all'uso del dialetto. “Neapolitan
poets - scrive Acton - apart from the popular songsters, had discovered the
flexible beauty of this instrument when it was already threatened with decay by
the unification of Italy, though it had long been exploited in opera buffa
and on the comic stage. Now its days are numbered owing to the combined assault
of the ubiquitous radio, television, cinema, journalism, and the freemasonry of
sport. The transformation fo feminine manners and fashions since the last war
has accelerated the levelling process all over Italy. But the
lower-middle-class and the proletariat still converse in dialect, diluted in
ever larger doses with Italian, and the cultured often have recourse to it for
the mot juste which Italian could not supply”25.
E' esattamente quanto accade nelle
commedie di Eduardo. C'è il popolo che si esprime in dialetto. Ma ci sono anche
personaggi di ceto borghese che fanno spesso ricorso al napoletano per
puntellare i loro discorsi. Una
situazione, questa, difficile da trasmettere al pubblico inglese. Un pubblico
immerso in un contesto dialettale sostanzialmente diverso dal nostro: e sarà
una delle difficoltà maggiori, vedremo, per i numerosi traduttori di Eduardo.
L'adozione del termine dialettale, come spiega Cortelazzo, non sempre “è indice
di conoscenza del corrispondente italiano; anzi questo è ben noto, ma nello
stesso tempo, ritenuto così spento e lontano dalla propria intima esperienza
che lo si accompagna, per una sorte di traduzione rafforzativa, con la
parallela viva voce dialettale (o viceversa). (...) Vi è, dunque, anche il caso
del ricordo dialettale incalzante con la sua forza evocatrice di tutto un mondo
soggiacente alla parola esprimibile, che non può essere che la parola
dialettale, tanto è vero che neppure si cerca se e quale possa essere la
corrispondenza nella lingua optata”26. C'era
dell'altro, però. E per Acton, a lungo residente in Italia, era più semplice da
cogliere. Lo studioso mise al corrente i londinesi del fatto che
“in other regions of Italy there is a lingering prejudice against the
Neapolitan dialect though it is quite as comprehensible as the Venetian of
Goldoni's best comedies. Basically the language is Italian, but it contains a
multitude of words and expressions which, if less elegant than the Tuscan, are
more highly coloured and to some ears more melodious. It is scarcely surprising
thet Eduardo prefers to write in his native
Dialect”27.
La scelta linguistica di Eduardo è direttamente legata al
periodo in cui si colloca la sua opera. “The
golden age of the neapolitan dialect poetry - continua Acton - lasted from 1880
till 1930 when "regional" literature flourished as never before.
Salvatore Di Giacomo and Ferdinando Russo were its most inspired exponents:
they ran the whole gamut of its mood. Eduardo De Filippo, who was born in 1900,
belongs to the age of transition or dilution. Consequently most of his
characters mingle dialect with Italian, alternating the pungency of the one
with the suavity of the other and extracting all the flavour, fun and rich
tonality of their utterance. Whether they are trying to be "refined"
like a Cockney emulating the accent of a
BBC announcer, or whether they are blissfully
illiterate, he shows us how they revel in the syllables of their own speech”28.
Tutto ciò, ovviamente, non poteva
che costituire una sfida per chiunque volesse gettarsi nell'avventura di una
traduzione eduardiana. Ancora Harold Acton, nell'articolo-saggio già citato,
chiarisce questa difficoltà, proponendo una scena della commedia Napoli
Milionaria. “To take a small instance of this in the
first act of Napoli milionaria, the neighbour Adelaide's raptures over Rituccia
(whom we never see on the stage), the little daughter of Gennaro and Amalia
Jovine : 'What a sight for sore eyes is
that daughter of yours ! And what intelligence she shows! ... She seems quite a
little old lady! (Pare
'na vicchiarella!) Just how old is she?' Amedeo: 'Turned five'.
Adelaide (tenderly): 'A saint as well as old! (Santa e vecchia!) And
how well she talks! What a splendid pronunciation! Just to put it on trial I
asked her: Who do you love best, dearie? My mamma, she answered'. Gennaro: 'She
positevely adores her mother'. Adelaide: 'And what about your papa? I went on.
He's a goose (E' fesso). But with such a perfect pronunciation. Her
"s" is quite beautiful (La esse la tiene proprio bella...)'”29.
“Here the
rude word fesso, which has a different shade of meaning in Naples,
produces a shock similar to Eliza Doolittle's
'Not bloody likely' in Shaw's Pygmalion, but it also helps to summarize
his family's attitude towards Gennaro, the hero of the play”30.
Tuttavia, a shock uguale
corrispondono fini diversi. Le idee di Shaw circa la
"sdialettizzazione" sono note. Il drammaturgo “ritiene, in altre
parole, che smettere di parlare in dialetto equivalga ipso facto ad accedere
alla "cultura", diventare borghesi e, successivamente,
"socialisti". (...) Con il dialetto non si gira il mondo, non lo si
conquista, il dialetto è tribale, il dialetto non permette la rivoluzione industriale
ma nemmeno le avventure coloniali, e d'altro canto non è neppure certo che
escluda la fratellanza universale, come invece vorrebbero le concezioni
riformistiche”31.
Il dialetto napoletano, comunque, non venne
ritenuto un handicap e nemmeno un elemento che potesse in qualche modo
attenuare l'efficacia del testo eduardiano. Tutt'altro. “Some
of the dialogue would be rethorical in another language, not in Neapolitan.
Where else would a working-man describe his peckishness as "a slight
languor of stomach"?”32. Nella convinzione generale, anzi, il dialetto napoletano finì
via via per diventare una colonna portante dell'opera di De Filippo. Al punto
che il suo stretto legame con le rappresentazioni delle commedie eduardiane
ebbe modo di diventare
addirittura
un piccolo luogo comune del mondo teatrale. In Italia e all'estero. Ecco,
sull'argomento, Enrico Maria Salerno: “Questi fantasmi la misi in scena
in italiano, per dimostrare che il suo teatro non è come un tavolo a tre gambe
di cui la quarta era lui, il grande attore senza il quale il tavolo sarebbe
crollato. Per lui stesso quella fu una sfida, come per me, e fu anche una
vittoria”33.
Eduardo era convinto che le sue commedie non
fossero poi così comiche. “Io sono convinto che le mie commedie siano sempre
tragiche, anche quando fanno ridere. Ecco il luogo comune: perché si ride in
questo momento tragico? La mia intenzione è che il pubblico rida di se stesso.
Non sono convinto che si debba far solo piangere”34.
E' un passo importante, questo. Diventa un'ulteriore prova dell'universalità
dei contenuti del teatro eduardiano e perfino della sua particolarissima
comicità, se avvicinato alla seguente convinzione di Henri Bergson: “Sembra che
il riso abbia bisogno di un'eco (...) Il nostro riso è sempre il riso di un
gruppo. Vi è forse capitato, in treno o a mensa, di ascoltare dei viaggiatori
raccontarsi storielle che dovevano essere comiche per loro, poichè ne ridevano
di cuore. Voi avreste riso come loro, se foste stati della medesima società. Ma
poiché non lo eravate, non avevate alcuna voglia di ridere”35.
Invece, il pubblico di tutto il mondo ha
preso a commuoversi ed a ridere con i personaggi di De Filippo. Sebbene
qualcosa, inevitabilmente, sia destinato a perdersi, nella traduzione in altra
lingua: “Per quanto schietto lo si supponga, il riso nasconde sempre il
presupposto di un'intesa, direi quasi di complicità con altri
burloni,
reali o immaginari. Quante volte non si è detto che il riso dello spettatore a
teatro è tanto più largo quanto più è affollata la sala? Quante volte non si è
fatto notare, d'altra parte, che molti effetti comici sono intraducibili da una
lingua in un'altra, e per conseguenza relativi ai costumi e alle idee di una
data società?”36.
Ecco il prossimo tema, dunque. Cosa si perde
traducendo un'opera teatrale che abbia, per di più, degli spunti comici così
legati al suo territorio di provenienza? E, soprattutto, cosa s'è perso
traducendo Eduardo in inglese?
NOTE
1 cfr. il dettaglio posto in
appendice, dopo il quarto capitolo.
2 Felicity Firth, Un'affermazione di vita
(conferenza tenuta all'Italian Institute di Londra il 18 ottobre 1976). Trad.
it. in AA.VV., Eduardo nel mondo, Bulzoni & teatro Teanda, Roma,
1978, pag. 66
3 Felicity Firth, art. cit., in op. cit.,
pag. 66
4 Felicity Firth, art. cit., in op. cit., pag.
67
5 Felicity Firth, art. cit., in op. cit., pag.
66
6 Felicity
Firth, art. cit., in op.cit., pag. 68
7 Felicity
Firth, art. cit., in op. cit., pag. 69
8 Elio Nissim, L'albero di Eduardo, in
AA.VV., op. cit., pag. 35
9 Harold
Acton, Eduardo, , June 1962, pag. 55. (Trad.it.: Oltre
che al piacere di un'abile recitazione, il successo di Eduardo è dovuto al
fatto che egli riflette le esperienze del suo pubblico e stabilisce
con
esso un contatto più intimo rispetto ai suoi predecessori.)
10 Fiorenza Di Franco, Il teatro di Eduardo,
Universale Laterza, Bari 1975, pagg. 73-74
11 Maurizio Giammusso, Vita di Eduardo,
Mondadori, Milano 1993, pag. 274
12 Anonimo, Intervista a quattr'occhi con
Eduardo De Filippo, , CXIX, marzo 1956, n. 3-4
13 Roberto Gervaso, Filumena versione
Londra, , 15 novembre 1978, pag. 3
14 F.D.Maurino, The drama of De Filippo,
, vol. III, 1961, n. 4
15 P.Ricci, art. cit., pag. 297
16 Giulio Trevisani, voce De Filippo in Le
Muse, Enciclopedia di tutte le arti, Ist. geografico De Agostini, Novara
1965,
vol. IV, pag. 115
17 Eric
Bentley, In search of theater,
Atheneum edition, New York 1975, pagg. 294-295. (Trad. it.: Eduardo ha
cominciato la sua carriera in un
ambiente suggestivo e drammatico, Napoli, e in un teatro che, sebbene
non grande, aveva una reale esistenza,
in un senso in cui i nostri broadways e boulevards e westends
sono deserti di irrealtà. Queste
circostanze lo hanno portato alle soglie del grande teatro; ed è così
che uno degli artisti più tradizionali
del nostro tempo è diventato anche uno dei più originali).
18 Eric Bentley, Eduardo De Filippo e il
teatro napoletano, trad. it. in AA.VV., Eduardo nel mondo,
Bulzoni & teatro Tenda, Roma 1978,
pag. 44
19 Eric
Bentley, art. cit., in op. cit., pag. 45
20 Discorso dell'oratore designato al senato
dell'università di Birmingham, trad. it in AA.VV., op. cit., pagg. 82-83
21 Discorso dell'oratore designato al senato
dell'università di Birmingham, art. cit. in op. cit., pagg. 82-83
22 Manlio Cortelazzo, Avviamento critico
allo studio della dialettologia italiana, Problemi e metodi vol. I, Pacini,
Pisa 1969, pagg. 26-27
23 Anonimo, art. cit.
24 Eduardo De Filippo, Mia famiglia, in
Cantata dei giorni dispari, vol. II, Einaudi, Torino 1971, pag. 117
25 Harold Acton, art. cit., pag. 46 (Trad. it.: I poeti
napoletani, a prescindere dagli autori di canzoni popolari,
avevano scoperto la duttile bellezza di
questo strumento quando esso già dava segni di decadenza a causa
dell'unificazione italiana, sebbene
fosse stato largamente adoperato nell'opera buffa e nel teatro comico.
Attualmente ha i giorni contati,
minacciato dall'assalto contemporaneo delle onnipresenti radio, televisione,
cinema, giornalismo, soprattutto quello
sportivo. La trasformazione della moda femminile e del costume
dopo l'ultima guerra ha accelerato il
processo di livellamento in tutto il Paese. Ma la media piccola
borghesia e il proletariato si
esprimono ancora in dialetto, diluito con dosi sempre maggiori di italiano,
e la gente di cultura spesso ricorre ad
esso per trovare quella parola giusta che la lingua italiana non
saprebbe offrire).
26 Manlio Cortelazzo, op. cit., pag. 36
27 Harold Acton, art. cit., pag. 46
(Trad. it.: In altre regioni italiane esiste un eterno pregiudizio contro il
dialetto
napoletano, sebbene esso sia almeno
altrettanto comprensibile del veneziano delle migliori commedie di
Goldoni. Il linguaggio di base è
italiano, arricchito da una moltitudine di parole e di espressioni che, meno
eleganti di quelle toscane, hanno il merito
di essere più colorite e più melodiose. Non sorprende affatto
che Eduardo preferisca scrivere nel suo
dialetto d'origine).
28 Harold Acton, art. cit., pag. 46
(Trad. it.: L'età d'oro della poesia dialettale napoletana va dal 1880 al
1930,
quando la letteratura regionale fiorì
come mai prima. Salvatore Di Giacomo e Ferdinando Russo furono i
suoi esponenti più ispirati: essi
percorsero tutta la gamma del suo sentimento. Eduardo De Filippo, nato
nel 1900, appartiene ad un'età di
transizione. Di conseguenza, molti dei suoi personaggi mescolano il
dialetto all'italiano, alternando
l'incisività dell'uno alla dolcezza dell'altro, ed estraendo dalle loro parole
tutto il sapore e la ricca tonalità.
Sia che cerchino di essere raffinati come un cockney che prova ad
imitare l'accento di uno speaker della
BBC, sia che restino dei beati analfabeti, Eduardo ci mostra
quanto essi siano compiaciuti del loro
linguaggio).
29 Harold Acton, art. cit., pag. 46
(Trad. it.: A dare un piccolo esempio di ciò, nel primo atto di Napoli
milionaria,
basta l'estasi di Adelaide, la vicina
di casa, verso Rituccia (che non compare mai sulla scena), la
figlioletta di Gennaro e Amalia Jovine).
30 Harold Acton, art. cit., pag. 46
(Trad. it.: Qui, la scortese parola fesso, che a Napoli assume un
significato
con sfumature diverse, produce uno
shock simile a quello dell'esclamazione di Eliza Doolittle ("Not bloody
likely!"), nel Pigmalione di Shaw,
ma allo stesso tempo ci aiuta a riassumere l'atteggiamento dell'intera
famiglia verso Gennaro, l'eroe della
commedia).31 G.B.Shaw, Pigmalione, Mondadori,
Milano 1980, nota del traduttore Francesco Saba Sardi, pag. 16
32 Harold Acton, art. cit., pag. 55
(Trad. it.: Gran parte dei dialoghi sarebbero retorici in una qualsiasi
altra lingua, non in dialetto
napoletano. Quale lavoratore descriverebbe la propria fame come un
leggero languore allo stomaco?)
33 Giulio Baffi, Al Borgo per asoltare
"I silenzi di Dio", , 30 settembre/1 ottobre
1990,
edizione Napoli, pag. VII
34 Anonimo, art. cit.
35 Henri Bergson, Il riso, trad. it.
Bur, Milano 1961, pag. 40
36 Henri
Bergson, op. cit., pag. 40
5 commenti:
Ciao...a quando la seconda parte?:D
Annalisa
Ciao Annalisa, forse domani.
Sto aspettando con ansia le altre parti...sempre io, Annalisa :p
Molto interessante, aspetto con ansia le prossime parti anche io.
Mi sono sciolto in un brodo di giuggiole
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