giovedì 30 gennaio 2014

Ramallets, il gatto con le ali

Mi dissero Vai tu, che in porta copri tutto lo spazio. Ero il più grasso del gruppo, gli amici ridevano, mi prendevano in giro. Antoni el gordito. Ma quando sei nato a Vila de Gràcia, l’anima di Barcellona, di certe cose impari a ridere. Altrimenti non sarei diventato Antoni Ramallets, il gatto del Maracanã.Che poi questo Maracanã non è niente di speciale. Non c’è stadio che lo sia. Dico all’interno. Sono tutti uguali. La stessa erba, le stesse porte, le stesse righe sul campo. Inizia la partita e ti dimentichi del mondo. Tanto le cose vanno sempre in un modo soltanto, se sei un avversario la gente ti fischia, dopo un po’ ti abitui. Per me semmai era più difficile giocare a Barcellona, in casa. Ogni partita un dominio, dovevo solo pregare di essere pronto quelle due-tre volte che arrivava un tiro.

mercoledì 29 gennaio 2014

La scuola dei portieri e la rivoluzione del '90

buffon12-50057439 Sacchi, Zeman e Zaccheroni. Sono i responsabili della fine della scuola italiana dei portieri secondo Stefano Tacconi, ex numero uno della Juventus e della nazionale. La crisi di vocazioni, il vuoto dopo Buffon, arriverebbe da lì: colpa dei maestri della zona, per i quali i portieri sarebbero addirittura un fastidio. Una tesi esposta ieri sera nel programma di Raisport1 "Pomeriggio da campioni", durante il quale gli amici di questo blog hanno potuto ascoltare la storia del francese Darui, tratta da Il Giro dei Mondiali in 80 portieri. La tv ha i suoi tempi. Tacconi ha lanciato nel mucchio la sua teoria mentre già scorrevano i titoli di coda, era impossibile replicare o eccepire. In realtà, più che dagli zonisti, secondo me il mestiere del portiere è stato messo in difficoltà dal cambiamento delle regole voluto dopo i Mondiali del 1990.

sabato 25 gennaio 2014

Il pallone del signor G.

La Fiorentina di Pesaola e il Cagliari di Gigi Riva stavano spezzando dodici anni (con una parentesi Bologna) di dominio Inter-Juve-Milan. Millenovecentosessantanove. Il '68 nel calcio arriva un anno dopo. L'Italia è campione d'Europa in carica e si sta preparando al Mondiale in Messico quando Giorgio Gaber ritaglia una figurina di calciatore in una delle sue canzoni più famose, Il Riccardo. Poi c'è il Nico che gioca al pallone, mette giù un sacco d'arie e pretese, cambia d'abito sei volte al mese, è riserva... però in serie A.

venerdì 24 gennaio 2014

Moro, il pararigori tormentato dai sospetti

Certe notti me ne stavo sdraiato sul ponte della nave, con gli occhi al cielo. Non a guardare le stelle, delle stelle non mi è mai importato granché. Pensavo a Valerio, alla sua simpatia, alla sua capacità di giocare con i piedi come fosse un difensore in più.
Guardavo in alto e credevo di poterlo trovare lì, sentivo che sarebbe apparso a dirmi cosa fare. Nessuno era più bravo di me. Solo Valerio. Se ci fosse stato lui, non ci sarei stato io. E’ morto in cielo Valerio Bacigalupo. Con tutto il Torino. E ai Mondiali del ’50 al posto suo, un anno dopo, sono andato io. Giuseppe Moro, detto Bepi.

giovedì 23 gennaio 2014

Cruyff e il calcio secondo Dalì

Josep Samitier era soprannominato l'uomo aragosta. Per i suoi salti, le sue acrobazie, per i tiri al volo folli quanto i dribbling. Era stato acquistato dal Barcellona a 17 anni per un vestito e un orologio. Emilio Sagi Liñán, attaccante, anche lui arrivato nel club ancora ragazzino, era invece figlio del più grande baritono spagnolo d'inizio Novecento, Sagi Barbo. Emilio e Josep da piccoli andavano in vacanza in Costa Brava, a Cadaqués giocavano a calcio con un terzo amico, il figlio di un notaio, un bambino di nome Salvador. Salvador Dalí.



domenica 19 gennaio 2014

Quando Pelé giocò in porta

Bisognava vedere la faccia di Pepe e di Coutinho, e Lima, e Haroldo, e Zito. Guardarono Pelé e lo presero per matto quando disse In porta vado io. Sembrava uno scherzo. Non lo era. L'arbitro aveva appena espulso Gilmar, Pelé si avvicinò al suo compagno di squadra, gli fece sfilare la maglia con il numero 1 e la mise sopra quella con il 10.

Ora. Va bene che si trattava di Pelé, già oltre 500 partite giocate con il Santos e un conteggio di gol che all'epoca superava i 600. Va bene che da ragazzino l'aveva già fatto, contro il Comercial de Ribeirão Preto. Ma un minimo di inquietudine agli altri della squadra venne. Mancavano 4 minuti alla fine della semifinale di Coppa del Brasile, il Santos stava battendo il Gremio 4-3, e l'attaccante che aveva vinto due Mondiali sceglieva di giocare in porta.

venerdì 17 gennaio 2014

Olivieri, il gatto magico con il meteo nella testa

Spericolato. Lo dicevano per offendermi. Soprattutto gli inglesi. Gli inglesi mi odiavano. Non è che odiassero proprio me, ce l'avevano con il mio stile, con l'idea che avevo del ruolo. Ero spettacolare, sì. Civettavo, certo. Istrionico, e allora? Non c'era niente di male nel piacere alla gente, farla sobbalzare e trepidare con un volo sulla palla, ma lo capisco, lo ammetto, le mie parate non c'entravano nulla con i biscottini e il the delle cinque. Io ero il Gatto Magico, io ero Aldo Olivieri. Se c'era da lanciarsi sui piedi di un attaccante, non mi sono mai tirato indietro. Sapevo bloccare la palla in presa volante come nessuno al mondo. Ero completo, il pubblico guardava me, e il pubblico devi farlo divertire. Agli inglesi non andava giù. Scrissero che ero un concentrato di Douglas Fairbanks senior, Errol Flynn e i primi martiri cristiani. Ma ero fenomenale, e loro lo sapevano.

mercoledì 15 gennaio 2014

Madejski, arrestato da nazisti e comunisti

Edward_Madejski4Quando presi sei gol dal Brasile, credetti di poterla chiamare umiliazione. Mi sbagliavo. Fu chiaro il giorno in cui bussarono alla mia porta di casa, la Gestapo era venuta ad arrestarmi. Vennero a prendermi perché giocavo a calcio, questa era la mia colpa. Io, Edward Madejski, portiere della nazionale polacca, titolare ai Mondiali del '38. Era rimasta la mia sola squadra. Quella che amavo più di tutte, quella per cui avevo giocato cinque anni, il Wisla di Cracovia, mi aveva allontanato per aver preso le difese del mio amico Łyko, Antoni Andrzej Łyko. Una sera se n'era andato al bar ed era tornato a casa alle 4 del mattino, i dirigenti lo avevano sorpreso, eravamo alla vigilia di una partita di campionato. Lo sospesero, giustamente, ma a me non andò giù il modo in cui lo trattarono, non furono belle le parole usate.

giovedì 9 gennaio 2014

Raftl, il portiere che rimase senza patria

La sera dell'11 marzo del '38 sono andato a dormire ed ero austriaco. Quando mi sono svegliato avevano fatto di me un tedesco. Anschluß. L'annessione di Hitler. Ero andato ai Mondiali del '34 in Italia come portiere dell'Austria, quella mattina in cui mi svegliai senza patria mancavano invece tre mesi ai Mondiali di Francia, per i quali eravamo già qualificati. Cosa sarebbe stato di me, Rudolf Raftl, di noi cittadini austriaci e del nostro Wunderteam famoso in tutto il mondo?

martedì 7 gennaio 2014

Darui, l'incompreso che parava i rigori al circo


Prima di me erano tutti notai. Stavano lì a certificare il gol. Anche i più grandi. Zamora, Plànicka, Hiden, Combi. Tutti. Di loro si diceva che fossero dei monumenti. Si capisce. Non si muovevano mai. Il loro posto di lavoro era la linea di porta. Sarà che a scuola mi piaceva la geometria, ma se il portiere è l'unico a poter toccare il pallone con le mani in tutto quello spazio, allora il suo vantaggio deve sfruttarlo. Non può starsene lì ad aspettare. Io così feci. Non aspettavo. Sono stato il primo a uscire dai pali per afferrare un cross. Parve una rivoluzione, a me sembrava una ovvietà.

Eusebio, l'altro O Rei


Scegliti un nome, gli dissero. Aveva sedici anni. I Brazilians erano una squadretta di ragazzini che a piedi scalzi giocava in strada a Mafalala, periferia di Lourenço Marques, oggi Maputo, nel Mozambico. Case di legno e lamiere, ci abitavano i poeti e gli uomini che tramavano per l'indipendenza. La squadra aveva una regola: ogni ragazzino doveva chiamarsi come una delle stelle che avevano appena vinto il Mondiale del '58, in Svezia. Eusebio da Silva Ferreiro scelse di essere Pelé, senza sapere che stava cominciando a inseguirlo.

domenica 5 gennaio 2014

Quando Eusebio era meglio 'e Pelé

C'è stato un giorno in cui Eusébio era meglio 'e Pelé. Il numero uno, il miglior calciatore del mondo. Anni Sessanta. I giornali si chiedevano chi fosse il più grande fra il portoghese e il brasiliano, esattamente come oggi ci si domanda Messi o Ronaldo, Ronaldo o Messi? Un dilemma vecchio mezzo secolo di cui si è persa la memoria, gli archivi sono bellissimi per questo.

Fabrizio Falconi, giornalista e scrittore romano, se n'è ricordato quando nel 2002 ha scritto il suo romanzo "Cieli come questo" (Fazi editore). La grandezza di Eusébio è ricostruita in un dialogo che si tiene di fronte a un gagliardetto rosso del Benfica che penzola dallo specchietto retrovisore di una macchina.

sabato 4 gennaio 2014

Plánička e l'ombra nera nella retina di Meazza

Ho la schiena arcuata, le gambe piegate, le braccia che s'afflosciano all'indietro. Come in un'esecuzione. Trafitto. Sembro un ritratto di Caravaggio, o la deposizione di van der Weyden. Invece sono soltanto un portiere battuto. La foto più famosa di me è un gol subito, l'istante in cui il pallone mi passa e l'Italia vince il suo primo Mondiale. 1934.
Abbiamo perso per gravi accondiscendenze arbitrali nei confronti degli italiani. Questo dissi, fu così. E non solo nella finale contro noi ceki, pure nei quarti con la Spagna, pure in semifinale contro l'Austria.

giovedì 2 gennaio 2014

Zamora, il divino che fece paura al duce


Ne ho visti tanti di bambini giocare per la strada. Andavano in porta e fingevano di essere me. Beati loro, io da bambino volevo essere un altro. A Calle Diputación, la via alla periferia di Barcellona in cui abitavo, ai miei tempi si rincorreva una palla di stracci. Un giorno mandai il mio piede a sbattere contro una pietra, a casa non raccontai niente per tre giorni, il piede si riempì di pus, il dottor Raventós che era il nostro vicino dovette intervenire. “Non voglio giocare mai più a pallone”, piagnucolai allora con mio padre, medico pure lui, lavorava alla Plaza de Toros. Ne fu felicissimo. Sognava che lo avrei seguito, che sarei diventato dottore anch'io. Eravamo una famiglia agiata, mio nonno capitano di una nave della compagnia Mac Andrews, mia madre veniva da Valencia. Studiavo e mi tenevo in forma con la boxe, il nuoto, l’atletica, la pelota, ma in testa avevo solo il calcio. Un amico di famiglia mi presentò alle giovanili del Canigó, fu lì che mi trasformarono in un portiere. Sembravo più grande degli anni che avevo: solo 14 quando don José María Tallada mi portò all'Espanyol e 15 quando debuttai a Madrid. Viaggiai con i pantaloni corti. Finì 1-1. Un giornale scrisse: “In campo c’era un ragazzino che si chiama Zamora. Ha giocato come si potrebbe bere un bicchier d'acqua”. Ricardo Zamora, io.