martedì 7 gennaio 2014

Darui, l'incompreso che parava i rigori al circo


Prima di me erano tutti notai. Stavano lì a certificare il gol. Anche i più grandi. Zamora, Plànicka, Hiden, Combi. Tutti. Di loro si diceva che fossero dei monumenti. Si capisce. Non si muovevano mai. Il loro posto di lavoro era la linea di porta. Sarà che a scuola mi piaceva la geometria, ma se il portiere è l'unico a poter toccare il pallone con le mani in tutto quello spazio, allora il suo vantaggio deve sfruttarlo. Non può starsene lì ad aspettare. Io così feci. Non aspettavo. Sono stato il primo a uscire dai pali per afferrare un cross. Parve una rivoluzione, a me sembrava una ovvietà.


Sono stato anche il primo a rinviare sia con i piedi sia con le mani. Si perdevano meno palloni. Due novità nate qui, dentro la mia testa. Adesso la Francia si vanta di me, mi hanno votato miglior portiere del secolo. Peccato che non sapessero di avere il miglior portiere del Novecento quando serviva, nel 1938, altrimenti non credo che mi avrebbero lasciato in panchina - come fecero - nel Mondiale che giocammo in casa. Ero la riserva di Laurent Di Lorto, ero più giovane di lui di sette anni. Con i terzini Mattler e Cazenave, suoi compagni anche al Sochaux, formava un terzetto che chiamavano "linea Maginot". Che speranze avevo? Non misi mai piede in campo. Del resto, la Francia durò due partite. Una vinta contro il Belgio, l'altra persa contro l'Italia. L'Italia del braccio teso, del saluto fascista in terra di Francia, sommersa dai fischi della nostra gente. I campioni.

Sono nato in Lussemburgo, ma i miei si erano poi trasferiti prestissimo in un piccolo villaggio della Lorena, Audun-le-Tiche, dove avevano aperto un caffè. Ho cominciato fuggendo. Ho raggiunto il calcio scappando dalla finestra di casa, avevo 12 anni, non volevano che andassi allo stadio. In porta ero bravo già da ragazzino, arrivarono dallo Charleville per offrirmi un contratto, a 19 anni appena. Ci voleva un gran bel coraggio per proporne uno a un portierino alto un metro e 69. Ma io pensavo, calcolavo, compensavo l'altezza con la mia idea del gioco. La teoria. Anche per questo con lo Charleroi arrivammo subito in finale di Coppa di Francia. Era il '36. Com'è bello avere vent'anni. In finale ci sarei tornato nel '39 con l'Olympique Lillois, nel '45 con il Lille, e in mezzo l'unica Coppa vinta: 1942, con il Red Star.  Ho giocato 4 finali di Coppa di Francia con 4 squadre differenti, solo Franck Sauzée in seguito ha eguagliato il mio record (con  Sochaux, Marsiglia, Monaco e Strasburgo).

Ora. Dovete sapere che il Red Star non è una squadra come tante altre. Primo: è la squadra di Saint-Ouen, e voi il suo mercato delle pulci lo conoscete. Secondo: è la squadra fondata da Jules Rimet, l'uomo che ha inventato i Mondiali di calcio. A Saint-Ouen arrivai nel bel mezzo della guerra. 1940. Giocavo con la consapevolezza di venire dalla Lorena, con tutto quel che significava negli anni del Terzo Reich. La guerra mi ha tolto gli anni migliori. Dopo quella Coppa di Francia, del Red Star è iniziato il declino. Ma quando nel '47 il calcio internazionale si rimise in moto, a Glasgow organizzarono un'amichevole Inghilterra-Resto d'Europa. In porta vollero me. E in porta c'ero io anche quando nel '47 il Roubaix ha vinto il suo unico scudetto francese.

Il titolo ce lo tolse il Marsiglia. Eravamo avanti 1-0 in trasferta, quando il loro ungherese Nagy affonda in area di fronte a Dubois, un pezzo d'uomo al centro della nostra difesa. Nessuno mi toglie dalla testa che Nagy si fece atterrare di proposito. Rigore. All'epoca il Marsiglia aveva uno straordinario tiratore, Roger Scotti, un simbolo. Scotti fintò di tirare sulla mia destra, io mi lanciai verso quella palla immaginaria e lui la mise a sinistra, bassa, lenta. Un maestro. Ma Félix Pironti, suo compagno di squadra, era entrato in area prima del calcio. Così l'arbitro disse che bisognava ripetere il tiro. Scotti riprese il pallone tra le mani e mi guardò negli occhi. Cercava di indovinare cosa stessi pensando, e io facevo lo stesso con lui. Sapevo che si sarebbe inventato qualcosa. Qualunque altro calciatore avrebbe cambiato stavolta la direzione del tiro. Non lui. Sentivo che avrebbe calciato di nuovo esattamente dalla stessa parte. Ne ero sicuro. Di nuovo a sinistra. Dovevo buttarmi di là. Oppure no? Certo che no. Ecco qual era il trucco, ecco perché mi guardava dritto negli occhi. Aveva capito che io avevo capito. Avrebbe fatto allora la cosa più banale, ma certo, era quello il suo piano per sorprendermi. Perciò quando Roger Scotti partì con la sua rincorsa, mi buttai per la seconda volta sulla destra, convinto, e per la seconda volta scoprii che la metteva a sinistra, bassa, lenta. Uno a uno. Pubblico impazzito.

Mi alzai con la polvere sulla faccia e andai a stringergli la mano. Passarono altri cinque minuti e il solito Nagy si ritrovò in area accanto al solito Dubois. Mi pareva di impazzire: una partita in cui succedevano due volte le stesse cose. Si fece affondare ancora, l'arbitro fischiò un altro calcio di rigore. Si chiamava Veyret. Come facevo sui cross, lasciai i pali e corsi da lui a protestare. Ero il capitano. Potevo. Dissi ai miei che si trattava di un'ingiustizia, che avremmo fatto meglio a lasciare la partita. Era una decisione enorme, mi calmarono, allora protestai in un altro modo. Quando Scotti mise per la terza volta la palla sul dischetto, non lo guardai. Gli voltai le spalle. Me ne rimasi a fissare la mia porta, quella linea dalla quale mi allontanavo tutte le volte che potevo, io che su una linea di confine ci sono nato e vissuto. La mia ribellione contro l'ingiustizia. Veyret mi raggiunse e mi ammonì, l'unica volta in tutta la mia carriera.

Ho provato a riprendermi gli anni persi dalla panchina. Prima come allenatore-giocatore a Montpellier, poi a Lione e a Dijon. Solo che dalla panchina non ci si tuffa. Proposi alla federcalcio francese di aprire una scuola per portieri. Non ne seppi niente, ho lasciato perdere. Avevo 40 anni e sapevo solo tuffarmi. L'attore Jean Richard stava girando il suo ultimo film, mi pare con Chevalier o forse Renoir. Stava soprattutto per inaugurare la sua creatura, un circo, spettacoli per delfini gorilla e acrobati. Cercava nuove attrazioni, io cercavo un lavoro. Facevamo l'uno per l'altro. Il 18 marzo del '57 ero con un costume luccicante al centro della pista, a parare i rigori ai bambini. Io, il miglior portiere francese del Novecento. Un tour di otto mesi, debutto a Reims, il 27 eravamo a Parigi, lo spettacolo venne ripreso dalla tv. Lo so, il calcio non è un circo. Il calcio è anche spettacolo, con le sue leggi, i suoi riti. Il calcio ha bisogno di spazi aperti, di un cielo sopra di sé, di sogni irraggiungibili, ha bisogno delle umane indecisioni e della battaglia. Io, sotto quel tendone, trasformavo il calcio in una cosa da ridere. Era la mia vendetta su chi non mi aveva capito. Venticinque parate ogni sera, 700 al mese. Cominciarono a calciare anche gli adulti. Mi tuffavo e contavo. Il 99% dei tiri erano alla mia sinistra. Come quelli di Roger Scotti. Eppure, neanche un attimo esitai quando Richard mi offrì il contratto con il suo circo. E firmai, il mio nome era Julien Darui.

(Pensieri e parole liberamente attribuiti a Darui sono ricostruiti attraverso libri, interviste e giornali dell'epoca)

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