venerdì 15 dicembre 2017

La linea verticale: di un tumore si deve parlare

Di un tumore si deve parlare. Di un tumore si deve ridere. Prendiamo Luigi, quarantenne, una bimba
piccola, una moglie incinta. Quando scopre d'essersi ammalato - una massa al rene da asportare -
immagina un bel funerale laico fatto di amici spiritosi, perché in quelli cattolici non ci si concentra
abbastanza, la musica dell'organo distrae. La storia di Luigi vive attraverso la faccia magistrale di Valerio Mastandrea nella serie La linea verticale, otto episodi da 30 minuti, programmati due per volta ogni sabato, in prima serata su Rai3 dal 13 gennaio.

La storia di Luigi è quella capitata a Mattia Torre, uno degli autori di Boris, qui sceneggiatore unico e regista. "Da un giorno all'altro mi sono trovato di fronte a una diagnosi grave. Vedrai, mi dicevano, alla fine scriverai una grande cosa e io rispondevo: ma no, davvero, non ci penso proprio; e invece questo mondo dentro cui sono finito, si è rivelato interessante. Un reparto d'eccellenza della sanità pubblica. L'eccellenza commuove, arriva come un brivido".

Quando Mattia Torre racconta di sé, gli viene da parlare di Luigi. Un po' dice io, un po' dice "il mio personaggio". Cerca le parole giuste per rispondere, al tavolo del suo studio nel centro di Roma tocca la barra spaziatrice della tastiera e il computer restituisce un monologo di Luigi. "Mi spiace per lo spoiler - mormora - ma io da solo forse non ce l'avrei fatta a dirlo. Ho scritto un romanzo (per Baldini&Castoldi, da oggi in libreria, ndr) ma in terza persona, perché penso che la sovraesposizione del sentimento sia controproducente. Volevo farne un lavoro teatrale, poi Lorenzo Mieli di Wildside mi ha convinto, l'episodio pilota mi ha divertito ed è nata una serie che in Italia non ha riferimenti. Un'opera giocosa, festosa, senza angoscia. Spero che emozioni".

Mastandrea è perfetto. Cosa c'è di lei e della sua esperienza in quel volto?
"Valerio è un mio amico, veniva a trovarmi, sedeva accanto a me. Quando sul set abbiamo ricostruito
meticolosamente il reparto, ci è toccato un doppio shock, stavolta a parti invertite. È il suo occhio che
comanda, non le sue battute, il suo sguardo empatico, tragicomico, la sua condizione di pesce fuor
d'acqua. Volevo girare un medical al contrario, dalla parte di pazienti che si confrontano sull'emoglobina e di questo uomo che si aggrappa alla moglie e al primario Zamagna, visto quasi come un semidio. Un mondo alla Spike Lee. Vittorio Sermonti era stato prima di me in quel reparto e mi diede un consiglio. Lasciati andare, mi disse, a un abbandono vigile. Consegnati con fiducia a chi ti cura, ma ogni tanto getta un occhio alla cartella clinica".

E questo abbandono vigile che mondo crea?
"La malattia in ospedale non c'è. È come annullata. Perché lì dentro stai male alla pari degli altri, e dunque si produce una normalizzazione in cui prendono corpo il cazzeggio e il calore umano. Prima di entrarci, ti immagini un reparto di urologia oncologica come un epicentro di sofferenza. Invece se dimenticassi quanto stavo male, potrei finanche dire che mi sono divertito come un pazzo. Certe relazioni restano per sempre".

Nel primo episodio Luigi dice che la nota comica rende il dolore ancora più insopportabile.
"È l'iperbole di un dialogo. Però ora mi domando se inconsciamente non avesse un significato che non avevo colto. Il lato ludico e ironico di questa esperienza è stato per me un salvagente. Il mio compagno di stanza, un architetto elegantissimo, ogni tanto diceva di non sentirsi le gambe. È uno degli effetti della terapia. Eppure quando chiedeva spiegazioni, spuntava questo medico che aveva sempre la stessa risposta. Sono i vasi, ripeteva. Per noi è diventata una gag. Sono i vasi, era una spiegazione che facevamo andar bene per tutto, e ci capitava di riderne fino alle lacrime, col rischio che saltassero i punti. Nessuno potrebbe immaginarlo. Un reparto di oncologia è un curioso mondo in cui regna un'eguaglianza commovente, alla fine provi una specie di sindrome della montagna incantata, trovi che sia un luogo ideale, non vuoi lasciarlo".

Si sta peggio fuori?
"Ho avuto un crollo quando sono tornato a casa, come capita ai reduci del Vietnam a cui all'improvviso hanno portato via le coordinate. Fuori è più complicato, ti senti solo, non c'è più un campanello da suonare di notte, sei espulso da quel mondo rassicurante fatto di leggi proprie in cui ciascuno cerca la salvezza. Avverti la paura che provano gli altri, quelli che ti stanno attorno. In ospedale la paura non c'è. Il medico non ne ha, l'infermiere non ne ha, sono figure assuefatte alla paura, l'hanno esclusa dal loro ambito professionale. Ma fuori, appena sei fuori, percepisci questo sentimento umano, carino, apprezzabile, eppure goffo".

Un sentimento inopportuno, vuole dire?
"In ospedale ti senti un soldato accanto agli altri, poi esci e ti accorgi che la guerra vera sta lì, lontano dal fronte. Io ho avuto la fortuna di vivere questa esperienza con l'assistenza di una comunità di amici molto presente. Mezzo cinema italiano era intorno a me, e non essendo io un volto popolare, alla fine in reparto si domandavano chi davvero fossi. Perciò sono felice di aver trasformato questa disavventura in un progetto culturale, qualcosa di ironicamente sociologico".

Cos'è che vuole sentirsi dire un ammalato?
"Una verità che ho appreso è che se ne deve parlare. La cosa più dolorosa è la discrezione degli altri, la prudenza che diventa vigliaccheria sentimentale, il silenzio di chi ha paura di ferire. Invece è bello sentirsi chiedere: come stai? come va? Trattare il cancro come una cosa tra le altre. È una malattia spaventosa, diffusa ma curabile. Deve entrare nel nostro vocabolario. Non è un suono da cui lasciarsi spaventare. All'inizio avevo pensato di giocare su questa parola tabù che ci appartiene, questa sorta di censura che applichiamo al linguaggio evitando di pronunciarla. Pensavo di sovrapporre un bip ai dialoghi, come per le parolacce, ma con le musiche l'effetto peggiorava. Mi sono detto, lasciamola. Era fico andare dritti e pronunciarla".

"Conta la testa" insiste il cappellano del reparto. Lei ci crede che è così?
"Ci credi perché non sai quale sia la ricetta. Il primo passo è l'abolizione della paura. La paura ti mangia, non serve a niente. La vita è una faccenda complessa. Puoi salutare un amico, un attimo dopo attraversare la strada e finire sotto un tram, oppure campare venti anni da paziente terminale. Autocondannarsi allora è ridicolo. Questa tendenza a vivere con la paura addosso va contrastata più possibile. La linea verticale è la possibilità di stare in piedi, dritti, vivi. In orizzontale si muore".

La linea verticale è anche la rabbia che nel reparto ognuno scarica sul gradino inferiore della gerarchia. Esiste una rabbia del paziente?
"Emerge di notte, non si può separare dal percorso, ed è un sentimento interessante se non diventa ingestibile. Luigi trascorre 21 giorni in ospedale. Sono tanti. Le tensioni aumentano. Ma senza fare una didascalica morale, la malattia è un'occasione di rinascita, come ogni altra crisi. Può essere preziosa se non distrugge. Penso a un divorzio. Le crisi hanno una carica vitale. Io ne sono uscito più coraggioso. Ho fatto cose che mi avrebbero spaventato, come scrivere una serie da solo e dirigerla".

Torre, davvero si può ridere di tutto?
"Non lo so, ma so che la commedia può essere uno strumento per raccontare tutto. La risata è un mistero. Può essere piacevole, può essere un istante di abbandono, può essere una forzatura. La commedia salva la possibilità di affrontare argomenti seri senza diventare ridondanti".

E dopo la malattia, dopo, qual è lo spirito con cui si sta al mondo?
"Si torna a vivere con un senso del desiderio più chiaro. Capisci cosa davvero conta per te. È una cosa banale, eppure a volte sfugge. Cosa voglio veramente? Chiederselo e realizzarlo. Mia moglie lavorava in televisione, poi ha mollato tutto ed è diventata ostetrica a trent'anni. Ecco, io ora posso dire con certezza che senza questo tumore, sarei senz'altro morto".

(Il Venerdì, 8 dicembre 2017)

domenica 10 dicembre 2017

Chiaroscuro di Ronaldo e di un'era del calcio

Fa una certa impressione scorrere la lista dei vincitori, contare i palloni d'oro di Cristiano Ronaldo e accorgersi che sono gli stessi di Eusébio, Zidane, Best, Ronaldinho e Roberto Baggio messi assieme. Se non fosse mai cambiato il regolamento – fino al 1995 potevano essere premiati solo calciatori europei – i trofei sarebbero dieci. Con la formula attuale è stato stimato che Pelé, nei suoi anni migliori, sarebbe arrivato al massimo a sette. Perciò o siamo davanti a un altro che è meglio ' e Pelé, oppure c'è qualcosa di profondamente mutato nei nostri occhi, nella maniera in cui abbiamo guardato il calcio in questi anni.
È la collezione di premi che spinge a farsi delle domande. Su noi stessi, non su di lui. Nessuno poteva negare il titolo di più bravo del 2017 all'uomo dei due gol in finale di Champions. Ronaldo è un accumulatore di gol e di esultanze uguali, uguali e globali, il saltello, le gambe larghe, le braccia spalancate; un moltiplicatore di attimi gloriosi per sé e per i suoi. È un calciatore che corre lungo la linea di mezzo fra spavalderia e arroganza, guadagna 84 milioni l'anno ma non ha smesso di voler diventare qualcos'altro rispetto al giorno prima, qualcosa in più. Chiamiamola umiltà, applicazione, forse ossessione. È diventato nel tempo una religione mediatica da 300 milioni di fedeli al mondo sulle reti social. I cristiani ortodossi, per intenderci, sono di meno.