lunedì 29 gennaio 2018

Platini e la barriera di piume


L'illustrazione è opera di @a.jack199

Sedicesimi di finale: Germania 2014 - Francia 1982/1986
Dove si evince l'immenso potere di una punizione

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A un minuto dalla fine Michel Platini sbuffò e si lasciò cadere. Aveva il gomito avvitato nell'erba, il mento appoggiato al palmo della mano e adesso aspettava che i tedeschi la smettessero di sollevare inutili questioni. Dall'alto del ruolo di campioni in carica, tenevano in ostaggio il pallone e chiedevano di esporre le proprie ragioni a qualcuno che stesse un po’ più su di questo arbitro scelto chissà da chi, un birraio di Gand dalla faccia rossa e i capelli bianchi come la schiuma, convinto d'essere credibile mentre in fiammingo impartiva l'ordine di proseguire, andare avanti, continuare e chiudere la partita come nulla fosse, ché presto o prestissimo quei dieci corvi dagli alberi calati fin sul campo sarebbero volati via lontano: a lui non pareva bizzarro neppure che fossero alti un metro e ottantadue.

venerdì 26 gennaio 2018

L'amicizia tra la Ortese e Adriana Capocci

Questa è la storia di un’altra amica geniale, vicina ad Anna Maria Ortese, di nome Adriana e compagna universitaria di Alda Croce, figlia del filosofo. Ma l’ambiente napoletano non è lo stesso in cui Elena Ferrante farà crescere i due personaggi di Elena e Raffaella, Lila e Lenù, durante il ciclo dei suoi romanzi. Tra la fine degli anni Trenta e l’inizio dei Quaranta, qui siamo in quella porzione di Napoli che trascorre l’estate a Capri. L’aristocratica Adriana Capocci di Belmonte era stata con le braccia sollevate e le gambe divaricate, sulle rocce di Marina Piccola, la misteriosa silhouette per un quadro del futurista Enrico Prampolini, prima di cominciare a frequentarsi con la ragazza che sarebbe diventata l’autrice di Poveri e semplici, premio Strega nel 1967.

Quel legame viene ora ricostruito nel libro di Sergio
Lambiase  Adriana cuore di luce (Bompiani, 208 pagine, 16 euro), attraverso il diario di lei e alcune lettere ritrovate in casa di una pronipote. Qualcosa era emerso nella biografia della Ortese firmata da Luca Clerici, e delle lettere si erano occupati anni fa i quotidiani. Lambiase ora dà veste e metodo alla materia, a un’amicizia che fu parte della breve esistenza di Adriana, morta di tubercolosi a soli 26 anni. I Capocci discendevano da una famiglia patrizia: principi, astronomi, avvocati, autori di canzoni, eroi di guerra e calciatori d’inizio ’900, quando il pallone era faccenda per la upper class. Il mondo di Adriana è questo: le ville, gli ospiti illustri, Matilde Serao, Salvatore Di Giacomo. Lei è minuta ma esuberante, “lisci capelli tra il biondo e il fulvio, sguardo ironico, eleganza mai scontata”, legge a 18 anni L’amante di Lady Chatterley, vive con “una sorta di malessere, di disagio dello spirito, che la coglie nei momenti più inaspettati”. S’invaghisce del poeta indiano Saumyendranath Tagore, confessa al suo diario un bacio scambiato con Alberto Moravia.

Anna Maria Ortese vive invece i giorni dolorosi delle morti violente di due fratelli, abita a due passi dal molo in cui gli emigranti s’imbarcano per l’America, e quando si imbatte in Adriana scopre complessi e inadeguatezze, finanche cresciute quando le due finiscono per innamorarsi dello stesso uomo, Aldo Romano, storico, ma anche informatore della polizia fascista. La Ortese scrive: “Cara Adriana, io sarei felice se tu che sei a Roma potessi darmi notizie di lui (se è sposato non dirmelo mai mai)”. Sposato no, ma fidanzato sì. Con Adriana. Perciò la lettera successiva della Ortese è feroce: “Mi dovresti chiedere perdono e mi parli ancora della tua felicità. Senti, io t'ho voluto bene come nemmeno tuo padre quando t'accarezza te ne vuole, e tu mi ricambi con tanta volgarità (...). Non scrivermi più”.  La malattia di Adriana sarà motivo di rimorso per la Ortese: “Mi porterò in cuore, come un chiodo, le barbare parole che scrissi a te, leggera e dolce come un uccello”. Il Porto di Toledo, del 1975, sarà il romanzo trasfigurato della loro amicizia spezzata.

(Il Venerdì, 19 gennaio 2018)

mercoledì 24 gennaio 2018

Gascoigne e le due maglie di Pelé


Gascoigne-Inghilterra-Mondiali-1990

Sedicesimi di finale: Brasile 1970 - Inghilterra 1990
Dove si riflette sul significato di essere maestri

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Erano passate tre ore, cinquantuno minuti e una cifra non quantificabile di secondi dall'inizio della partita, tempi supplementari compresi, e l'uomo che sembrava un orsacchiotto timido aveva già voglia di cominciarne un'altra [1].
Il gesto di Paul Gascoigne – spostarsi, portare fisicamente il suo corpo dentro lo spogliatoio del Brasile – ebbe la semplicità di un tema di quarta elementare. Se non hai capito - significava - adesso si fa come dico io. “Maestà”, mormorò - ma senza troppa convinzione - “maestà, come già accennavo in campo, avrei piacere di ricevere un’altra maglia”.
“Un’altra oltre quella che abbiamo già scambiato?” chiese il sovrano per essere sicuro di aver capito bene l’inglese.
Gascoigne annuì senza parlare, come sempre fanno quelli che conducono il discorso. E Pelé, perché era di Pelé la testa coronata, seppur sovrano finì per obbedire. Ma tutto questo avvenne dopo. Tre ore, cinquantuno minuti e una cifra non quantificabile di secondi dopo la partita.
Alle tre del pomeriggio tutto doveva ancora succedere e la giornata che avrebbe cambiato per sempre il calcio, l’apertura dei Mondiali immaginari, aveva solo bisogno di qualcuno che battesse la prima palla al centro. I brasiliani pretesero che si giocasse con una vescica di bue riempita d’aria [2]
, gli inglesi allora si impuntarono per fissare il campo presso il giardino di Elvedon, con due coppie di giganteschi funghi rossi come pali e l’odore delle felci a stordire le cornacchie [3].