sabato 28 gennaio 2023

Galeano

L’ultima partita giocata ai Mondiali dalla Nazionale finì con un morso di Luis Suárez a Chiellini. Eravamo nel punto più orientale del Sudamerica, a Natal, più o meno dove arrivò Vespucci a inizio Cinquecento, la terra dei Pitaguary, i leggendari mangiatori di gamberi. L’Italia si stava infilando in un cono nero che durerà almeno fino al 2026, dodici anni senza vedere la Coppa, senza questo rito collettivo che scandisce la vita di un paese in ogni aspetto, la cultura, l’economia, il cibo. Inconsapevole allo stesso modo, l’Uruguay stava invece per perdere la voce che ha raccontato questo incantesimo meglio di chiunque altro al mondo, un tipo che nei giorni dei Mondiali appendeva un cartello sulla porta di casa, cerrado por fútbol, chiuso per calcio.

Eduardo Galeano sarebbe morto nell’aprile del 2015, dieci mesi dopo il gol di Godin a Buffon. Messi gli aveva fatto arrivare poco tempo prima una sua maglia. Aveva letto un giudizio espresso sul suo conto, se ne era innamorato. Galeano sosteneva che Maradona tenesse sempre la palla attaccata al piede, ma Leo di più, Leo non se la staccava mai dall’interno, un fenomeno oltre la fisica, impossibile per la scienza, eppure vero. Perché l’aveva detto Galeano. È lo scrittore più citato da chi non vuole vergognarsi di confessare la propria sbandata per il calcio, un bel paradosso per un intellettuale insofferente verso la santa madre chiesa della letteratura, dove da sinistra - con Jorge Luis Borges per primo - si snobbavano e si snobbano i moti del pallone, per via di quella storia dell’oppio dei popoli. Gianni Mura ha detto: “A cosa serve, in definitiva, leggere Eduardo Galeano? A non smettere di sognare, di lottare e di stare, per quanto è dato, dalle parti del cuore”.

Arriva a fine mese in Italia una sua raccolta di pensieri e riflessioni su questa malattia infantile che non ci lascia nemmeno da adulti, si intitola proprio Chiuso per calcio, Cerrado por fútbol in originale, tradotto per Sur da Fabrizio Gabrielli, a sua volta autore di un recente libro su Messi [edizioni 66thand2nd]. Ospita il Galeano più puro, fatto di schegge e di frammenti, di sentenze affilate, memorabili quanto quelle più celebri in cui si definisce cacciatore di sogni e mendicante di bellezza, dentro “uno sport specchio del mondo”, eppure consapevole del suo “triste viaggio dal piacere al dovere”, dove l’utile avrebbe preso il posto dell’allegria, sostituendo “quella follia che rende l’uomo bambino per un attimo”.

mercoledì 28 dicembre 2022

Perché vanno ancora a miss Italia

Le guardi, le ascolti, e non c’è più una miss che voglia essere solo una miss. Una si è presentata con un Master in giornalismo sportivo, un’altra è iscritta a una facoltà trilingue, c’è chi si sta laureando in Scienze internazionali, chi in Filosofia, chi farà la cardiochirurga. La faccenda si fa complessa. Il passato ha sempre il pregio di essere più nitido. Chi vinceva, si faceva chiamare reginetta. Reginetta di bellezza. Era l’Italia in cui l’educazione delle bambine poteva passare dall’attesa di un principe più o meno azzurro. Te ne stavi scalza ad aspettare, lui portava una scarpetta - spesso senza citofonare - e se la misura era giusta, smack, vissero felici e contenti. Eri miss qualcosa e in fondo quella era la tua strada.
Sono saltati gli schemi. Per capirci qualcosa, bisogna arrivare in questo albergone romano oltre la via Aurelia, alla fine di una serie di collegi pontifizi, dentro una sala allestita con diciotto file di sedie dallo schienale in velluto rosso. Sarebbero tristi per un convegno di radiologi, figurarsi per la finale di miss Italia, che ai bei tempi rendeva glamour il nome di Salsomaggiore. È qui che ha chiesto asilo politico questo concorso che era un romanzone popolare, finito in esilio in un centro congressi, senza diretta tv, sulla zattera dello streaming via social, stritolato da una serie di veti perché “i valori non sono più in linea con quelli di oggi”.
È qui che bisogna venire a chiedere cosa spinga 21 ragazze scelte fra ventimila, a intrecciare i loro percorsi di emancipazione con una sfilata in passerella, dentro un costume da bagno e con un numerino sul petto. Scoperta: non sfilano più ma dialogano, indossano un abito e il numerino da fiera è stato abolito. Patrizia Mirigliani è la figlia dello storico patron Enzo. È lei che regge il gioco, allarga le braccia, dice di non sapere perché non ci sia più spazio in tv - quando in tv è pieno di ragazze uscite dal concorso. “Siamo un fenomeno di costume, non un concorso di bellezza. Se vogliamo parlare di libertà, non si può impedire a una ragazza di indossare un costume di bagno, solo per non essere etichettata come superficiale. Sulle spiagge d’estate se ne vedono di più succinti. Da miss Italia sono arrivate donne nella politica, nello spettacolo, nel giornalismo”. La vincitrice di un anno fa, Zeudi di Palma, è appena stata invitata al ministero della Cultura per la giornata del contrasto alla violenza contro le donne. E allora i valori: sono in linea o non sono in linea?

mercoledì 21 dicembre 2022

Il Marocco di Centocelle

È nelle apparenti minuzie che si costruisce una casa comune. Un piatto di polenta, per esempio. Le donne cattoliche la prepareranno senza salsiccia e dalla moschea porteranno il cous cous, come accade da tre anni nella domenica del mercatino di Natale, alla parrocchia San Felice da Cantalice. È davanti alla facciata di questa chiesa a forma di capanna che mezzo secolo fa passeggiava l’Accattone di Pasolini, appoggiando il braccio sinistro sulle spalle di Stella, “lo sai che io già te vojo bene, me pare che pure te c’hai bisogno d’un conforto”. Centocelle era margine, era un ciglio di Roma, dieci anni prima c’era venuta la regina Elisabetta in visita e durante la guerra i partigiani avevano insediato un comando sotto il pergolato dell’osteria in piazza Mitri. Era il tempo in cui Sergio Citti diceva che i Parioli sono “er contrario de’ ‘e borgate”

Ora le borgate sono periferie, si somigliano tutte, sul retro di San Felice hanno dipinto un murale di Baglioni - “strada facendo, vedrai | che non sei più da solo” - perché da ragazzetto veniva a suonare la chitarra in chiesa. La parrocchia di frate Mario Fucà è diventata il centro di un corpaccione che fa 54 mila abitanti, il 18% stranieri. Se domani il Marocco dovesse aggiungere un’altra perla al suo storico Mondiale, se un gol in Qatar dovesse far ballare di nuovo tutti all’angolo di via degli Aceri, allora domenica la polenta col cous cous sarà nei piatti quando mancheranno poche ore alla finale, e a Centocelle saranno tutti sotto una stessa bandiera. Il centro di Roma è lontano 7 km. Nel 61 era un viaggio. Ora che il mondo ti entra nella vita con un telefonino, sono sei fermate di metro C che Accattone non aveva. Alla Casa del popolo in via delle Acacie, Teresa Mecca racconta dei corsi di italiano per adulti, stranieri e immigrati. “Si sono iscritti in trenta”, dice, “anche egiziani, tunisini, una siriana”. L’ambizione è aprire uno sportello che fornisca assistenza non solo burocratica, ma di partecipazione civica. “Forse le comunità sono distanti - dice frate Mario - forse non sono tutte rose e fiori, ma esiste un affiatamento tra le persone che costruiscono ponti e aggregazione. Qui non ci sono mai stati episodi di intolleranza, neppure di rifiuto reciproco. Se vogliamo vivere in pace, dobbiamo scommettere sulla valorizzazione della diversità. Mi pare che la comunità musulmana gradisca quest’attenzione”. 


giovedì 15 dicembre 2022

La magia che Marco D'Amore vede in Napoli

C'è un uomo esageratamente anziano accecato da una luce in uno scrigno. L'ha aperto con le mani che tremano per l'età, per la fatica di una ricerca. Ha percorso i sentieri di tufo del sottosuolo, si è tuffato nel golfo, ha visto spiriti e fantasmi. Ha pure baciato una sirena, non una qualunque, Partenope, per capire da dove vengano miti e leggende della città. Marco D'Amore è stato al trucco sei ore, prima di girare la scena chiave del suo film Napoli magica, nei sotterranei di Castel dell'Ovo, dove Virgilio nascose l'uovo su cui si posano l'edificio e la città, guai a romperlo, sarebbe una sciagura.

«È un progetto che mette in scena un fallimento — dice — l'impossibilità di raccontare Napoli nella sua pienezza. Come ogni città-mondo ». Prodotto da Sky e Mad Entertainment, il film sarà fuori concorso al festival di Torino, in sala tre giorni dal 5 dicembre, con un linguaggio a metà tra documentario e finzione. È un viaggio nelle credenze di Napoli e dentro ciò che di Napoli si crede, nelle convinzioni dei vivi e nel culto dei morti, un'indagine su Storia e percezione, complessi di superiorità e inferiorità, sul misterioso bisogno di affetto e la necessità di piacere, sulla separazione tra élite e popolo, in un posto dove stanno insieme l'illuminismo di Vico e il corno rosso della superstizione. Ed è curioso che questo percorso nell'aldilà lo faccia il volto che in Gomorra era l'Immortale.

«È il mio desiderio di conoscenza, una spinta che sento da ragazzino. Sono andato via a 18 anni, sono tornato a 30. Ho studiato a Milano, ho girato il mondo con la compagnia di Servillo. Mamma mi portava al Duomo, papà allo stadio. Sono le due passeggiate che mi hanno formato, ma il volto meno folkloristico di Napoli si conosce poco, anche in città. Pasolini ci chiamò una tribù che ha deciso di estinguersi, eppure esiste qui una spinta alla modernità e al progresso. Pazienza se mi sento contestare di non mettere distanza tra me e un'eredità artistica di cui non ho alcun merito, di essere troppo napoletano nel punto di vista politico».

Tra il cimitero delle Fontanelle, le catacombe di San Gaudioso e la cappella del Cristo Velato, il film è un atto di devozione. Eppure, D'Amore tradisce il piacere di camminare nei risvolti, sui sentieri della Napoli scientifica. Mette in scena l'afasia del popolo incapace di definire cosa siano magia e bellezza. Chiude con una sorpresa, uno sberleffo tra Collodi e Apuleio in cui pare invocare una moratoria, il silenzio dell'ignoranza su Napoli. C'è tanto studio dell'antropologia cittadina in dettagli, eccessi, scene comiche, omaggi a Totò e Peppino.


lunedì 12 dicembre 2022

La Roma di Ornella Vanoni

C’è un chilometro di distanza tra l’Auditorium della Conciliazione e Regina Coeli, una passeggiata d’una dozzina di minuti tra il palco di domani sera e le celle scure dove in fondo tutto è cominciato, dove ‘na campana sona a tutti l’ore, il punto metaforico da cui è partita la parabola del successo di Ornella Vanoni. Giorgio Strehler, Fausto Amodei e Fiorenzo Carpi le avevano cucito addosso un repertorio e un personaggio, la cantante della mala. Era una 23enne reduce da un debutto in scena ne I Giacobini di Zardi. Si inventò un genere, di cui era l'interprete ufficiale. I giornali dell'epoca parlavano di "voce interessante da mezzo soprano, calda e penetrante", di "capacità scenica non frequente", e in uno dei pezzi più popolari cantava che le Mantellate so’ delle suore, ma a Roma so’ sortanto celle scure. Era stato costruito apposta perché sembrasse il recupero colto di una tradizione popolare. Invece Strehler era triestino, Amodei torinese, Carpi milanese come lei. Lo presentarono al festival dei due mondi di Spoleto. Cantava il mondo chiuso dentro la sezione femminile del carcere di via Lungara, nato dalla trasformazione di un monastero seicentesco delle Carmelitane Scalze, ma di secolare nella canzone non c’era nulla, una fake-song, sebbene stesse bene pure nel repertorio folk di Gabriella Ferri e Lando Fiorini.
La giovane Ornella che aveva preso il diploma per fare l’estetista perché «avevo l'acne», si ritrovò cucita sulla pelle l’etichetta di cantante cerebrale. Nei titoli era accostata spesso così a Laura Betti, capace d’essere insieme sia felliniana sia pasoliniana, oltre che attrice preferita di Bellocchio. L’Ornella delle Mantellate sparì presto dalla scena. Divenne quasi subito molto altro, si diede alla prosa, al cinema, alla musica leggera. Roma ebbe di nuovo un ruolo, venne per sposare l’impresario Lucio Ardenzi, uscendo dalla figura politicamente scorretta di cantante della mala, quelle esibizioni che erano state raccontate dai critici del 1959 come una “apparizione espressionista, cantava guardando il soffitto, pallida, gli occhi brucianti, le mani bianchissime e lunghe nelle nella semioscurità della sala”. 

martedì 22 novembre 2022

Storia dei Musumeci Greco, maestri di spada degli attori



Se c’è un film di cappa e spada, è qui che gli attori vengono a imparare, nel cuore di Roma, una cinquantina di passi dal Pantheon. Cominciò Gino Cervi, anno 1939. Prima di essere Maigret, Alessandro Blasetti gli diede il ruolo del pittore Salvator Rosa, nella leggenda Formica, abilissimo spadaccino mascherato contro il conte Lamberto, consigliere del viceré di Napoli. Gli fece da maestro Enzo Musumeci Greco, nipote di Aurelio e Agesilao. La loro Accademia d’armi in via del Seminario, logo di Duilio Cambellotti, esiste dal 1878. Sono passati Tyrone Power per “Il Principe delle Volpi” e Orson Welles per “Cagliostro”, poi Richard Burton, Charlton Heston, Burt Lancaster.
“Questo è papà con Errol Flynn”, dice Renzo Musumeci Greco, sfilando una cornice da un mucchio di foto. È la quarta generazione dei maestri che insegnano l’arte del duello prima dei ciak. Per la Festa del cinema tiene oggi un corso intensivo di 6 ore a 12 giovani attori. “Ragazzi in attesa di qualche provino. Intanto imparano che cos’è una parata, un affondo, un passo avanti. È come quando un professore di piano insegna - che so - a fare una canzone di Battisti. Come può uno scoglio arginare il mare”.
La scherma è una successione di gesti come al piano?
“Ci sono produttori che chiamano e dicono: ahò, te damo tre giorni. In genere rispondo: vieni tu e vediamo se in tre giorni impari. Questi film scalcagnati li riconosci dal montaggio vertiginoso, inquadrature strette. Nessuno impara niente. Magari ci sono io che infilo un braccio. Quando invece abbiamo fatto Caravaggio, con la fotografia di Storaro, le lezioni sono durate tre mesi. I duelli erano senza controfigure con 100 colpi da ricordare a memoria, più la sicurezza da garantire. Per L’innocente di Visconti, 120 colpi in piano sequenza, i tempi sarebbero stati perfino più lunghi. Truccarono me e mio fratello e combattemmo. Oggi esistono i trucchi del digitale. Dalle lame di Sean Connery e Richard Gere, ne “Il Primo Cavaliere” uscivano stelle filanti, come comete. Significa che sul set non avevano niente in mano. Tutto finto. Invece Johnny Depp nel “Pirata dei Caraibi” si è mosso più lentamente e hanno velocizzato l’azione dopo”. 

domenica 30 ottobre 2022

Il gol che Turone non ha smesso di segnare

La stringa su Google restituisce 893mila risultati. Dopo 41 anni il gol di Turone è vicino a essere segnato un milione di volte - ovviamente: in rete. Anche se non è stato segnato mai, anzi, è stato segnato ma è stato pure annullato. È il non-evento più famoso nella storia del calcio italiano perché è più di un’azione da moviola, di una polemica, di uno scudetto svanito. È un modo di vivere il calcio, di averlo addosso come una camicia. È un trauma ironico, e forse neppure basta. “È una grande metafora per raccontare la città”, secondo Giannandrea Pecorelli, la mente di Notte prima degli esami e adesso produttore di un documentario su quel fatale 11 maggio 1981: Er gol de Turone era bono passa oggi alla Festa del cinema, con la regia di Francesco Miccichè e Lorenzo Rossi Espagnet.

Cosa accadde quel giorno si sa. Il guardalinee Giuliano Sancini, negoziante di abbigliamento sportivo e articoli da regalo a Bologna, annullò per fuorigioco il gol che avrebbe dato alla Roma di Liedholm il suo scudetto con due anni d’anticipo. Giusto, sbagliato, e chi lo sa. Carlo Sassi alla Domenica Sportiva non riuscì a stabilirlo in modo definitivo, il martedì la Gazzetta scriverà che “alla moviola è parso regolare”. Tutti a Roma sanno dov’erano e cosa facevano, quella domenica. Di questo si occupa il film, “di come una città - spiega Pecorelli - si lega a un fenomeno, il calcio, di come continua a vivere un episodio accaduto nel 1981 come se fosse ieri”. Con un registro ironico e brillante, con le testimonianze di Falcao, Pruzzo, Prandelli, Marocchino, di arbitro e guardalinee, di tifosi noti e soprattutto tifosi comuni. L’ambizione di “Er gol de Turone era bono”, spiega Pecorelli, è quella di ritrarre “una giornata particolare del tifo, l’attesa, la preparazione, l’esodo senza charter”, fino al dopo, quando Vanzina dice che nasce la leggenda del romanismo piagnone.

venerdì 28 ottobre 2022

La città che insegna a fare il cinema

Hanno i badge tra l’azzurro e il blù, e sono ovunque, con i bloc notes, le macchine fotografiche, i microfoni. Guardano, fanno domande, studiano il cinema e i suoi processi. Molti vengono da fuori Roma, affittano una camera, sognano di farcela. La Festa parla a loro in molti modi, mostrando pure quei mestieri che non sono in superficie, la macchina nascosta, non meno affascinante. Roma Lazio Film Commission ha aperto ieri il suo CineCampus Atelier di formazione con una lezione di Francesco Di Stefano sul mestiere del montatore, “un mestiere dimenticato - ha detto alla saletta piena di studenti - una figura che viene data per scontata”. Ha lavorato a “Freaks Out” e alla versione Director’s cut de “La grande bellezza”. Insegna che il montaggio è “come la cucina, gli ingredienti sono quelli, ognuno prepara il piatto a modo suo. Un film si monta in molti modi”. Avverte che bisogna avere un buon carattere, disporsi a mediazioni, entrare in sintonia fisica con il girato, come Walter Murch che lavora in piedi, perché ondeggia mentre monta.

Alessandra Rucco invece lavora in qualunque condizione, in riva a un fiume, in un bosco in Norvegia. Fa la segretaria di edizione e dice che ancora oggi, dopo vent’anni, qualcuno crede abbia a che fare con gli accenti. La dizione. Invece è il ruolo in cui si registra l’attività giornaliera del set, le sequenze, i ciak, i commenti del regista, un diario di bordo che sarà utile al montaggio. Ha scoperto il mestiere quasi per caso. Faceva la comparsa nella serie La Squadra. “Il cliché culturale - spiega - vuole che si tratti di un lavoro per donne. Forse perché serve un approccio femminile, forse per il nome”. In America lo chiamano script supervisor, Ambra Angiolini suggerisce: direttrice della continuità. Rucco ha una sua piattaforma online per la formazione, tiene corsi avanzati e per principianti. 

giovedì 27 ottobre 2022

Gli anni di piombo raccontati da chi non c'era

Matteo Leonardi e Camilla Giuliani non hanno fatto le vacanze. Hanno rinunciato al mare e sono stati in giro per la città a girare. Lui ha diciotto anni, lei sedici, nessuno dei due immaginava che Roma potesse essere stata un tale teatro di morte. Questa è la storia di ragazze e ragazzi che usano i pollici sui loro telefoni e che hanno iniziato a fasi domande sui coetanei, quelli che cinquant’anni fa usarono invece gli indici, premendo i grilletti delle pistole. Sono usciti dalla memoria dei loro computer e sono andati a cercarla tra le strade, tra le lapidi, tra le parole scolpite sulle pietre e i marmi di Roma, nel dolore dei familiari delle vittime, nei ricordi dei testimoni. Questa è la storia di adolescenti che a scuola non trovano risposte sugli anni di piombo, “non ci arriviamo col programma” - dicono così - e il viaggio l’hanno fatto allora con una macchina da presa.

Studiano per fare del cinema il loro futuro all’istituto Roberto Rossellini, liceo artistico con indirizzo audiovisivo. Intanto hanno portato al Maxxi e alla Festa del Cinema un prezioso lavoro, “Divergenze parallele”, titolo che parafrasa e sovverte la formula politica delle convergenze usata da Aldo Moro - con la regia di uno dei loro docenti, Massimo Franchi. Quindici anni della vita di Roma raccontati da chi passa davanti alla stele di Giorgiana Masi senza conoscere la sua storia, la sua e quella di una generazione che ha subito “un furto di tempo, dell’allegria e della speranza”, come dice Walter Veltroni, l’ex sindaco, uno degli intervistati dai tre protagonisti del film, ai quali racconta “la violenza diffusa, la sensazione che potesse sempre succedere qualcosa”, gli anni barbari, la diffusione della droga, una partita di pallone giocata ai giardinetti con uno dei futuri responsabili del rapimento di Moro e dell’omicidio della scorta. Quando la città era bianca e nera, dice la voce narrante di Tiziano Favaretto: bianca per i lacrimogeni, nere per le auto in fiamme.

mercoledì 26 ottobre 2022

Il cinema dentro Rebibbia

Oltre il rosso matto della guardiola, una volta chiuso il cancello alle spalle, ci sono diciotto scalini da scendere, lasciandosi sulla destra il braccio G12 e la sala per i colloqui, prima di entrare in un teatro da 340 posti, dove a Rebibbia si tramanda il ricordo della più fulminante recensione mai ascoltata: “‘A Infasce’, manco quanno è nato mi fijo ho pianto così”. Alex Infascelli, regista di Mi chiamo Francesco Totti, passò così l’esame della platea più esigente di Roma e dintorni, i 1600 detenuti tra Ponte Mammolo e la Tiburtina, cinque minuti a piedi da quella piazza Ferriani dove per un po’ visse Pasolini. Una comunità di persone che se spende un paio d’ore davanti a uno schermo, non vuole gettarle via. Non ha tempo da sprecare e non può chiamarlo tempo libero. Quando un regista porta un suo film dentro il Teatro Libero di Rebibbia, scopre il petto al vento, misura quanta distanza ha messo tra la sua arte e la sincerità. La Fondazione Cinema per Roma contribuisce a costruire il cartellone. Ieri la Festa ha portato in anteprima L’Ombra di Caravaggio di Michele Placido. Due ore di buio e di silenzio teso, per la storia di papa Papa Paolo V che mette un uomo dei servizi a seguire il pittore condannato a morte per omicidio. Deve capire se può concedergli la grazia.

Dentro le carceri, un tempo il cinema veniva a girare i suoi film e quando spegneva le luci, se ne andava. Da Rebibbia non esce più. È un ponte con l’esterno. Paolo Taviani è tornato giorni fa a dieci anni di distanza da “Cesare non deve morire”, premiato a Berlino e girato con una ventina di detenuti per attori. C’erano quasi tutti alla rievocazione, da uomini liberi. Il Centro Studi Enrico Maria Salerno cura quotidianamente la promozione di attività teatrali, cinematografiche, editoriali. Fabio Cavalli dirige e coordina. Sei anni fa portarono il cortometraggio Naufragio con spettatore alla Mostra di Venezia. “Non dobbiamo formare attori - dice - ma tenere accesa una luce. Gli effetti dell’arte nelle carceri è misurabile. La recidiva nel reato di chi frequenta un percorso di recitazione o di musica scende al 10 percento, rispetto alla media del sessantacinque. Qui il lockdown è stato più feroce che altrove. Tutte le iniziative si sono fermate. Riallacciare un filo è stato difficilissimo”.