mercoledì 29 aprile 2015

Lotito e le virtù del cappotto di cammello


AI CALCIATORI attaccati alla maglia adesso si aggiunge il presidente attaccato al cappotto. A primavera ormai esplosa, nella stagione cara alle squadre di Zeman, e dunque ostile a tutti ora che Zeman non c'è più, quando i primi caldi appesantiscono le gambe e infiacchiscono la mente, un uomo coraggioso sfida sole e sudore. Lui. Lotito. Lo avevamo lasciato dentro una felpa azzurra dell'Italia, lo ritroviamo con le spalle infilate nel capo che la moda associa all'eleganza e il calcio allo scongiuro più feroce. Non è mai un cappotto qualunque, il cappotto di cammello. E Lotito lo sa. Porta bene. Così dicono. Perciò lo indossa in ogni sua apparizione, lo sfoggia come uno dei suoi brocardi in ciascuno dei molteplici ruoli che ricopre. È dai piccoli particolari che si giudica un vincitore. Lo mette da presidente della Lazio quando siede in tribuna e da uomo delle istituzioni girando per cene private. Non lo toglie mai. Nemmeno ai buffet. Ce l'aveva pure sabato a Salerno, sul prato, mentre i suoi calciatori lo lanciavano in aria per festeggiare la promozione in serie B, riproponendo in salsa locale la foto che negli occhi abbiamo dei trionfi di Guardiola. A Guardiola oggi si strappa il vestito, il cappotto di Lotito no, neanche una piega.

lunedì 27 aprile 2015

Quando La Capria scelse Klee

Ferito a morte di Raffaele La Capria esce per gli Oscar Mondadori nel 1973. Aveva vinto il premio Strega, edito da Bompiani, dodici anni prima. Ma era un titolo già perfetto per la collana. Era infatti diventato un vero e proprio classico.
Nella sua casa romana, La Capria ricordando quei momenti che hanno scandito la sua intera carriera di autore si mette a fare due rapidi calcoli a mente.
«Dei miei venti libri, credo che quindici o sedici siano usciti per Mondadori nella collana degli Oscar. Quando nel ‘61 avevo spedito il manoscritto a Bompiani, mi aveva risposto con una lettera: "Sono incantato".
È uno dei ricordi a carattere letterario che ancora oggi mi emoziona. Bisogna pensare che ero molto giovane, in precedenza avevo pubblicato solo un romanzo breve, Un giorno d'impazienza , proposto sempre a Bompiani da Alberto Moravia».

venerdì 24 aprile 2015

Non scendete a Napoli

Napoli è città che in fondo si raggiunge per linee verticali. Si va giù Napoli. Lo fa chi torna a casa per le vacanze dopo aver scelto di vivere altrove (ovviamente al nord), lo fanno gli stessi napoletani della medio alta borghesia, riparati sulla collina cittadina, che sia Posillipo o sia il Vomero. Anche per questo l’avvertimento di Antonio Pascale, con il titolo del suo nuovo libro, suona in verticale: “Non scendete a Napoli” (Rizzoli, 230 pagine, 15 euro). La sua è la guida perfetta su una non-visita. Cosa vale la pena perdersi della città più raccontata e più permalosa per la rappresentazione che si fa di se stessa, soprattutto adesso che il web amplifica la voce dei brontoloni. Può capitare infatti che un autorevole quotidiano inglese spedisca l’inviato della sua sezione “Viaggi” a Napoli e che quello magnifichi le bellezze della città, i suoi musei, le sue piazze, le sue chiese.

mercoledì 22 aprile 2015

Parabola di Luis Enrique. Quanto conta un allenatore nel calcio

imago Hai Messi. Pensi che la squadra vada rinforzata. Allora prendi Neymar. Passa un'altra estate e avverti la sensazione della incompletezza. In realtà è ingordigia. Ma ognuno ha le sue idee. I soldi non ti mancano e dunque vai a comprare un centravanti. Non uno qualunque, ma il centravanti capocannoniere del campionato inglese. Suárez. Uno potrebbe obiettare: così sono bravi tutti (e magari è proprio vero: così sono bravi tutti). Poi però quei tre devi farli giocare insieme. Un'impresa o la cosa più facile al mondo? È lavoro per gente scafata o, come si sente in giro, "il Barcellona potrei allenarlo pure io"? Se hai tutto questo ben di dio, quanto conta un allenatore nel calcio?

Il male che un ambiente fa alla propria squadra

IN GENERE va così. Mormorio intorno al 20' del primo tempo perché lo 0-0 già pare un'offesa. Fischiatina sparpagliata ma più convinta all'intervallo. Insofferenza sfacciata a un quarto d'ora dalla fine. Chiusura con contestazione, venite sotto la curva, amiamo solo la maglia, e non fatevi vedere in giro. È il calore della folla.Convinti che siano i risultati del campo a provocare l'insofferenza del tifoso, abbiamo smesso di far caso alla verità. Il piano va ribaltato. È l'intolleranza del tifoso a mettere sempre più spesso il piombo nelle gambe della sua squadra. Che smette di correre, smette di crederci, smette di vincere. Eravamo rimasti alla tribù di Morris, al branco che allo stadio si riconosce e si riaggrega dentro un senso d'appartenenza a un'identità. Ma se all'improvviso da questo nucleo sparisce la squadra, che succede al famoso rito collettivo? Zeman se lo è domandato e si è dato una risposta: "Quando succedono certe cose, è normale che i ragazzi non si sentano tranquilli e si presentino così in campo".

mercoledì 15 aprile 2015

Un ritiro ci salverà

Gli azzurri in ritiro al Mundial '82
DEVE trattarsi di un omaggio postumo a Helenio Herrera, il Mago, l'uomo che teneva la sua Inter sotto controllo dal mercoledì sera al lunedì mattina. Oppure è la celebrazione del trentennale della grande idea venuta ad Antonio Pecoriello, presidente dell'Avellino che dopo tre sconfitte di fila, marzo 1985, annunciò «un ritiro perpetuo». Come i cedri di Foscolo. Ci tenne a spiegare che non di provvedimento punitivo si trattava, «ma solo di una decisione saggia». Solo quello.
Fatto sta che adesso si ritrovano in ritiro tre squadre di A tutte assieme. Quello del Cagliari (secondo giorno) è detto «a oltranza». Quello dell'Udinese (ottavo) è raccontato da Pozzo come una specie di gioioso campo scuola. «Non sono i lavori forzati». Quello del Napoli (sesto giorno con interruzione domenicale) serve a scappare dalla «città rapace», definizione dentro cui De Laurentiis comprende quello che ha individuato come il pericolo numero uno per gli introiti da Champions. La vitalità dell'ormone maschile. Il calcio ha i suoi riti, quando le cose vanno male. L'allenatore da cacciare resta un classico. E mentre si afferma la nuova moda del sermone ultrà, torna attuale il ritiro punitivo. 

lunedì 13 aprile 2015

Il progetto nel calcio è una bugia

Mihajlovic, allenatore della Sampdoria
Mihajlovic, allenatore della Sampdoria
"Deciderò il mio futuro in base al progetto che mi verrà sottoposto", così dice Sinisa Mihajlovic, barcamenandosi fra chi lo corteggia. Milan e Napoli con più insistenza. Progetto. Questa parola non è nuova. Ma soprattutto: non è vera. È l'abuso linguistico che più spesso il calcio impone. Un progetto implica un tempo. Solo che tempo nel calcio non ce n'è. Un progetto esige fatica e la messa in conto di un arretramento momentaneo. Il progetto nello sport è pazienza. Nella sua scalata da 5 metri e 85 fino a 6,14 Sergej Bubka impiegò dieci anni. Tre li trascorse per passare da 6,06 a 6,07, saltando nel frattempo misure inferiori. Tre anni per un centimetro.

giovedì 9 aprile 2015

La canzone napoletana è morta. Colpa delle donne


Poco più di ottanta anni fa, quando Dicitencello vuje è stata scritta da pochissimo, quando non sono state ancora composte Munasterio 'e Santa Chiara, non ancora Passione Tammurriata Nera, non ancora Luna RossaMalafemmena, quando Renato Carosone è ancora un pre-adolescente; poco più di ottant'anni fa sui giornali dell'epoca si apre un dibattito. Tema: la canzone napoletana è morta. Chi lo sa perché. Forse perché la Festa di Piedigrotta, attesa per ascoltare le novità della scena musicale, comincia a essere influenzata dalle prime case discografiche, anche se il disco e la sua diffusione non sono ancora un metro di giudizio del successo di un brano. Le cosiddette "audizioni di Piedigrotta" si tengono nei teatri, la radio trasmette le serate. Piedigrotta ha un seguito nazionale. Napoli, dai giornali dell'epoca, viene ancora raccontata in prevalenza con i toni dei viaggiatori del Grand Tour. Lucrino veniva definita "la Viareggio del sud". Fatto sta che il dibattito c'è. Negli anni Trenta, in giro, sono convinti che la canzone napoletana sia morta. A dimostrazione del fatto che spesso, per non dire sempre, l'idea che sia esistito un passato magnifico e migliore del presente è falsa.

mercoledì 8 aprile 2015

Il fascino antico della punizione in area


C'ERA sempre, da bambino, uno che faceva la domanda. «Arbitro, posso tirare?». E quello, poverino, con una santa pazienza a spiegare che bisognava guardare come teneva il braccio. Se alto o basso. Regola 13. Il calcio di punizione. Diretto o indiretto. Fino al giorno in cui arrivava per tutti l'età della conoscenza e dell'accesso alla scoperta avanzata: esiste una punizione in area di rigore. Una vicenda sorprendente e misteriosa, i grandi la spiegavano quasi con la stessa meraviglia che accompagna la storia dell'ape, il pungiglione, il polline e il pistillo. Pareva roba d'altri tempi, invece il gol di Tevez riporta tra noi questo gesto dimenticato. È stato una rarità negli ultimi quindici anni di calcio, per una serie di modifiche regolamentari e perché il basket ha ispirato l'introduzione dei blocchi, così il fallo di ostruzione d'una volta non si fischia quasi più. Come il gioco pericoloso. Un calcio a due in area ormai si vede solo se un Rugani tocca la palla all'indietro e un Sepe la afferra con le mani anziché scaraventarla via con una pedata, come nel frattempo i portieri hanno imparato a fare, alcuni peraltro in modo sommo.