mercoledì 22 aprile 2015

Parabola di Luis Enrique. Quanto conta un allenatore nel calcio

imago Hai Messi. Pensi che la squadra vada rinforzata. Allora prendi Neymar. Passa un'altra estate e avverti la sensazione della incompletezza. In realtà è ingordigia. Ma ognuno ha le sue idee. I soldi non ti mancano e dunque vai a comprare un centravanti. Non uno qualunque, ma il centravanti capocannoniere del campionato inglese. Suárez. Uno potrebbe obiettare: così sono bravi tutti (e magari è proprio vero: così sono bravi tutti). Poi però quei tre devi farli giocare insieme. Un'impresa o la cosa più facile al mondo? È lavoro per gente scafata o, come si sente in giro, "il Barcellona potrei allenarlo pure io"? Se hai tutto questo ben di dio, quanto conta un allenatore nel calcio?
Sul punto, il Barcellona ha le idee chiarissime. La risposta non si equivoca. La risposta è Luis Enrique. Uno di casa. In fondo è da un po' la linea del "més que un club". La selezione per la panchina, come accaduto per Guardiola e Vilanova, prende in considerazione più l'identità e il senso d'appartenenza che il curriculum. Tata Martino è stato un'eccezione. Aveva la benedizione del 10. Luis Enrique invece ha alle spalle 400 partite da calciatore, poco più di 60 in nazionale, tre campionati mondiali. Ma da allenatore ha soprattutto tanto futuro davanti. Quando ad agosto 2011, fortemente voluto da Franco Baldini, arriva a Roma con la fama del nuovo Guardiola per il dopo-Ranieri (che a sua volta era il dopo-Spalletti), mette le cose in chiaro dinanzi alle aspettative e dice: "Non sono Harry Potter". Alla Roma basterebbe che avesse i poteri di Ronald Weasley. Invece se ne andrà nove mesi più tardi leggendo una lettera alla squadra con cui si dice sempre convinto della sua idea di calcio, ma confessa tutto il suo stress. "Me ne vado perché sono molto stanco, ho dato il 100% in questa stagione. So che non mi basterà l’estate per recuperare la forza e quindi non posso darla alla squadra. Il prossimo anno non allenerò sicuro. Devo recuperare. Sono molto passionale, è stata un’avventura, voi l’avete chiamata progetto, parola di cui siamo stanchi".


Riposa, fa un anno al Celta Vigo ed eccoci qua, ci siamo, viene giudicato dal Barcellona l'uomo adatto a gestire Messi-Suárez-Neymar. Con i quali adesso più o meno non si parla. Anche Barcellona gli mette pressione addosso. La stampa catalana gli rimprovera in queste ore, dopo il passaggio alla semifinale di Coppa dei Campioni, di aver rivolto un pubblico elogio a Zubizarreta, direttore sportivo caduto in disgrazia fino all'addio. È stato considerato un messaggio polemico per il presidente Bartomeu, nei mesi scorsi mediatore fra l'allenatore e le stelle col broncio. Eppure, tutto questo enorme polverone non ha impedito a Luis Enrique di diventare con il 2-0 al Psg l'allenatore nella storia del Barcellona con il miglior rendimento nelle 50 partite iniziali. Quarantadue vittorie.
  Diciamo la verità. Non è un gran record. Nel senso che fra le prime 50 partite (tra agosto e aprile) e le dieci decisive che vanno dalla cinquantunesima alla sessantesima (fra aprile e maggio), tutti saprebbero quali scegliere di vincere. Però è comunque un traguardo. Colpisce. E allora si torna alla domanda iniziale. Le 42 vittorie su 50 sono di Luis Enrique o appartengono a un gruppo di calciatori fra cui quei tre? Il dilemma non è nuovo. Questo Barcellona ce lo propone solo con più forza. Dove si colloca il confine tra la capacità di un allenatore e la fortuna di ritrovarsi in squadra tante stelle? Un anno fa, il sito di informazione politico-economica lavoce.info ha diffuso uno studio (Torricelli, Urzi Brancati, Mirtoleni, Should football coaches wear a suit? The impact of skill and management structure on serie A clubs’ performance) basato su un lavoro analogo svolto sulla Premier League, in cui veniva applicata la stessa metodologia che nel mondo della finanza si usa per valutare i manager dei fondi comuni (lo studio è qui). Considerando valore delle rose e stipendi dei calciatori, la ricerca supponeva l'esistenza di una specie di pilota automatico in panchina e misurava la differenza tra i risultati effettivi e quelli dell'allenatore virtuale. Ebbene. Solo due allenatori su 49 hanno ottenuto risultati superiori a quelli del loro replicante: Conte e Guidolin. Con una tolleranza maggiore sulle percentuali si potrebbero inserire nel mucchietto dell'eccellenza anche Garcia e Pulga. Benino Donadoni e Mandorlini. Sufficienti Benitez, Mazzarri, Montella e Corini. Tutti gli altri hanno più del 50% di "allenatori automatici" che farebbero meglio di loro. Giovanni Trapattoni ha sempre sostenuto che l'allenatore non pesa sui risultati più del 25 percento.

"Non esiste un allenatore infallibile, il più bravo è quello che sbaglia meno" (Filippo Inzaghi)

Nel suo libro “Altro tiro, altro giro, altro regalo” Flavio Tranquillo scrive sull’argomento: “Essere allenatore significa essere rigorosamente flessibile, un ossimoro che racchiude un'attività bellissima e contraddittoria. Ma quanto conta davvero questo ruolo? Risposta onesta: non si può stabilire, e comunque dipende dalle situazioni (…) Penso conti per un 10, un 15, un 20 al massimo. Mai di più, che senza giocatori buoni disposti a giocare assieme non c’è Phil Jackson che tenga". Tranquillo parla di basket. Ma i meccanismi sono simili. Nel calcio di oggi sono di fatto globalizzate la preparazione atletica e le conoscenze tattiche. Una ventina d'anni fa si attribuiva a un allenatore d'élite una superiore capacità nella gestione psicologica del suo gruppo di lavoro. Ora anche l'attenzione a questo aspetto si è diffusa in modo capillare. Certo, nella capacità di motivare lo spogliatoio qualcuno in grado di fare la differenza rispetto ai colleghi esiste (lo so a chi state pensando), ma il vero grande impatto di un allenatore sulla conduzione della squadra consiste forse in altro. Il ruolo è slittato da un piano tecnico-psicologico a uno di relazioni. L'allenatore che lascia una traccia è oggi quello che attrae calciatori in una squadra dove altrimenti quei calciatori non sarebbero arrivati. In questo modo sposta certamente degli equilibri, al netto dei suoi futuri errori (una formazione sbagliata, un cambio
tardivo), tutti per natura opinabili.

"Quando si vince, siamo tutti biondi con gli occhi azzurri" (Alfio Basile)

Il senso del mestiere è frammentato. Ogni grande allenatore in passato lo ha definito a modo suo. Bill Shankly: "Il segreto per fare l'allenatore? Decidere. Se non sai decidere durante una partita, sei una minaccia. Allora faresti bene a lasciare la panchina e andare a fare il deputato". Brian Clough: "Il calcio è come il matrimonio. Perché funzioni bisogna avere un buon rapporto con la squadra. In una relazione felice ci si comporta nel modo giusto senza saperlo. È come mandare un mazzo di fiori a tua moglie al momento giusto e non ogni settimana". Vujadin Boskov: "L'allenatore deve essere un maestro, un amico e un poliziotto". Carlo Mazzone: "La tecnica è il pane dei ricchi, la tattica è il pane dei poveri". Infine Marcelo Bielsa: "Non c’è niente di meglio di un giocatore che ti risolve la partita, ma gli allenatori hanno deciso che il processo creativo è secondario. Se si potesse dare la palla a un Maradona e fargli risolvere la partita, io credo che saremmo tutti più felici. Però oggi i Maradona non ci sono più". Oggi ci sono Messi, Neymar e Suárez insieme. Ma il dubbio rimane.

Nessun commento: