venerdì 10 maggio 2019

Due o tre cose sulla superiorità del calcio inglese

Se per le quattro squadre in finale di Coppa dobbiamo celebrare il calcio inglese, sarà bene definire subito cosa intendiamo per calcio inglese, cosa c’è dentro la scatola che porta questa etichetta e dove risiede la sua superiorità.
Come hanno fatto quattro squadre di uno stesso Paese ad arrivare davanti a tutti? Ci sono riuscite perché non sono affatto quattro squadre di uno stesso Paese.

lunedì 6 maggio 2019

Come il Milan vinse lo scudetto della stella



Lo scudetto della stella del Milan, 6 maggio 1979, 
nelle parole d'epoca: Arpino, Brera, De Felice, Sconcerti, Zanetti. 

Io triumphe, caro vecchio Milan! Sento impazzare i clacson, indici del suo nume. Dal primo all'ultimo giorno il Milan ha comandato il torneo. Ha tenuto più a lungo la sua ruota il magnifico Perugia: poi ha dovuto arrendersi, troppo grande la differenza di forze in campo, di riserve in panchina, di mezzi in città (per tacere della Regione, cioè del retroterra). Ora, secondo che giustizia vuole, togliamoci il cappello per il Perugia e ascoltiamo con grata meraviglia il chiassoso carosello dei nostri cari fratelli cacciaviti [1]. L'anno di Rivera, Maldera, Bigon, di un Perugia che perde il trentenne Vannini e quindi cade in ambasce strategiche che costano punti, l'anno di una Juve retour de Baires che che prima è appagata poi pentita, poi distratta, l'anno di un Torino falcidiato, è trascorso [2]. "In pratica, è stato un torneo a due, ma con una sola squadra iscritta alla corsa per lo scudetto: una sola squadra che poi sono state due, il Milan con Rivera e il Milan senza Rivera. Un autentico rompicapo per i maghi delle panchine [3].

la partita decisiva
Alle quattro del pomeriggio San Siro aveva diecimila persone in più delle sessantamila consentite. C'è voluto un appello di Rivera per vedere lentamente la grande ammucchiata aprirsi e disperdersi come il Mar Rosso davanti a Mosè [4]. È entrato in campo Rivera avendo al fianco Paride Accetti: "Alzati Gioann", ha ringhiato un fesso, neanche fosse il papa. Rivera ha avuto il microfono dell'altoparlante e ha detto: "Se non sgombrate perdiamo la partita". Accetti, che è forse un congiuntivo esortativo, non un indicativo presente e neanche un plurale sbagliato, ha compiuto ampi e cattivanti gesti a sostegno dell'oratore: poi si sono mossi i pretoriani (the Milan boys) brandendo manganelli astutamente avvolti in bandiere da campo: la gente ha subito capito e si è pigiata sugli anelli superiori. Allora finalmente ha avuto inizio la più divertente parodia d'una partita di calco che mai sia stata inscenata negli ultimi decennio (a quel livello dico) (...) Il pericolo era che qualcuno, per isbaglio, segnasse [1]. C'è una sorta di pudore a cantare il trionfo del Milan, come entusiasmo popolare vorrebbe, anche perché la partita è stata falsa. Il Bologna puntava al pareggio, e lo hanno capito subito tutti. (...) A cercare il gol con un certo impegno fra loro era Juliano, che non ha mai amato Rivera per questioni di nazionale [5]. La parte cogliona dei presenti si è messa a fischiare con temeraria insolenza: qualcuno ha pure gridato ai bidoni. Oh comica pretesa di voler vedere calcio fra due squadre egualmente interessate a non procurarsi danno! [1].

giovedì 25 aprile 2019

La Resistenza della signorina Finizio

La signorina Finizio era sposata e aveva due figli ma in classe molti la chiamavano così, signorina, qualche volta signurì. Insegnava in una scuola elementare che all'inizio non aveva neppure un nome, il 75° circolo, un insieme di padiglioni prefabbricati dove faceva freddo d'inverno e coi primi caldi si sudava. La chiamavamo Le Baracche e la pronunciavamo con due erre. Il rione Cavalleggeri aveva preso forma lentamente intorno all'Italsider, per tutti la Fabbrica, anche se la fabbrica in zona era più d'una e comprendeva la Cementir e l'Eternit. Una striscia di 800 o 900 metri, dal ponte della metropolitana fino ai palazzi stretti fra un paio di chiese: negli anni 70 era un rione in prevalenza di giovani coppie, molte avevano preso casa lì a costi contenuti anche se non lavoravano all'acciaio. Cavalleggeri non era più Fuorigrotta e non era già Bagnoli, così noi del posto non sapevamo cosa dire a chi ci domandava di quale parte di Napoli fossimo, 'e d''o sì, di dove sei, perché rispondere era una dichiarazione di appartenenza, significava sentirsi classe operaia in un caso o piccoloborghesi nell'altro, e noi non sapevamo d'esserlo.

lunedì 25 febbraio 2019

La favola della serie A poco allenante

La Roma ha giocato a maggio una semifinale di Champions ed è tuttora in corsa per andare avanti. Il Napoli è fuori dalle prime 16 per un gol in meno e con la miglior difesa del girone, dopo aver battuto il Liverpool ed essersi fatto prendere al 93' dal Psg. La stessa Inter indecifrabile di Spalletti s'è giocata fino in fondo la qualificazione battendo il Tottenham e pareggiando col Barcellona. Il deserto che spesso ci raccontiamo è meno arido di quanto appaia. La Lazio era nei quarti di Europa League pochi mesi fa. La Fiorentina si spinse in semifinale nel 2015. La qualità di un movimento si misura nel mare aperto del confronto europeo, e quel confronto ci dice che accanto a una larga fetta di classe media in fuga da investimenti e antagonismo, rassegnata alla subalternità, esistono in Italia diverse squadre di buon livello internazionale. Ne abbiamo 5 fra le prime 40 del ranking Uefa, una in meno di Spagna e Inghilterra, due in più della Germania. Eppure ogni frustrazione della Juve finisce per essere ricondotta al campionato poco allenante. È colpa degli altri.

domenica 17 febbraio 2019

Banks e la parata del secolo che tolse il fiato a Pelé

Pelé era montato su Tommy Wright come avrebbe poi rifatto in finale sul povero Burgnich, arrivando a colpire il pallone da lassù, oltre i due metri. Lo aveva schiacciato a terra con violenza facendolo picchiare dentro l'area piccola e aveva urlato: goool - alzando le braccia prima del tempo - bucando con la voce pure il boato della folla. Perciò Gordon Banks credette di aver solo toccato la palla senza averle impedito di finire in porta, tanto che rimase un attimo accanto al palo con la testa bassa.
Si sbagliava. Il boato era per lui.
L'aveva presa. Lo capì rialzandosi dai complimenti dei compagni. Si voltò e vide che il pallone era sui cartelloni della pubblicità.
L'aveva deviato col braccio destro cadendo. Pelé era diventato una statua di sale. Gli mormorò: ti odio, prima di raccontare negli anni a venire: «Ho fatto più di mille gol nella vita ma la gente mi chiede dell'unico che non ho segnato». Terry Cooper passò a Banks una mano tra i capelli, mentre Bobby Moore lo fece ridere: «Ehi Gordon», gli disse, «stai diventando vecchio, un tempo l'avresti bloccata».

venerdì 15 febbraio 2019

Perché la pallamano in Italia non decolla

Questa è la storia del più grande mistero dello sport italiano e di una Nazionale dimenticata, l’unica a non essere mai andata alle Olimpiadi e ad aver fatto un’apparizione ai Mondiali in 50 anni, con gli uomini qualificati nel 1997 (diciottesimi) e le donne in campo nel 2001 (sedicesime) giusto perché si giocava a Merano. La pallamano non ha saggisti che la ritengano un’esperienza religiosa né scrittori disposti in nome suo a farsi mendicanti di bellezza. Nessun cantore, nessun poeta. A guardarla da vicino possiede solo l’arte della semplicità. In sintesi: si gioca in sette, uno sta in porta, non si può tenere la palla fra le mani per più di 3 secondi senza muoversi, si palleggia, si passa, si tira, tutto a patto di non entrare in area. Due tempi da 30 minuti, chi fa più gol vince. Facile, davvero. Tanto facile che, la federazione portò subito il gioco nelle scuole. Risultato: lo stiamo aspettando.

venerdì 8 febbraio 2019

Quei bravi ragazzi della Paranza dei Bambini



NAPOLI. Vengono dalla strada ma dalla strada fuggono. Queste facce, questi occhi, queste vite sono cresciute dentro quartieri presi in ostaggio da codici e costumi di camorra: portarli al cinema è un modo per tenersene lontani. Sono attori esordienti, cercati fra tremila in sei mesi, perché i piccoli boss de La Paranza dei Bambini dovevano avere volti distanti dalla classica iconografia malvagia eppure venire da contesti a cui la realtà del film non fosse estranea. Un casting da neorealismo identitario per l'unico film italiano in concorso a Berlino (il 12, e poi in sala), firmato da Claudio Giovannesi, dal libro di Roberto Saviano e da lui scritto con il regista e con Maurizio Braucci; il racconto dell’ascesa incosciente e criminale di sei quindicenni disposti a rinunciare ai primi amori e all’amicizia per soldi pistole e droga, per prendersi tutto nel rione Sanità, lo stesso in cui nel 1960 Eduardo De Filippo immaginava il suo personaggio forse più controverso, quell’Antonio Barracano che si faceva sindaco d’ufficio e d’onore per tenere le dispute in equilibrio, creatore di una giustizia personale per sfiducia negli uomini e nelle istituzioni.

Quasi sessant’anni più tardi e dieci dopo Gomorra, in questa neo-ferocia ci sono pure riflessi linguistici. Da un lato la malavita si è appropriata di parole nate come innocenti - la paranza, che prima di tutto era imbarcazione da pesca, poi frittura mista di pescetti; dall’altro l’uso comune ha accolto vocaboli camorristici – le “stese” – quasi a legittimarli. Il mondo di “stese” e paranze è fatto di ragazzini che sparano a mura e serrande nei rioni nemici, per intimidire, per sfidare, dopo essersi addestrati mirando ai padelloni delle antenne satellitari sui tetti, mentre tutt’attorno i fuochi d’artificio coprono gli spari. È un mondo senza padri, senza politica, senza divise, nel quale lo Stato è la buona volontà dell’associazionismo, unico contrasto al reclutamento di nuovi delinquenti tra famiglie non affiliate, nella vasta zona grigia dei piccoli precedenti penali, dove ogni adolescente è solo, fragile e a rischio. I numeri sul fenomeno diffusi un anno fa dalla giustizia minorile nel distretto di Napoli raccontavano di 10 procedimenti per associazione di stampo mafioso fra giugno 2016 e giugno 2017, 14 per narcotraffico, 27 per omicidio, 19 per tentato omicidio, 457 per droga, in tutto 2.807 notizie di reati, in calo come numero per la depenalizzazione ma più gravi rispetto al passato. Nella sentenza con cui nell'estate 2016 veniva fissato una volta e per sempre che “esiste la paranza dei bimbi, non è un delirio o un’invenzione” (Saviano), per 43 condanne fra i 2 e i 20 anni il giudice Nicola Quatrano scrisse: “Un filo sottile ed esistenziale lega i giovani che scorrono in armi nel centro storico di Napoli per uccidere o farsi uccidere e i militanti della Jihad. Entrambi sono ossessionati dalla morte, forse la amano, probabilmente la cercano, quasi fosse l'unica chance per dare un senso alla propria vita e vivere in eterno”. Ora il regista Giovannesi chiarisce: “Il mio non è un film su Napoli ma sulla perdita dell’innocenza che si manifesta in ogni metropoli quando si fa una scelta criminale. Un processo raccontato dal punto di vista dei ragazzi, dei loro valori e sentimenti”.

Le follie di Palpacelli, una carriera bruciata dall'eroina


Quest'uomo di 48 anni che di fronte al mare beve un succo di mirtillo e porta i capelli a zero, un tempo aveva la coda di cavallo, andava a Jack Daniel's e si faceva di eroina. «Mai mezze misure, alla fine è stata una forza: è un eccesso anche smettere dall'oggi al domani». Tra una dose e l'altra giocava a tennis, il più grande campione mancato d'Italia, una vita che sembrerebbe esagerata pure se fosse fantasiosa, e invece è vera. Roberto Palpacelli schiacciava con il manico della racchetta quando le partite lo annoiavano. Fumava ai cambi di campo. Rifiutò la chiamata di Panatta e Bertolucci a un raduno della nazionale giovanile perché gli pareva una prigione. Si è fatto cacciare dalla scuola per maestri. Poteva bere 4 Campari e giocare 3 ore al sole. A 17 anni era categoria B1 e già sniffava. Nella droga ha scialacquato talento e montepremi. Una discesa all'inferno che lo portò a implorare suo padre di aiutarlo a farsi, perché da solo no, aveva un braccio rotto. Ha battuto Canè, Meneschincheri e Santopadre. Ha perso al 3° set con Ljubicic tre mesi prima di entrare in comunità. Oggi dà lezioni di tennis per 30 euro l'ora al circolo di fianco alla stazione di San Benedetto del Tronto, la città della perdizione e della risalita, dove sua madre lo raggiunge in ansia e gli porta le sigarette, se trova il telefono spento quando lo chiama. Tutto raccontato nel libro scritto con il giornalista Federico Ferrero, Il Palpa (Rizzoli): c'è già una casa di produzione che ha acquisito i diritti per trarne un film.

sabato 12 gennaio 2019

La seconda vita di Manzini, il papà di Rocco Schiavone


Seduto alla scrivania dove nascono le storie di Rocco Schiavone, con alle spalle una libreria che è la Hit Parade dei noir di tutti i tempi, Antonio Manzini ha di fronte a sé un quadro di suo padre Francesco, La porta a vetri, 1971, e un'altra porta a vetri da cui si vede il Terminillo. «Papà leggeva tanto, io da ragazzo 4 libri all'anno, soprattutto King, di nascosto. Lui invece mi voleva coi racconti di Cechov in mano». Domani esce Rien ne va plus, ottavo romanzo della serie del vicequestore burbero e spinellomane. Manzini è il giallista che più vende in Italia dopo Camilleri. Questa è la sua seconda vita, dopo 25 anni da attore. Passa per un orso perché se può evita le presentazioni e non dà volentieri interviste. In questo casale di campagna al confine tra Lazio e Umbria, fra ulivi e sei cani, uno che si chiama proprio Rocco, in quattro ore di chiacchiere più volte parlerà di "sospensione dalla realtà" come condizione di vita.

Suo padre, diceva.
«Non poteva crederci che lasciassi a metà Anna Karenina. Ma nei ragazzi deve scattare il libro giusto. Il mio fu I fratelli Karamazov, un'estate in Calabria, a 16 anni. Capii che ogni volume era un universo. Certo, 66mila novità all'anno sono troppe. Se ne leggo 70, uno ogni 5 giorni, me ne perdo 65.930. Poi ci sono quelli che mi spediscono per un parere».

Se un libro non le piace, come lo dice?
«Dico che non mi è arrivato. Una volta mi è capitato di vivere nel terrore di incontrare una persona che mi chiedesse del suo romanzo. L'ho imparato negli anni di teatro. Se confessavi a un regista che il suo lavoro non ti era piaciuto, ti toglieva il saluto per mesi».