Quasi sessant’anni più tardi e dieci dopo Gomorra, in questa neo-ferocia ci sono pure riflessi linguistici. Da un lato la malavita si è appropriata di parole nate come innocenti - la paranza, che prima di tutto era imbarcazione da pesca, poi frittura mista di pescetti; dall’altro l’uso comune ha accolto vocaboli camorristici – le “stese” – quasi a legittimarli. Il mondo di “stese” e paranze è fatto di ragazzini che sparano a mura e serrande nei rioni nemici, per intimidire, per sfidare, dopo essersi addestrati mirando ai padelloni delle antenne satellitari sui tetti, mentre tutt’attorno i fuochi d’artificio coprono gli spari. È un mondo senza padri, senza politica, senza divise, nel quale lo Stato è la buona volontà dell’associazionismo, unico contrasto al reclutamento di nuovi delinquenti tra famiglie non affiliate, nella vasta zona grigia dei piccoli precedenti penali, dove ogni adolescente è solo, fragile e a rischio. I numeri sul fenomeno diffusi un anno fa dalla giustizia minorile nel distretto di Napoli raccontavano di 10 procedimenti per associazione di stampo mafioso fra giugno 2016 e giugno 2017, 14 per narcotraffico, 27 per omicidio, 19 per tentato omicidio, 457 per droga, in tutto 2.807 notizie di reati, in calo come numero per la depenalizzazione ma più gravi rispetto al passato. Nella sentenza con cui nell'estate 2016 veniva fissato una volta e per sempre che “esiste la paranza dei bimbi, non è un delirio o un’invenzione” (Saviano), per 43 condanne fra i 2 e i 20 anni il giudice Nicola Quatrano scrisse: “Un filo sottile ed esistenziale lega i giovani che scorrono in armi nel centro storico di Napoli per uccidere o farsi uccidere e i militanti della Jihad. Entrambi sono ossessionati dalla morte, forse la amano, probabilmente la cercano, quasi fosse l'unica chance per dare un senso alla propria vita e vivere in eterno”. Ora il regista Giovannesi chiarisce: “Il mio non è un film su Napoli ma sulla perdita dell’innocenza che si manifesta in ogni metropoli quando si fa una scelta criminale. Un processo raccontato dal punto di vista dei ragazzi, dei loro valori e sentimenti”.
Pasquale Marotta, nel film Agostino, vive a Scampia. Certi orrori li porta senza dirli sotto la pelle. “Ci hanno scelto per il film perché conosciamo il male. Senza praticarlo, sappiamo esprimerlo. Io le vedo ogni giorno certe persone, ma il cervello è più forte delle pistole”. S’è diplomato all’istituto alberghiero durante le riprese, l’estate scorsa. “Mi hanno notato a scuola mentre mangiavo una pizzetta. Di giorno giravamo, di notte studiavo. Alla fine non è stata nemmeno questa gran fatica, quando le cose le fai col cuore vengono bene. Sono quasi chef, cucino il pesce, lavoro con i crudi. Era il mio sogno, adesso se n’è aggiunto un altro. Così ho un piano B se con il cinema andasse male”.
Perché ora davvero questi ragazzi sentono che il cinema è venuto a prenderli, o come dice Francesco Di Napoli, che è Nicola, il protagonista, il capo dalla faccia d’angelo, “questo film me l’ha mandato Dio”. Francesco viene dal Rione Traiano, dove un muro invisibile separa i tanti onesti silenziosi da un distretto dello spaccio. Qui, a ridosso della Fuorigrotta piccolo-borghese e della Bagnoli operaia, costruirono una Scampia prima di Scampia. Palazzine basse, vialoni, anodizzati: doveva essere un quartiere popolare, è diventato un ghetto. “Al provino - racconta - s’era presentato mio cugino. Quando sono andati sul profilo facebook per vedere le sue foto, ne hanno trovata una mia e mi hanno fatto contattare. Ho capito che era una cosa seria quando mi hanno portato a Cinecittà. A Roma non c’ero mai stato. Io mo’ farei altri mille film, da domani, mi è bastato un giorno per capirlo. Prima mi svegliavo alle 5 per andare a lavorare. Facevo il pasticciere, anzi lo faccio ancora. Mi ero stancato di essere il ragazzo delle consegne sotto la pioggia. Il capo mi ha promosso dietro il bancone e ho imparato a fare i biscotti, gli occhi di bue, le francesine”.
Ar Tem, che nel film è rasato e si chiama Tyson, dice che questi capelli troppo cresciuti adesso vanno tagliati, “se no non mi riconosce nessuno”. Crede che con questo film “noi ci siamo salvati”. Prima aveva la boxe. “Combatto nei pesi welter, categoria Élite, 69 chili. Ma ormai della boxe in Italia non gliene frega niente a nessuno, la gente va solo appresso al pallone e alle bollette. Due anni fa me ne sono andato a combattere a Londra, così ho imparato pure l’inglese. Non voglio diventare ricco o importante. È che non voglio dipendere dai genitori come tanti fino a 30 anni, mio padre non vive con me, mia mamma è casalinga. Quando mi hanno chiamato al provino, ho pensato a una truffa. Avevo fatto delle foto tre anni fa. Mia mamma ha detto: se non si paga, ci puoi andare”.
Sono ragazzi sui quali si è molto interrogato Carlo Degli Esposti, fondatore di Palomar, che produce il film con Vision Distribution, in collaborazione con Sky e Timvision. “Mi sono accostato alla lavorazione con la preoccupazione di non far danni. Non sarei andato a dormire tranquillo sapendo che avrei esposto dei ragazzi a pericoli, tentazioni, al rischio di emulazioni. Volevo essere certo che gli fosse chiara la differenza fra realtà e finzione, che fossero consapevoli della differenza fra la pistola finta che gli mettevamo fra le mani e una vera. Ci siamo rivolti a degli psicologi e ho voluto che per tutto il periodo vigilasse la figura di Cesare Moreno”. Moreno ha 72 anni ed è un maestro elementare coi sandali ai piedi in segno di protesta, tra i fondatori del progetto Chance per il recupero dei dispersi della scuola media, presidente della onlus Maestri di Strada che nell’ex triangolo rosso orientale (Barra, San Giovanni a Teduccio, Ponticelli) si dedica a 500 ragazzi. “Già m’immagino le discussioni, la lotta tra due immagini di Napoli, fra chi nega che tutta la città sia così e chi invoca l’anagrafe dei ragazzi a rischio. La verità è che la maggioranza dei quindicenni è sana, i pagliacci sono gli adulti. I ragazzi del film mi piacerebbe ingaggiarli. Dico come educatori. Vorrei portarli nelle scuole a parlare della loro esperienza. In quella frequentata da Pasquale a Scampia, ci sono classi con 8 alunni presenti su 25 iscritti. Sono ragazzi rassegnati, convinti di non avere un’alternativa. Purtroppo nella scuola italiana parlano solo i professori. Il dialogo fra ragazzi è sottovalutato. Invece questo film è un’occasione. Racconta belle storie personali dietro una vicenda triste”.
La scuola, eccola. “Avevano offerto un ruolo pure a un altro ragazzo del rione mio - racconta Francesco - ma il preside s’è opposto, non gli ha dato il permesso per saltare le lezioni dicendo che era una testa calda. Secondo me glielo doveva dare proprio per quello. Un set insegna disciplina, educazione, aiuta a crescere. Io la scuola l’ho lasciata, ma quando ancora ci andavo, la professoressa di francese mi ripeteva: tu non combinerai niente di buono nella vita. Lo diceva perché in classe non mi vedeva mai, stavo sempre in bagno. Ecco, io adesso spero solo una cosa. Che sua figlia venga al cinema a guardare il film e quando torna a casa le dica che sono stato bravo”.
Con i soldi del film hanno aiutato le famiglie. “Il Progetto Chance” ricorda Moreno “insegna che con i primi guadagni si fa un regalo alle madri”. Francesco le ha comprato una cucina nuova, a casa sono disoccupati, “ un motorino per me e ho fatto un viaggio ad Amsterdam”. Pasquale ha lasciato tutto ai suoi, Ar Tem ha tenuto per sé un telefono e un paio di scarpe. Ora confessa che per lui “non c’è niente che vale più del piacere di vedere l’orgoglio dentro gli occhi di mia mamma. Non è una pistola in mano che ti rende forte. Si è forti dentro”. Francesco dice che al Rione Traiano “di ragazzi caduti nel fosso ne conosce. Tutti quelli che entrano nel giro se ne pentono, tutti, ma lo capiscono quando non possono uscirne, quando fuori dalla galera scoprono che gli viene offerto al massimo un lavoro da 100 euro a settimana e non gli basta più. Sai quanti ne conosco? Uff. Che ci fanno più, dopo, con 100 euro a settimana? A me questo film mi è venuto a prendere dentro a un buco. Se è successo a me, può capitare a tutti. Ho dovuto passare otto provini. Sono timido. Il laboratorio mi pareva una scemenza. Mi dicevano: fai la forma di un vaso con il corpo. Ridevo. Poi quando lo fanno in dieci, tutti insieme, capisci che la cosa è meno stupida di quanto sembri. Un giorno mi hanno fatto salire in piedi su un tavolo e ho dovuto gridare: io sono Zeuuuus. Sono sceso e la vergogna è scomparsa dalla vita mia. Non ne ho avuta neppure a svestirmi, a recitare nudo, a baciare una ragazza che non conoscevo. Forse più lei ne doveva avere, Viviana, ma ci hanno allenato un poco alla volta a trovare confidenza fra di noi”.
Finché è comparsa la pistola. Giovannesi ha girato alla Ken Loach, in sequenza cronologica, le scene dall’inizio alla fine, così che i ragazzi seguissero le emozioni dei personaggi e della storia. L’effetto che fa un’arma? Vederla, prenderla, puntarla. Gli psicologi ci hanno lavorato. “La pistola - dice Francesco - m’ha fatto paura solo una volta, quando in una scena ho sparato a un altro attore da due metri, la stanza era piccola, il rumore fortissimo, un rimbombo enorme, e a quello gli è uscito il sangue finto da un buco fatto dentro la maglietta. Mi ha fatto più impressione scoprire cose di me che non conoscevo, che riesco a piangere per finta, non credevo di saperlo fare, fermarsi un attimo, pensarci, sentire le lacrime che escono. Quando mia madre andrà al cinema, si alzerà in piedi per gridare che quello è figlio suo. Lo farà sentire a tutto il mondo. Ora mi devo mettere a studiare, prendere lezioni di dizione, non potrò interpretare sempre il ragazzo napoletano”. Del resto aveva 18 anni pure quel figlio del popolo come lui che negli anni 60, al quartiere Santa Lucia, consegnava i caffè, si chiamava Gianni Calone e sarebbe diventato Massimo Ranieri, lavorando con Bolognini e Strehler, recitando Shakespeare. Forse allora bisognerebbe riprendersi certe parole, portarle via al monopolio della camorra, ripulirne il senso, forse bisognerebbe poter chiamare questi ragazzi che si ribellano a una sorte: la paranza giusta. “Al cinema ci vado, mi piacciono le commedie dei comici italiani e mi è piaciuta La casa di carta. Mo’ che ho fatto l’attore, penso che il ruolo di Berlino è il più bello. È ’nu pazzo. Sarebbe un bel film pure la vita mia, la vita nostra. O no?”.
(Il Venerdì, 1 febbraio 2019)
1 commento:
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