martedì 27 ottobre 2015

Lo sport di Sancho Panza

sanchodore

QUANDO Jason Lezak si lanciò in acqua dal blocco di partenza del Water Cube di Pechino, si mise a nuotare per una medaglia e per un record. La medaglia era sua, il record era di un altro. A Michael Phelps mancava soltanto l'oro in quella staffetta 4x100 mista, sarebbe stato l'ottavo dei Giochi, per aggiornare l'impresa fatta nel ‘72 da Spitz. Ma Phelps era ormai solo spettatore del suo progetto: dopo aver nuotato la frazione a farfalla, non era più in grado di muovere un muscolo per concludere l'opera. Non restava che affidarsi a Lezak, figlio di una maestra di scienze alle scuole elementari e di un venditore di pelletteria della California.

mercoledì 21 ottobre 2015

Splendori e miserie del calcio d'angolo

gomezangoloSono gol come questi che mostrano l’ingiustizia su cui si regge il mondo. Ci si accapiglia ogni domenica per un tocco di mani in area. Discussioni, polemiche, replay: la volontarietà trattata come una faccenda seria. Poi arriva un pallone improbabile da uno spigolo di campo, nulla più di un desiderio scaraventato in mezzo, una specie di stella cadente che si infila in porta, e nessun custode dei regolamenti che si preoccupi di stabilire se era davvero lì che il piede voleva mandarlo. Non è previsto. Al Papu Gomez e a quelli prima di lui mica si va a chiedere se si trattava di un tiro o di un cross al centro.
Meglio di tutti pose la questione Eduardo Galeano, quando raccontò in “Splendori e miserie del gioco del calcio” che il primo a segnare dall’angolo era stato una mezzala sinistra argentina, Cesáreo Onzari, rovinando così l’amichevole con cui l’Uruguay voleva festeggiare la medaglia d’oro ai Giochi del ‘24. Per questo in Sudamerica il gesto lo chiamano ancora “gol olimpico”. «Onzari passò tutto il resto della sua vita a giurare che non era stata casualità. E anche se ormai sono passati molti anni, la sfiducia continua: ogni volta che un calcio d’angolo s’infila in rete senza intermediari, il pubblico celebra il gol con un’ovazione, ma non ci crede».

martedì 20 ottobre 2015

Bonhof e il Borussia prima del Borussia

Rainer Bonhof in maglia bianca contro il Liverpool

C'ERA un Borussia prima che arrivasse il Borussia. Oppure, come dice Rainer Bonhof, di Borussia ieri e oggi, ce n'è sempre stato uno: «Noi». Mentre a Dortmund erano in B, un puntino sulla carta geografica della Germania diventava famoso a metà anni Settanta per il suo calcio, bello e di successo. L'Europa imparò la pronunzia di Mönchengladbach solo per poter dire contro chi perdeva: 5 campionati su 8 soffiati al Bayern del ciclo d'oro, più una Coppa Uefa e una finale di Coppa Campioni. Mercoledì ritrova la Juve, come nel ‘75, dopo una lunga discesa all'inferno: il terzo posto della scorsa Bundesliga è il miglior piazzamento dal 1987. Rainer Bonhof, uno dei leader di quella squadra, campione del mondo nel ‘74, oggi è vicepresidente.
Cosa hanno in comune l'esperienza degli anni Settanta e la squadra di oggi?
«Il nome, credo, e basta. Il calcio è cambiato. Sono saltate abitudini, costumi, gerarchie. I diritti tv hanno modificato il quadro in cui il Borussia era una potenza. Non dico che sia impossibile ripetersi, infatti il club si sta attrezzando, ma quei presupposti sono stati stravolti».

I 70 anni di Benetti in 70 cose essenziali

romeo


Settanta cose essenziali su Romeo Benetti, che oggi compie 70 anni.

1) Benetti è nato ad Albaredo d'Adige (Verona) ed era l'ultimo di otto fratelli. Un parto gemellare. A lui venne dato il nome di Romeo, a sua sorella quello di Giulietta.
2) Da ragazzo Benetti rimase in collegio a Venezia fra gli 8 e i 16 anni.
3) E' stato per vent'anni docente ai corsi per allenatori a Coverciano.
4) Antonio Conte e Massimiliano Allegri sono stati suoi allievi.

sabato 17 ottobre 2015

Vuoto a vincere

Flavia Pennetta è stata l'ultima. Vinci, festeggi, ti guardi dentro, e scopri che dentro non c'è niente più. Tutto finito. All'improvviso. Che cosa succede nella testa di un campione nel momento in cui tocca la gloria? La gioia evapora, irrompe la paura. Presi dall'epica romantica di raccontare la malinconia dei perdenti, abbiamo ignorato che esistesse anche una tristezza da successo, un punto di rottura dentro il percorso fatto per arrivare fin lì. "Vuoto a vincere" (Absolutely Free editore, 162 pagine, 13 euro) è una bella indagine in questo stato d'animo. L'hanno condotta Giorgio Burreddu e Alessandra Giardini, due giornalisti, accanto allo psicologo Fabio Cola. Dieci campioni italiani del passato hanno accettato di mettere in pubblico i loro fantasmi, il loro momento di maggiore fragilità, l'istante in cui hanno capito che, dopo, tutto sarebbe stato diverso, che più nulla ci sarebbe stato di altrettanto pieno. Ed è sorprendente cogliere nelle loro testimonianze un insospettabile punto in comune. La colonna sonora dell'angoscia è l'inno di Mameli. Sul podio, in quel momento lì, con la medaglia al collo, si diventa cupi. «È lì che hai il tempo di capire che tutto quello che avevi creato, per cui hai lottato e ti sei sacrificato, di colpo non c'è più. È una tristezza infinita», racconta Andrea Lucchetta, pallavolista.

La lettera a Beppe Viola di sua figlia Marina

bepCarissimo papà, mi emoziono anche solo a scriverle, queste due parole. E’ pazzesco che dopo tutti questi anni io non sappia nemmeno da dove cominciare. C’è troppo da dire, eppure tutto sembra assolutamente irrilevante. Forse potrei iniziare spiegandoti come sono arrivata a pensare di interpellarti. So che sto scrivendo a te che non ci sei, e che non leggerai queste parole, ma cerchiamo tutti e due di essere un po’ elastici, altrimenti chiudiamo baracca e burattini e ciao. Sono trent’anni che ti cerco, due che scrivo di quello che mi hai lasciato dentro per tentare di capire cosa volesse dire avere un papà come te. Cosa volesse dire semplicemente avere un papà, che per me sarebbe già un grosso passo avanti.
Certo, hai complicato molto la mia ricerca perché, quando sei morto, sei diventato questa figura immensa per chi ha apprezzato il tuo lavoro: quello che hai fatto è diventato spunto per la generazione dopo la tua. Hai creato un modo di fare televisione e di scrivere che definisce uno stile ambito da tanti e azzeccato da pochi. Lo si diceva già allora che eri avanti di vent’anni, e si è dimostrato vero. Chi l’avrebbe mai immaginato?

Non ci sono domande che non si possono fare

Armstrong in casa sua
Armstrong in casa sua
Come ha potuto un uomo ammalarsi di cancro, guarire e diventare il ciclista più forte, il più grande di sempre al Tour de France vincendone addirittura sette. Come ha fatto a essere santo per il proprio sostegno alla ricerca contro i tumori e allo stesso tempo peccatore, lui che il sostegno per sé lo succhiava dalla chimica, sparandosi in vena prodotti sofisticati per cambiare il fisico, stravolgere la natura e andare più forte degli altri. Questa è la storia di una favola sintetica, di una bugia a cui era bello credere e dei suoi frantumi: la trasformazione di Lance Armstrong da icona a diavolo. Sembrava seta ed era viscosa. "The Program", regia di Stephen Frears, racconta gli anni del dominio del texano sulle strade di Francia e delle sue pratiche proibite, il suo piano di elusione dei controlli, l'impasto di protervia opportunismo e complicità grazie al quale poteva affermare: "Sono pulito, non sono mai stato trovato positivo all'antidoping".

giovedì 15 ottobre 2015

Com'era il futuro di Ritorno al futuro

Quando nei giorni di Natale del 1989 entrammo al cinema per il seguito di Ritorno al futuro - all'epoca non si diceva ancora sequel, non mi pare - ci trovammo davanti agli occhi l'idea che avevamo dei nostri giorni a venire. Pareva finanche credibile quella visione, ma come diceva il dottor Brown "nessuno dovrebbe sapere molto del futuro", e infatti a riguardare adesso il film noi niente sapevamo. Il 21 ottobre del 2015, giorno in cui Doc e Marty Mc Fly ci piombano addosso dal passato a bordo di una DeLorean trasformata con un generatore di fusione, è ormai arrivato.

sabato 10 ottobre 2015

L'universalità del ciclismo

sagaSulla sua pagina facebook, la Tinkoff Saxo ha pubblicato questa foto. Sagan con la maglia iridata a dorso di un cammello, dall'Abu Dhabi Tour. E' la foto definitiva dell'universalità del ciclismo, da tempo in marcia, ma definitivamente raggiunta a Richmond, due settimane fa con la vittoria al Mondiale dello slovacco.
La Slovacchia di Sagan è l'ottavo Paese diverso a vincere la maglia iridata negli ultimi otto anni, dopo Polonia Portogallo Belgio, Gran Bretagna, Norvegia Australia e Italia. Nella storia del ciclismo non era mai successo. Non solo: per cinque di questi otto Paesi è stata la prima volta. Tra i primi venti a Richmond si sono piazzati corridori di quattro continenti differenti: europei a parte, due australiani, un giapponese e due statunitensi.

mercoledì 7 ottobre 2015

Questo lo avrei segnato anch'io

correasamaHo provato, ho fallito. Non importa, riproverò. Fallirò meglio (Samuel Beckett)

Larghezza della porta: sette metri e trentadue. Altezza: due metri e quarantaquattro. Specchio: quasi diciotto metri quadrati. Peso del pallone: quattrocento grammi circa. Lo hanno prodotto in pelle sintetica saldata a caldo proprio per valorizzare il tocco, la camera d’aria è in lattice e fibra di carbonio, i colori sono accesi per favorire il colpo d’occhio. Distanza dalla linea: due metri e mezzo al massimo. Possibilità di sbagliare: nessuna. E invece patatrac. Il pallone esce. Sulla testa di Carlos Joaquín Correa, ventuno anni, ragazzo pagato dalla Samp 10 milioni di dollari perché forse è il nuovo Verón o forse il nuovo Pastore, fiorisce un fumetto addolorato: “Come ho fatto?”. Mentre sulla testa di quelli che guardano, allo stadio e in tv, ne spunta un altro più trucido: “Questo l’avrei segnato anch’io”. Dove anch’io significa: io che non so giocare. I mancini aggiungono per ulteriore sfregio che lo avrebbero fatto di destro, i destrorsi col sinistro, mentre proprio Correa che calcia con tutt’e due i piedi l’ha mandata laggiù, a porta vuota, che poveraccio. Beati quelli che sbagliano, perché ci fanno sentire migliori.

domenica 4 ottobre 2015

Valdano, l'ultimo hombre vertical

valda1

El Hombre vertical è in Spagna una persona assai vicina al nostro uomo tutto d'un pezzo. L'uomo con la schiena dritta. E però. El Hombre vertical della lingua spagnola sarebbe a dire il vero qualcosa in più. Non è solo chi sostiene le sue opinioni senza curarsi di compromessi, non è semplicemente un uomo incorruttibile, libero, ma un uomo talmente libero da riuscire a essere severo con gli amici, se occorre, quando occorre. Quando nel calcio si parla di Hombre vertical viene in mente prima di tutti Luis César Menotti. Lo stesso soprannome diedero poi a Héctor Cúper. Il ceppo italiano è nella triade Zoff-Scirea-Riva. Ma l'uomo più verticale di tutti nel calcio, l'ultimo rimasto, si chiama Jorge Valdano, che infatti adesso il calcio guarda da lontano. Come un filosofo. Da filosofo.

giovedì 1 ottobre 2015

E poi arrivarono i Simply Red

Anche lady Diana era schierata insieme a falangi di ragazzine dalla parte dei Duran Duran. Un po' a sorpresa ci parve allora, non tanto per i suoi vent'anni, perché vent'anni aveva, quanto perché sull'altra sponda - almeno qui in Italia - stavano gli Spandau Ballet, loro sì più aristocratici, almeno così si diceva. Non voglio dire che fosse una guerra civile, ma insomma le due fazioni si odiavano, mi pare di capire come oggi le Directioner e le Belieber. D'altra parte la fan non è fan se non si sente perseguitata per via della sua fede. Clizia Gurrado aveva sedici anni, era figlia di un giornalista, liceale al Berchet di Milano, e fece il botto con un libro intitolato "Sposerò Simon Le Bon". Le Bon era il leader dei Duran. Il primo successo in libreria di una teenager. Ci fecero anche il film. Roger Taylor, che della band era il batterista, si era invece sposato per davvero, nella chiesa del Buon Consiglio di Capodimonte, a Napoli, sua moglie si chiamava Giovanna Cantone. Gli Spandau rispondevano con singoli che potevano durare anche sei minuti. Il Festival di Pippo Baudo, anno 1985, fece il colpaccio. Ingaggiò tutt'e due le band come super ospiti (vennero anche Sade e Gino Vannelli, ma vabbè) anche se poi vincevano i Ricchi e Poveri. Le Bon si presentò sul palco con un piede ingessato. Fu il delirio quell'anno a Sanremo.
E poi arrivarono i Simply Red.