sabato 10 ottobre 2015

L'universalità del ciclismo

sagaSulla sua pagina facebook, la Tinkoff Saxo ha pubblicato questa foto. Sagan con la maglia iridata a dorso di un cammello, dall'Abu Dhabi Tour. E' la foto definitiva dell'universalità del ciclismo, da tempo in marcia, ma definitivamente raggiunta a Richmond, due settimane fa con la vittoria al Mondiale dello slovacco.
La Slovacchia di Sagan è l'ottavo Paese diverso a vincere la maglia iridata negli ultimi otto anni, dopo Polonia Portogallo Belgio, Gran Bretagna, Norvegia Australia e Italia. Nella storia del ciclismo non era mai successo. Non solo: per cinque di questi otto Paesi è stata la prima volta. Tra i primi venti a Richmond si sono piazzati corridori di quattro continenti differenti: europei a parte, due australiani, un giapponese e due statunitensi.
Solo vent'anni fa, tra i primi dieci arrivarono tutti europei con l'eccezione del colombiano Rincon, che correva sulle salite di casa, Duitama, 1995, il Mondiale vinto da Olano con la ruota posteriore bucata. L'ecumenismo della bicicletta ha avuto un'accelerazione negli ultimi anni di molto superiore a ogni altro strappo che s'era concesso in precedenza. Il circolo classico Belgio-Italia-Francia-Olanda (72 vittorie nei primi 80 Tour della storia) s'è spezzato per sempre. Gli albi d'oro per esempio raccontano che un francese non vince il Mondiale dal '97, un olandese dal 1985. I belgi aspettano di rivincere un Tour dal Van Impe del '76 e un Giro dal De Muynck del '78; la Francia da Hinault '85 e Fignon '89; gli olandesi aspettano il Tour da Zoetemelk '80. Una vita. Il massimo dell'eccezione nel ciclismo dell'età classica arrivava da uno svizzero (Kübler, Koblet) o da un lussemburghese (Frantz, Gaul). I confini del ciclismo sono mutati. Forse si dovrebbe dire che non ce ne sono più. Si corre ovunque. A luglio scorso, l'etiope Daniel Teklehaimanot è stato il primo africano nella storia a indossare la maglia a pois, simbolo del miglior scalatore al Tour.

pois
Daniel Teklehaimanot
Non è finita. L'anno prossimo i Mondiali si terranno in Qatar, nel terzo continente diverso in tre anni: anche questo non era mai successo lungo il cammino di uno sport che finora ha fatto disputare la sua corsa di un giorno più prestigiosa fuori dall'Europa solo otto volte in 94 anni. Mercoledì sera, all'inaugurazione di Overtime festival, il marchigiano Scarponi raccontava come sia cambiata la vita in gruppo. "Ci sono meno squadre italiane, se non conosci l'inglese rimani isolato". L'inglese, diceva, non il francese: che pure sarebbe la lingua ufficiale del ciclismo. Scarponi ne parlava per raccontare come questo influenzi la vita collettiva ("Non ci sono più corse in cui puoi decidere che per la prima ora, la prima ora e mezza si va piano tutti insieme") e come ai suoi occhi certe abitudini stravolte abbiano finito per consumare una certa vena di romanticismo. "Non dico che è meglio o che è peggio, dico che è diverso". Ed è curioso notare come tutto questo avvenga proprio quando il ciclismo mondiale ha licenziato l'esperienza Armstrong, figura a cui più di ogni altra aveva invece consegnato la missione di spalancare le proprie porte. Sulle spalle di Lance l'americano, il ciclismo aveva messo la maglia gialla e il ruolo di messaggero della bici verso mondi nuovi. E l'America, tra i mondi nuovi, era il massimo. Nei giorni del Mondiale a Richmond, Stati Uniti, proprio la terra di Armstrong, il suo nome sui giornali americani c'è stato invece di sfuggita, in modo clandestino: il Washington Post lo ha ricordato al massimo come una "tarnished icon", un'icona appannata. E basta. Ora che un film riepiloga la sua vicenda personale ("The Program"), il ciclismo attraversa i suoi vecchi confini in un modo diverso. Paradossalmente più di prima. Con uno slovacco a dorso di un cammello.

Nessun commento: