Flavia Pennetta è stata l'ultima. Vinci, festeggi, ti guardi dentro, e scopri che dentro non c'è niente più. Tutto finito. All'improvviso. Che cosa succede nella testa di un campione nel momento in cui tocca la gloria? La gioia evapora, irrompe la paura. Presi dall'epica romantica di raccontare la malinconia dei perdenti, abbiamo ignorato che esistesse anche una tristezza da successo, un punto di rottura dentro il percorso fatto per arrivare fin lì. "Vuoto a vincere" (Absolutely Free editore, 162 pagine, 13 euro) è una bella indagine in questo stato d'animo. L'hanno condotta Giorgio Burreddu e Alessandra Giardini, due giornalisti, accanto allo psicologo Fabio Cola. Dieci campioni italiani del passato hanno accettato di mettere in pubblico i loro fantasmi, il loro momento di maggiore fragilità, l'istante in cui hanno capito che, dopo, tutto sarebbe stato diverso, che più nulla ci sarebbe stato di altrettanto pieno. Ed è sorprendente cogliere nelle loro testimonianze un insospettabile punto in comune. La colonna sonora dell'angoscia è l'inno di Mameli. Sul podio, in quel momento lì, con la medaglia al collo, si diventa cupi. «È lì che hai il tempo di capire che tutto quello che avevi creato, per cui hai lottato e ti sei sacrificato, di colpo non c'è più. È una tristezza infinita», racconta Andrea Lucchetta, pallavolista.
Ne parlano Benvenuti, Cabrini, Chechi, Dorio, Fioravanti, Antonio Rossi, Sensini, Trillini. Mentre Panatta la felicità pura l'ha quasi cronometrata: dura dieci secondi. E l'immortalità? Dice lui che non esiste, «al Roland Garros ci sono le lapidi. Magari fra trent'anni la gente passerà di lì e dirà: oh, Panatta. Sai chi se ne frega, il giorno che arriverà lo stronzo che giocherà meglio di me, Panatta non se lo ricorderà più nessuno». Quasi quasi conviene perdere.
(la Repubblica, 16 ottobre 2015)
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