Carissimo papà,
mi emoziono anche solo a scriverle, queste due parole. E’ pazzesco che dopo tutti questi anni io non sappia nemmeno da dove cominciare. C’è troppo da dire, eppure tutto sembra assolutamente irrilevante. Forse potrei iniziare spiegandoti come sono arrivata a pensare di interpellarti.
So che sto scrivendo a te che non ci sei, e che non leggerai queste parole, ma cerchiamo tutti e due di essere un po’ elastici, altrimenti chiudiamo baracca e burattini e ciao. Sono trent’anni che ti cerco, due che scrivo di quello che mi hai lasciato dentro per tentare di capire cosa volesse dire avere un papà come te. Cosa volesse dire semplicemente avere un papà, che per me sarebbe già un grosso passo avanti.
Certo, hai complicato molto la mia ricerca perché, quando sei morto, sei diventato questa figura immensa per chi ha apprezzato il tuo lavoro: quello che hai fatto è diventato spunto per la generazione dopo la tua. Hai creato un modo di fare televisione e di scrivere che definisce uno stile ambito da tanti e azzeccato da pochi. Lo si diceva già allora che eri avanti di vent’anni, e si è dimostrato vero. Chi l’avrebbe mai immaginato?
Tu che non hai mai fatto pesare questo tuo lavoro ingombrante, che lo hai celebrato talmente poco quando ero piccola che non mi ricordavo mai se tu fossi giornalista o giornalaio. Tu che con quel poco di popolarità ci giocavi, scrivendo nei libri dei ricordi delle pizzerie: “Questa pizza fa schifo”. Tu che quando ti si chiedeva se eri Beppi Viola dicevi di no perché un po’ ti imbarazzava.
Sei diventato famoso. Bello, emozionante e anche terrorizzante per noi cinque (ci metto dentro anche la mamma) che avremmo voluto compiangere un papà (e un marito), e che invece ci siamo ritrovate a enfatizzare, attraverso il tuo non esserci più, la tua bravura e il tuo genio.
Siamo da un giorno all’altro diventate le “figlie di Beppe Viola”, come se il tuo successo fosse merito anche nostro, come se avessimo partecipato anche noi. E ci siamo cascate tutte e quattro in questa trappola, perché in fondo così potevamo tenerti con noi e allontanare il momento, questo, in cui avremmo dovuto dirti: Vai, muori, come si dice a una persona normale, con tutti gli annessi e i connessi di dolore e solitudine.
Questo tuo essere Beppe Viola ha nel tempo offuscato i miei ricordi di te come papà, confondendo un momento di coccole con una battuta da dover condividere con gli altri. Anche se, mi dico, è normale, dopo trent’anni, non ricordarsi tante cose. Si dice che una persona rimane in vita attraverso chi la ricorda, e io mi rendo conto di dimenticare tanto, quindi significa che ti sto lasciando andare. Mi fa un po’ paura: vorrei che il mio cervello riuscisse a mantenere vivo il tuo modo di muovere le mani, di scoppiare a ridere, di accenderti una sigaretta, di alzarti da tavola, di abbracciarmi.
Per anni ti ho addirittura sentito come una presenza ingombrante, e ho cercato disperatamente di liberarmi di te, del mio ruolo di figlia. Andandomene di casa speravo di trovare la vera Marina, e non una persona che dovesse sempre fare riferimento a te.
Ricordo il momento esatto in cui ho deciso di dare un taglio a tutta questa vita passata all’ombra di Beppe Viola: fu qualche anno dopo aver trascorso un po’ di tempo a casa dell’amica inglese della mamma, Victoria, negli Stati Uniti. Chiamò casa nostra per sapere se una di noi fosse interessata a passare un anno da lei. All’epoca – avrei fatto la maturità di lì a tre mesi – avevo un fidanzato che amavo alla follia ma che non mi chiamava mai, e quando squillò il telefono mi fiondai sperando fosse lui. Invece era Victoria. Mi spiegò il motivo della sua chiamata e io dissi: “Vengo io”.
Da Linate presi l’aereo che arrivava a Boston passando per Lisbona. All’aeroporto mi accompagnarono il fidanzato che non mi amava, che mi diede una lettera da aprire solo a decollo avvenuto, la mamma e le sorelle. Ci salutammo mandando giù magoni imbarazzati e goffamente nascosti, e mi imbarcai.
Non appena l’aereo imboccò la pista per il decollo, tirai fuori dalla borsa il registratore Sony che mi avevi comprato tu qualche anno prima, la cassetta di Lucio Dalla con l’etichetta rossa che tenevi in macchina e le cuffie. Sulle note di Cara lessi la lettera, che ovviamente parlava d’amore, la rimisi in tasca e non mi guardai più indietro. Questa sarebbe stata un’avventura tutta mia. Tu, il fidanzato, le sorelle e le mamma eravate rimasti a Linate. Durante quell’anno conobbi un sacco di persone, tutte diverse dal mio mondo. Tenni sempre le antenne ben dritte, per riuscire a captare una realtà tanto lontana dalla mia, in tutti i sensi. Entrai curiosa e prepotente in un mondo fatto di campi di mais, di birra in lattina bevuta come se fosse Coca-Cola, di musica sparata a volume alto, di ventenni che vivevano da soli senza alcun interesse per l’igiene. Una vita da film americano di provincia, dove ero finalmente anonima: l’esatto opposto della Milano che conoscevo io.
Durante quell’anno conobbi Dan, che è una specie di principe azzurro, ma molto meno pirla: non solo era di una bellezza mozzafiato, ma leggeva Borges, guardava soltanto film neorealisti, parlava italiano con l’accento senese e si vestiva con la giacca di pelle nera un po’ sgualcita. Fu un amore lacerante. Tornai a Milano, ma ero già lontana anni luce da Beppe Viola, da quel mondo che avevo fatto tanta fatica a lasciare.
Insomma, non la sto a far lunga. Dico solo che qualche anno più tardi, dopo che era stato Dan a trasferirsi a Milano per un anno, ed era arrivato per lui il momento di tornare in America, chiamai la mamma, che (non so se lo sai) lavorava in Rai. Erano le sei e mezzo, lei stava per uscire dall’ufficio. Presi il telefono della cucina e me lo portai in corridoio. Mi sedetti sul parquet nuovo, e mi venne fuori una frase che nemmeno io mi aspettavo: “Mamma, vado a vivere in America con Dan”.
Giuro che non avevo telefonato pensando: Adesso glielo dico. Non avevo neanche chiesto a Dan se gli andava bene che mi intrufolassi cos’ prepotentemente nella sua vita. Non avevo soldi, progetti, visto, obiettivi. Quella telefonata segnò il momento in cui decisi di darci un taglio. La mamma disse: “Sto uscendo, ne parliamo a casa”, sperando di prendere tempo. A casa, poi, non fece una piega. Disse: “Se vuoi andare vai. Sappi che io sono qui”. Una donna di una forza sovrumana, tua moglie.
Sono ancora qui, negli Stati Uniti, ventitré anni dopo. So che hai fatto di tutto per imparare l’inglese, ma che non ci sei mai riuscito. Adesso, per farti invidia, te lo dico: lo parlo perfettamente, e i tuoi tre nipoti masticano a malapena l’italiano.
Non è sempre stato facile, in questi anni, essere lontano da te e dal resto della famiglia. A Luca, il tuo nipote maggiore, fu diagnosticata una rara forma di sindrome di Down, e venne operato tre volte prima di compiere i tre anni, periodo in cui gli venne diagnosticato anche l’autismo. Una persona diversa, molto, da chi mi aspettavo. Sono stati momenti difficili, ritmati da solitudini e da puro terrore. Chissà come avresti reagito al mio dolore, al mio sforzo di accettare una realtà tanto differente rispetto a quella degli altri genitori. E chissà come avresti reagito a un suo sorriso, una sua carezza, un suo piccolo successo, raggiunto faticosamente dopo ore e ore di terapie.
Poi col tempo sei riaffiorato con il tuo passo sicuro, con quel tuo modo di arrivare e riempire la stanza di te. “Ah sì?” ti ho detto guardandoti negli occhi. “Non vuoi andartene? Vieni, allora, viene a vedere cosa hai combinato”.
Da te ho ereditato molte cose, dettate dal nostro essere padre e figlia, colesterolo e pressione alta a parte. Vengono fuori per esempio nel mio modo di essere mamma: non sono per niente ansiosa, riempio i ragazzi di bacio schioccanti, li vizio, insegno loro le parolacce, fumo, non vado alle riunioni scolastiche e aborro i giardinetti, giro nuda per casa incurante delle tette ormai cadenti. Ricordo che, quando facevamo la doccia insieme, dicevi sempre: “Vedete? Questo è il pistolino. Quando il vostro fidanzato vi farà vedere il suo, voi gli direte: ho già visto quello di papà”. Mi ritrovo a mettere in imbarazzo i miei figli allo stesso modo. Dicono i miei amici: “Si vede che voi siete europei”, senza sapere che invece siamo semplicemente Viola, che è un’altra storia.
Sono cose, ho imparato dopo anni, che la distanza o il tempo non riescono a cancellare.
Per completare questa mia ricerca di te, ho chiesto aiuto ai tuoi amici, e ho ascoltato con fierezza e trepidazione i loro racconti: Giorgio Terruzzi, Giovannino Fabbri, Bruno Pizzul, Giuliano Pasqualetto per citarne qualcuno. Anche loro, come me, hanno custodito gelosamente il ricordo che hanno di te, e si sono costruiti negli anni il loro amico mettendo insieme i pezzi di puzzle che hai lasciato in giro, alla Rai, a Magazine, dal Gattullo, a San Siro.
Giovannino Fabbri ha riassunto in poche parole quello che la vostra amicizia gli ha lasciato: un senso di appartenenza a un club di persone selezionate da te, e dunque “bella gente”, con sensibilità particolari, aperture mentali, fantasia, intelligenza di un certo tipo. Mi ha raccontato che, quando incontra qualcuno che è stato tuo amico, se lo sente subito vicino, come se tutti e due facessero parte della stessa squadra. Credo che abbia riassunto perfettamente quello che provano un po’ tutti. Ma, lo ammetto, malgrado l’aiuto dei tuoi amici e di chi è stato disposto a darmi una mano a finire il puzzle, faccio una gran fatica a completare l’immagine di te, a farti uscire dal foglio per vederti camminare tra le pagine. Mi sembra sempre che manchi qualcosa, avverto una sorta di incompletezza di fondo. Come si fa a spiegare i momenti intimi che si hanno con un genitore? Come potrei mai riuscire a condividere le emozioni, la tenerezza, e anche le delusioni e le arrabbiature tipiche di una vita insieme? Sembrano alla fine le parti più effimere e più scontate di un rapporto, eppure il segreto forse sta proprio in quei gesti. Sento di essere arrivata alla fine della mia ricerca. La voglio lasciare così, con l’immagine di me seduta sulle tue ginocchia nella poltrona rossa della sala.
Prima di salutarti, papà, voglio ringraziarti, perché mettendo insieme questi pezzi sono riuscita a cogliere delle grandi lezioni di vita.
Ti ringrazio per avermi insegnato a prendere il lavoro seriamente, e la vita come fosse un gioco; per avermi fatto capire l’importanza dell’umiltà e della generosità, dell’autoironia, dell’impulsività, del saper osservare e del rischio.
Ti ringrazio per essere stato un grande esempio, un buon amico, una persona onesta.
Ti ringrazio per avermi voluto bene come solo un papà può fare. Hai lasciato dentro di me un baratro di tristezza e solitudine, ma anche una fierezza che conservo gelosamente, malgrado l’affievolirsi dei ricordi.
Ciao, papà. Vado se no finisce che mi commuovo.
La tua piccola e dolce Marina
(Marina Viola, Mio padre è stato anche Beppe Viola, Feltrinelli, 2013)
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