Sono gol come questi che mostrano l’ingiustizia su cui si regge il mondo. Ci si accapiglia ogni domenica per un tocco di mani in area. Discussioni, polemiche, replay: la volontarietà trattata come una faccenda seria. Poi arriva un pallone improbabile da uno spigolo di campo, nulla più di un desiderio scaraventato in mezzo, una specie di stella cadente che si infila in porta, e nessun custode dei regolamenti che si preoccupi di stabilire se era davvero lì che il piede voleva mandarlo. Non è previsto. Al Papu Gomez e a quelli prima di lui mica si va a chiedere se si trattava di un tiro o di un cross al centro.
Meglio di tutti pose la questione Eduardo Galeano, quando raccontò in “Splendori e miserie del gioco del calcio” che il primo a segnare dall’angolo era stato una mezzala sinistra argentina, Cesáreo Onzari, rovinando così l’amichevole con cui l’Uruguay voleva festeggiare la medaglia d’oro ai Giochi del ‘24. Per questo in Sudamerica il gesto lo chiamano ancora “gol olimpico”. «Onzari passò tutto il resto della sua vita a giurare che non era stata casualità. E anche se ormai sono passati molti anni, la sfiducia continua: ogni volta che un calcio d’angolo s’infila in rete senza intermediari, il pubblico celebra il gol con un’ovazione, ma non ci crede».
Una porzione di scetticismo rimane, rimane sempre, perfino dinanzi ai baffi di Massimo Palanca, al quale vengono attribuiti addirittura tredici gol in carriera dalla bandierina del calcio d’angolo. Per Catanzaro, nella seconda metà degli anni Settanta, era O Rei. Come Pelè. Lui raccontava che per segnare dalla periferia del campo «serve l’aiuto di qualche compagno, io avevo Claudio Ranieri che si metteva davanti al portiere e gli impediva di vedere la palla». I ristoranti calabresi servivano “spaghetti alla Palanca” (in effetti erano olive e capperi) e il Napoli spese due miliardi di lire per avere quel piede sinistro, un trentasette. Ogni volta che si avvicinava alla bandierina, il San Paolo invocava ’o pere ‘e Palanca.
Ma dalla bandierina non successe mai niente. Ecco. Sono queste le occasioni in cui i miscredenti riprendono fiato: vuoi vedere che allora a Catanzaro i gol li segnava il vento? È lunga la lista di chi si è esibito nel gol che un avvocato direbbe preterintenzionale. Recoba, Maradona, Baggio, Henry, Mihajlovic, Beckham, non ancora troppo celebrato come il battitore di angoli più pagato nella storia. Il bello del calcio d’angolo sta nella sua capacità di toglierci gli anni di dosso. Prima che fosse la percentuale del possesso palla a far gridare che «la partita l’abbiamo fatta noi», era il numero dei corner - detto così, all’inglese - che si contava per stabilire e recriminare che «avremmo meritato di più». Nelle domeniche di noia e catenaccio, erano già un pericolo. Per conferirgli nobiltà, un anno a un torneo di Viareggio si tentò l’esperimento del corner corto, battuto dalla riga in cui comincia l’area di rigore. Del resto, il buon senso che nell’infanzia guidava le partite in strada imponeva che tre calci d’angolo fossero convertiti in un calcio di rigore. Ma come accade per certe aree del mondo, nessun allenatore ha mai pensato d’investire in quella zona coi suoi schemi. Casomai , la lunetta è il punto del campo in cui ci si rifugia per perdere tempo. È una zona depressa. Perciò quando poi i Papu Gomez segnano da lì, restiamo sempre a fissarci e a farci la stessa domanda. Chissà se voleva davvero tirare.
(da la Repubblica del 20 ottobre 2015)
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