Poco più di ottanta anni fa, quando Dicitencello vuje è stata scritta da pochissimo, quando non sono state ancora composte Munasterio 'e Santa Chiara, non ancora Passione né Tammurriata Nera, non ancora Luna Rossa né Malafemmena, quando Renato Carosone è ancora un pre-adolescente; poco più di ottant'anni fa sui giornali dell'epoca si apre un dibattito. Tema: la canzone napoletana è morta. Chi lo sa perché. Forse perché la Festa di Piedigrotta, attesa per ascoltare le novità della scena musicale, comincia a essere influenzata dalle prime case discografiche, anche se il disco e la sua diffusione non sono ancora un metro di giudizio del successo di un brano. Le cosiddette "audizioni di Piedigrotta" si tengono nei teatri, la radio trasmette le serate. Piedigrotta ha un seguito nazionale. Napoli, dai giornali dell'epoca, viene ancora raccontata in prevalenza con i toni dei viaggiatori del Grand Tour. Lucrino veniva definita "la Viareggio del sud". Fatto sta che il dibattito c'è. Negli anni Trenta, in giro, sono convinti che la canzone napoletana sia morta. A dimostrazione del fatto che spesso, per non dire sempre, l'idea che sia esistito un passato magnifico e migliore del presente è falsa.
Nel tentativo di saperne di più, per capire come mai negli anni Trenta ritenessero che la canzone napoletana fosse in irreversibile declino, mi sono lanciato in qualche ricerca. Qui sotto metto l'articolo che fornisce la spiegazione più singolare. Uscì l'8 novembre del 1932 su "La Stampa della sera". Dice che, insomma, proprio morta la canzone non è. E' cambiata, ecco. E la colpa è delle donne.
***
Ahi, purtroppo dicono che la canzone a Napoli sia morta! Se ne può parlare ora perché Piedigrotta è passata da un po' di tempo e di canzoni quelle che han fatta la loro strada sono già molto lontane; se ne può parlare perché poeti e musicisti hanno rinfoderato i loro brandi corruschi e affilati, e sono più amici di prima. Ma è proprio vero che la canzone a Napoli non esiste più, o che è definitivamente diventata "canzonetta"? Non le diamo colpa, non la accusiamo di un peccato che non ha, perché se il cambiamento è avvenuto non è stato certo per colpa sua. Il fatto vero è che le donne a Napoli non sono più quelle di una volta, precisamente dell'epoca nella quale le canzoni incominciarono a fiorire, e le donne erano rotonde, sode, con i colori della buona salute sul viso, e con la salute avevano quella tale filosofia fatta di virile rassegnazione, di una rassegnazione che non dà in ismanie contro il destino avverso, ma lo accoglie sorridente e si prepara a trovare opportuno rimedio.
"Azzeccose"... Non sapete che cosa significa? Non sapete che gamma di saporose e dolcissime sfumature è in questa parola, che non si traduce in italiano perché se la si traducesse suonerebbe quasi un'offesa: la traduzione letterale sarebbe "appiccicaticce"! Dio ci scansi da simile specie di donne, Dio ci tenga lontani dalle ventose di donne appiccicaticce. Ma una donna napoletana "azzeccosa" era tutt'altra cosa; era la incarnazione perfetta dell'amore sottomesso e prepotente, dell'amore che dava per poter far valere il diritto dì chiedere, tutto moine senza annoiare, profondità di carezze, sollecitudine di ogni cosa che potesse piacerti, umiltà di sentimenti di fronte all'amato, tutta baci, tutta strette, tutta desiderio di protezione con quelle mosse feline e graziose dei gatti quando vogliono il piacere di stropicciarsi contro il tuo petto... Senza "appiccicarsi" però: che quando, appena appena, vedevano che le loro moine, e il loro amore era mal sopportato, o poco poco annoiava, ecco che si facevano prendere dalla loro indomabile superbia, e si affrettavano a darti il benservito, per non avere la umiliazione di averlo loro...
Poi una volta le donne napoletane si chiamavano Nannina, Carmela, Fortunella, Rosina, Teresina... Ora se un padre e una madre ancora dietro alle vecchie idee si son permessi di dare il nome di Nannina ad una figliuola, ecco che la signorina appena va a scuola ripudia il dialettale diminutivo e allunga il suo nome in "Annamaria"... Se siete buoni mettetecelo voi un nome cosi lungo — "Annamaria" — in un verso.e vedete quello che ne esce. Per necessità e per moda il nome nel verso da Nanni' è diventato Niny e tutta la canzone è cambiata. La canzone è diventata canzonetta. Non ridete. E' proprio cosi: perché un cambiamento di nome, specie quando il cambiamento avviene con la aggiunta di qualche ipsilonne, quando diventa dimostrazione di snobismo, vuol dire il capovolgimento di tutta una serie di abitudini, di tutta una educazione. Appena qualche paio di decine di anni indietro Niny era nome esotico che faceva ridere, tanto che la canzonettista un po' maniaca, la canzonettista sfiatata, la canzonettista di basso rango che voleva camuffarsi per esotica al cento per cento aveva un nome buffo "Niny Tirabusciò".
Canzoni se ne fanno ancora però, se ne faranno per un pezzo assai lungo, se ne faranno finché ci sarà uno straccio di carta pentagrammata ed un cultore di musica, ma non saranno quelle di una volta. Il regno della canzone è stato l'Ottocento. Allora si cantava e non si ballava: le donne cantavano come modo di temperare il loro dolore, di esprimere la loro gioia, di dire quello che avevano di incompreso allo stato primordiale di aspirazione nel loro cuore. E poi lavoravano con gioia. Il lavoro della casa, della famiglia, della cucina, e allora cantavano. Allora tutto si faceva in casa: l'estratto di pomodoro per i vermicelli durante l'inverno quando di pomodori freschi non ve ne sono; la sugna che quando è di vero maiale è più buona e saporita del burro; si facevano le marmellate che si chiamavano né più né meno che "conserve di frutta"; si mettevano a seccare al sole i fichi e varie specie di legumi per l'inverno, e, infine, si mettevano con somma cura e molto amore, poiché servivano a prevalenza per gli uomini di casa, le "ceraselle" nello spirito con qualche po' di spezie che desse fragranza e sapore più forti.
Ora perché affaticarsi tanto? Tutto, c'è in scatole, in barattolo, in conserva, in bottiglia, ben tappato e conservato, pronto all'uso, non c'è che da stappare. Anche i vermicelli con le vongole, sono pronti, belli e conditi in iscatola: basta aprire la scatola a tutto è pronto... E allora? Dal canto, poi, dicevamo, slamo passati al ballo: si ballava la polca, la mazurka, il boston, ma ogni tanto una volta, ed andare ad un ballo per una donna era un avvenimento. Si incominciava col pensare alla toletta un mese prima, si compulsavano figurini, sarte e amiche; la gran sera veniva, alla porta aspettava la carrozza fittata per l'Occasione, e si andava come una regina andava ad una gran parata. La fretta, l'ansia, la velocità, il desiderio di godere, di farsi notare, di preponderare, hanno preso tutti, la vita è diventata un'altra, e la canzone è cambiata.
Perché lamentarsi? I ritmi sincopati prendono il posto della frase larga e distesa, il passo è breve e saltellante invece che lungo e strascicato; la canzone diventa come è, e per distinguerla dalla antica gli eterni scontenti la chiamano dispregiativamente "canzonetta". Come una volta — cambiato l'animo ed i tempi — gli scontenti chiamarono dispregiativamente "operetta" quella che non era la grande "opera", l'operetta entrò trionfalmente nel numero delle belle cose di arte, quando trovò chi seppe elevarla a forma e dignità imperiture. Ma non è per questo da cantare l'epicedio all'amore istintivo per la musica che è nei napoletani, ancora vivo, non è per questo da cantare le lodi funebri di quello che fu e dire che non estete più la canzone. Bisogna solamente pensare che ai versi immortali Duorme Cunce' ca 'o cchiù bbello d''a vita è 'o ddurmì non si possono sostituire altri versi che questi: Dormi Niny nella vita è ormir bello inver...
Nessun commento:
Posta un commento