lunedì 29 febbraio 2016

Dove sono i maestri inglesi


E con la Coppa di Lega a Manuel Pellegrini, adesso fanno sette. Sette titoli di fila che il calcio inglese ha consegnato fra le mani di un allenatore straniero. Dopo l’addio di sir Alex Ferguson, nessun britannico è più riuscito a vincere qualcosa. Il virus era in circolo da tempo, Ferguson era un temporaneo anti-corpo negli anni in cui comunque ce la facevano uno spagnolo (Martinez e la Coppa col Wigan), un olandese (Hiddink al Chelsea), un danese (Laudrup con lo Swansea), un portoghese (Mourinho, ancora Chelsea), un francese (Wenger con l’Arsenal) e soprattutto tre italiani (col Chelsea prima Ancelotti e poi Di Matteo, Mancini col City). Accanto a Ferguson, nel passato più recente, altri due scozzesi hanno addolcito con una coppa il dominio di chi è venuto dall’estero: Dalglish a Liverpool e McLeish a Birmingham (entrambi in Coppa di Lega). Ma a parte loro un solo inglese: Redknapp, con il Portsmouth nel 2008. Una catena di nomi che fa riflettere.

sabato 27 febbraio 2016

Gigi D'Alessio, la frittata di maccheroni e la musica di merda

Un giorno mi sono accorto di non essere mai stato a un concerto di Gigi D'Alessio né di aver mai comprato un disco suo. In sostanza, con il mio reddito non ho mai contribuito a incrementare il suo patrimonio.
(A meno che non lo stia facendo in qualche modo adesso, ascoltando le sue canzoni in sottofondo attraverso il mio abbonamento di musica in streaming online)
Ma quel che conta è altro. Non conosco nessuno, della mia cerchia, dico nessuno, che l'abbia fatto, o che si dica disposto a farlo da domani. Se ci pensate, non è una cosa normale. Può capitare fra persone che si conoscono e si dicono amiche di dividersi sul gradimento verso questo o quello. A uno piace Sordi all'altro Manfredi, uno legge DeLillo e l'altro preferisce Carver, chi vedeva Lost e chi vedeva Friends. In queste dicotomie Gigi D'Alessio non c'è mai. E io per molto tempo mi sono chiesto perché.

mercoledì 24 febbraio 2016

Il primo gol iracheno in serie A

QUANDO il 19 ottobre del '57 la nazionale irachena di calcio gioca la prima partita ufficiale della sua storia a Beirut, pareggiando 3-3 con il Marocco, l'Italia ha già vinto due volte i Mondiali e una le Olimpiadi, ha perso una generazione d'oro con il Grande Torino e ha appena visto la Fiorentina di Fulvio Bernardini spingersi in finale di Coppa dei Campioni. Qualche anno ancora e nasceranno il Milan di Rocco e l'Inter di Herrera. Fra i due mondi non c'è confronto. Perciò quando quasi sessant'anni dopo, Ali Adnan Kadhim Al-Tameemi scaraventa di sinistro una punizione dentro la porta alla destra della tribuna di Marassi, Genova, proprio la città che dominò ai tempi dei pionieri, pare quasi che con il primo gol arrivato in Italia da Baghdad la storia voglia suggerirci qualcosa. Che sono cadute tutte le barriere, ma proprio tutte, e non c'è troppo da farsi maestri.

sabato 20 febbraio 2016

La filosofia, lo spogliarello e il Torino. Intervista di Sermonti a Eco sul calcio

Altrove troverete ricordi di Umberto Eco più autorevoli. Qui, nel piccolo spazio calcistico di questo blog, ho trascritto un'intervista da lui rilasciata all'Unità nel 1982, alla vigilia del Mundial che l'Italia avrebbe poi vinto a sorpresa in Spagna. A intervistare Eco sul tema calcio c'era Vittorio Sermonti, in quel momento già autore di tre romanzi, curatore per la radio delle "Interviste impossibili", successivamente poeta e insigne dantista. Dopo il Mundial, Sermonti avrebbe pubblicato un meraviglioso saggio-dossier sul comportamento tenuto dalla stampa italiana in quei giorni: "Dov'è la vittoria" (Bompiani), purtroppo fuori catalogo (si può consultare alla Biblioteca nazionale di Roma). E' questa un'intervista spesso giocata sul registro dell'ironia reciproca. 

Professor Eco, che cosa pensa Ella del Mundial, che come saprà sicuramente...
"Non so nulla".
Si tratta di campionati mondiali di calcio, che si svolgeranno in Ispagna dalla prossima settimana.
"Pur essendomi nella vita occupato di un congruo numero di cose, a salvaguardia del mio equilibrio spirituale mi sono riservato zone di assoluto disinteresse e perfetta ignoranza. Per talune, il mio rifiuto è, diciamo così, intermittente, revocabile. Per altre, stabile, eterno e metafisico".
Mi par di capire che il calcio rientra in quest'ultima sezione.
"Ha capito bene".

venerdì 19 febbraio 2016

I tasti leggeri di Ezio Bosso



BORDIGHERA. L’UOMO che ha stupito il festival è un italiano che gira il mondo in carrozzina e domani dirigerà la Lithuanian Orchestra a Vilnius. Non aveva mai inciso un disco. È arrivato all’Ariston e i telespettatori sono passati da 11 a 13 milioni. Si è svegliato in testa alla classifica di iTunes col suo esordio ( The 12th room), ha acceso il pc e ha trovato 145 mila persone in più iscritte alla sua pagina Facebook. Ezio Bosso dal 2011 fa i conti con una malattia neurodegenerativa che agisce sui neuroni. Mercoledì era all’Ariston, suonava e sorrideva, mentre la violinista dell’orchestra in un angolo piangeva. Seduto ai bordi di una piscina a Bordighera, maglia scura e foulard coloratissimo, la mattina dopo racconta una rivoluzione. Fuma un paio di sigarette. È un uomo sereno. "Forse esiste un bisogno di ascoltare cose meno urlate e più sincere. Forse esiste una necessità di sentirsi meno Superman. Ai miei concerti vengono ragazzi giovani e anziani. Non è vero che la gente non va a sentire Bach e Chopin. C’è qualcuno a cui fa comodo raccontarlo, per paura che i giovani si accostino a certi autori. La musica è un’azione condivisa. Uno come me deve togliere la paura che ne esista di noiosa".

giovedì 18 febbraio 2016

Le sette canzoni che ci sono dentro Vincere l'odio

Gli Elii vestiti da Kiss a Sanremo 2016 
SANREMO - Un gruppo che porta a Sanremo una canzone fatta di sette canzoni, anche quando manda il suo disco in negozio finisce per inventarsi qualcosa. Mentre sul tavolo dell’Ariston giocano con Vincere l’odio, Elio e le storie tese fanno uscire il nuovo cd in un box accoppiato a “Lelo Siri 2”, un oggettino in due colori che spezza l’ultimo tabù. E’ stato prodotto in mille esemplari. “E’ un vibro-massaggiatore che risponde alla bella musica. Se Barbara D’Urso è vicina alla gente che soffre, gli Elii sono vicini alla gente che gode”, spiegano in un ristorante di Sanremo prendendo di mira tutti i luoghi comuni, i vizi, i tic della canzone italiana e della discografia. Il cd si chiama Figgatta de Blanc, con riferimento affatto casuale ai Police e al loro Reggatta de Blanc del ’79, come del resto L’album biango giocava con i Beatles. Una genesi raccontata alla maniera loro. Rocco Tanica svela che “il disco doveva chiamarsi Merda, poi ci siamo detti: ammorbidiamo un po’”. Obiettivo finale: “Il titolo migliore è sempre quello che fa ridere di più”, dice Elio.

Dentro l'orchestra di Sanremo

Il ragazzo che in seconda fila suona il flauto e che apre il pezzo degli Stadio, un anno fa di questi tempi era seriosamente impegnato a leggere lo spartito dei Dialoghi delle carmelitane di Poulenc, in cartellone al Petruzzelli di Bari. Cosa di un certo spessore e di un certo peso, a maggior ragione se il confronto è con i Dear Jack. Simone De Franceschi è al suo primo Sanremo, lui che è nato proprio qua, 25 anni, figlio di un fagottista mai stato al festival per un motivo semplice: dalla musica pop i fagotti sono come banditi. “Ho saputo tre settimane prima che si cominciasse. C’era un posto vuoto da flautista, ed eccomi: un’esperienza incredibile e inattesa”. L’orchestra che accompagna i cantanti a Sanremo nasconde storie di strumentisti che nell'ombra dedicano la loro vita alle note. Ventotto archi, un flauto (Simone), un oboe, due corni. “Ho studiato all'accademia di Santa Cecilia, a Roma. Il mio sogno sarebbe entrare in una sinfonica. I Berliner, be’, quello sarebbe davvero il massimo”. Li abbiamo visti in questi giorni assorti, altre volte commossi, come la violinista Chiara Antonutti per l’esibizione di Ezio Bosso.

mercoledì 17 febbraio 2016

Le squadre che non vincono mai


Si può trasformare in sette giorni una squadra che non vince mai? E' questa la sfida di Gianluca Vialli e Lorenzo Amoruso, in giro per l'Italia con l'obiettivo di risollevare dal fondo della classifica le formazioni dei campionati dilettanti col peggior rendimento. Anche il calcio ha il suo docu-reality. Intorno a questa idea è nato "Squadre da incubo", format originale prodotto da FremantleMedia con lo stesso Vialli fra gli autori. Il programma sarà trasmesso da domani su Mtv8 (canale 8 del digitale terrestre) in prima serata: sei puntate da 50 minuti per la regia di Alessandro Tresa. Si inizia da Sezze Scalo (Latina), poi Giffoni Valle Piano, Martirano Lombardo, Carunchio, Buttrio, Moneglia. Quella che segue è una chiacchierata fatta con Lorenzo Amoruso sulla sua carriera e sul significato del codice del calcio.  

Messi al confine tra colpo di classe e irrisione

Il tiro a due dal dischetto di Messi e Suarez contro il Celta riapre il dibattito: colpo di classe o un modo per irridere i rivali? L'avesse fatto Neymar, sarebbe parso quasi naturale. Lui ha una faccia da cattivo pure quando sorride, lui che spesso incastra il pallone fra il tacco del piede destro e la punta del sinistro, facendolo ruotare sopra la testa dell'avversario, un sombrero diciamo noi, "lambretta" la chiamano in Spagna. Un rigore del genere da un insolente te lo aspetteresti. Da Messi no, Messi è il cuore tenero che si commuove per Murtaza Ahmadi, il bimbo afghano con una busta di plastica al posto della maglia. Perciò quando mette la palla sul dischetto e calcia nella maniera più sfrontata degli ultimi anni, molto più di qualunque cucchiaio visto finora, trasforma se stesso e tutto il Barcellona in una succursale della famiglia Simpson, lasciandoci il giorno dopo alle prese con un bel dilemma: qual è il confine fra lo spettacolo e l'irrisione?

martedì 16 febbraio 2016

Tenco, l'hotel Savoy e la memoria di Sanremo

LE MIMOSE fioriscono in pace, dietro un cancello che Sanremo non riesce a riaprire. Poco oltre la metà di questa strada in salita ormai presa d'assalto dalle agenzie immobiliari, dopo un caffè, una bottega di bigiotteria e un buco in cui si tosano cani chiamato "Il paradiso di Pluto", da una curva a gomito spunta un pezzo di memoria con cui la città del Festival ancora non si sente in pace. Hotel Savoy, via Nuvoloni numero 44. Nella notte fra il 26 e il 27 gennaio del 1967 la canzone italiana qui trovò cadavere uno studente di ingegneria che viveva a Recco con sua madre, Luigi Tenco, appena bocciato dalla giuria popolare e neppure ripescato in gara da quella degli esperti al Casinò. I giornali non fecero in tempo a dare la notizia, raccontavano anzi in quelle ore di un Festival piatto, senza polemiche.

Quando si va a Sanremo

Quando si va a Sanremo per la prima volta, la scoperta iniziale sono i tassisti francesi. Quelli che si muovono dall'aeroporto di Nizza, dove si atterra da Roma. Parlano e capiscono benissimo l'italiano, ma fanno finta di no. Vogliono prima divertirsi a capire se tu arrivi dalla terra di Totò e Peppino, nojo vulevòm savuàr. In macchina si percorre un'autostrada che passa davanti a cartelli di posti meravigliosi, dandoti l'illusione che li stai vedendo tutti. Ho pensato a Grace Kelly. Il tassametro dei francesi si muove a un ritmo che neppure Rocco Hunt riesce a sfiorare. Specialmente in avvio di corsa, dev'esserci un sistema in base al quale il primo tratto di percorso si paga di più, non lo so, non l'ho capito. Se sono riuscito a sincronizzare bene lo sguardo fra tassametro e orologio, scattano più o meno 10 centesimi ogni due secondi. Per cui quando sei appena partito, ti fai due conti e pensi che fino a Sanremo ti verrà a fare tutta la tredicesima, per chi ce l’ha. Avrei poi scoperto che da Sanremo a Nizza la corsa costa un po’ meno, c'è una tariffa fissa di 140 euro, poi tasse, bagagli, festivo, queste cose qua, ma comunque meno, e che molti a Nizza il taxi se lo fanno arrivare da Sanremo. Buono a sapersi.

lunedì 15 febbraio 2016

La crisi dei comici a Sanremo

I coniugi Salamoia
Comico una volta voleva dire qualcosa. Senza spingersi fino a Bachtin e Bergson, basterebbe fermarsi alle parole che Benigni consegnò nel 2002 a questo stesso palco, chiudendo così una vigilia di polemica politica segnata dalle proteste della destra per la sua presenza: «I comici infrangono le regole, fanno quello che gli pare, sono viziati come bambini, ricchi d'amore, si farebbero ammazzare per quello che amano. Contrabbandieri senza licenza. Hanno il potere di far ridere e piangere: il potere più grande del mondo. Non li si può imprigionare». Figurarsi se a mettergli le manette è la banalità.

Dirige il maestro Peppe Vessicchio


SANREMO. Dirige l’orchestra: il maestro Peppe Vessicchio. Boato dell’Ariston, applausi. “Fragorosi, perfino imbarazzanti perché nel frattempo davanti a me c’era un mito come Patty Pravo sul palco. Ho provato a sollevare un braccio per condividere con lei il momento”. L’idolo della rete dell’ultimo festival di Sanremo. Lui che dà il pronti-via in sei ottavi a Elio. Lui che non ha cantanti sul palco e twitter lancia l’hashtag #uscitevessicchio. “Una casualità. Ero a provare. Mi ha colpito che la gente se ne sia accorta”. Trentuno anni dopo il primo Sanremo, dove ancora si cantava sulle basi preregistrate e lui accompagnava Zucchero, torna a casa con una popolarità gioiosa. “Il festival è come una festa comandata. In casa mia ci sono Natale Pasqua Ferragosto, e poi c’è Sanremo. La prima volta che ci ho messo piede nevicava. Ma in genere è per me un anticipo di primavera, vengo qui, le mimose si schiudono e mi sembra di stare a Napoli. Un anno in cui mancai, per non sentirne la mancanza, cambiai proprio stagione e me ne andai a vivere un anticipo d’estate a Sharm”. La barba più riconosciuta d’Italia. “Un amico conserva una foto di quando avevo solo i baffi. Ogni tanto minaccia di renderla pubblica. A casa non mi hanno mai visto senza. Me la feci crescere al liceo, erano gli anni della contestazione, portavo i capelli lunghi e la fascetta tra i capelli. Alla musica sono arrivato seguendo mio fratello Pasquale, che ne era portatore sano. Suona fisarmonica, piano e chitarra. Non è il suo lavoro eppure non pensa ad altro. Se hai una passione tanto grande in casa, finisci per trasmetterla”.

sabato 13 febbraio 2016

Le coppie di Sanremo

QUESTA è la storia di "due poveri illusi" che stasera possono vincere il festival della canzone italiana. Lei, Deborah, cantava ai matrimoni nei dintorni di Ragusa e disegnava gioielli, «nel laboratorio pomeridiano dell'istituto d'arte dove mi sono diplomata. Ne ho progettati, disegnati e realizzati: in ottone, bronzo e alpacca. Adesso? Adesso i gioielli solo me li metto», e la cadenza siciliana è ancora là. Lui, Giovanni, s'era iscritto al Politecnico di Milano, architettura, dopo un 100 al liceo scientifico e una borsa di studio in art direction. Gli chiedevano dove mai credesse di andare con quella sua passione per la musica, partendo da Modica, e poi – andiamo - con quel cognome no. «Una casa discografica mi ha tenuto fermo sostenendo che Caccamo non potesse funzionare. Ma le alternative non erano migliori, e poi io ci tenevo. È il cognome di mio padre, faccio musica per lui». Un papà che lo ha lasciato orfano quando era poco più di un bambino, undici anni: adesso è più il tempo trascorso senza. «Ha fatto in tempo solo a sentirmi suonare la chitarra. Così, per reazione, dopo la sua morte la chitarra non l'ho più toccata per anni. Mi sono messo a studiare il pianoforte e ho sentito il bisogno di scrivere. Erano cose tristissime, molta carta straccia, ma la musica piano piano è diventata terapia e rifugio».

venerdì 12 febbraio 2016

Il doping con il peso di chiamarsi Abbagnale

QUANDO il peso di un cognome può togliere le forze. «Io non penso di meritare quello che sta capitando a me e alla mia famiglia». Vincenzo Abbagnale, 23 anni fra un mese, dopo tre ori ai Mondiali fra 2013 e 2014, rischia di saltare l'evento più atteso. E al mondo del canottaggio l'ha annunciato proprio suo padre. «Ha fatto bene. Era la cosa giusta. E' il segno che siamo persone pulite e coscienziose».
Vincenzo, è più difficile del solito essere un Abbagnale?
«Il cognome della mia famiglia non è mai stato sfiorato da vicende di doping. Come del resto non è mai stato sfiorato da certe storie l'intero canottaggio italiano. Non vorrei essere proprio io il primo a sporcare questa storia».

Il fenomeno delle cover

Nek a Sanremo 2015
Sanremo 2015 ha offerto la spinta a crederci. La versione di Se telefonando con cui Nek vinse la terza serata è rimasta in classifica su iTunes fino all'estate successiva. Più a lungo dei brani in concorso. Se molti ragazzi italiani hanno creduto che Meraviglioso fosse un pezzo dei Negramaro, amandolo e cantandolo, allora si può provare: andiamo a vedere dove conduce questa via. In fondo è un ritorno a un genere che appartiene alla storia della canzone italiana. Parte da Personalità di Celentano, passa dagli album doppi di Mina e finisce con la ripresa attraverso i talent.

Il valletto Gabriel Garko

DONNE, eccola qui l'attesa rivincita. In coda a una lunga galleria riempita un anno da Manuela Arcuri e un altro da Elisabetta Canalis, all'edizione numero 66 il festival abbraccia le pari opportunità e offre in pasto all'Italia il valletto perfetto. Un bambolo da sogno. Alto, moro, davvero troppo in tutto. Cosa volete che sia se poi non riesce a leggere il gobbo. Gabriel Garko, anno 2016, il rovesciamento di un cliché.
Il bambino che voleva diventare Mastroianni adesso passa per una specie di Valeria Marini. Quando il rilevatore Auditel registra il picco di ascolti della prima serata alle 23 e 41, nell'attimo cioè in cui non canta nessuno, mentre Garko sta presentando Rocco Hunt, tutto diventa chiaro. L'Italia è radunata lì per vedere quello che combina. Del resto il record d'ascolti una volta lo fece il segnale orario.

giovedì 11 febbraio 2016

La mutazione genetica della canzone napoletana

Sergio Bruni con Claudio Villa
Non cercate più i mandolini, la pizza è sparita e il sole è un inganno. «Fammi vedere il colore lì dove non c'è sole» canta Clementino a Sanremo, certificando la fine dell'egemonia della Napoli da cartolina sugli altri volti della città. Se accade qui, tutto è più vero: qui, sul palco che nel '60 sentì Sergio Bruni cantare che «il mare è la voce del mio cuore » mentre Fausto Cigliano si beava del fatto che «accanto a te splende il sole». Con due rapper pieni di rabbia in gara dove un tempo Napoli portava solo l'ammore, anche il festival partecipa allo smantellamento dell'immaginario classico, nei giorni in cui il ministro Alfano invoca l'esercito per «far star zitte le pistole».

mercoledì 10 febbraio 2016

Ventura e Torino, quando finisce un amore

QUANDO finisce un amore, se sei Riccardo Cocciante ti senti un buco nello stomaco o un vuoto nella testa, ma se sei Giampiero Ventura quelli dentro la testa sono fischi, e in fondo pensi ci sarà un motivo. Certo che c'è un motivo. Il calcio non perdona. Arriva un pomeriggio amaro in coda a un anno grigio, un pomeriggio con un autogol e un rigore contro, e diventi un mezzo estraneo nella stessa casa che abitavi e nella quale ti sentivi un re. Prima di guardarsi negli occhi e dirsi cose da manuale di fine rapporto come "ti trovo cambiato" o "non siamo cresciuti insieme", viene quella fase in cui tutto è chiaro ma nessuno dei due ha la forza di dirselo. Il Torino e Ventura sono a quel punto lì.

martedì 9 febbraio 2016

La storia d'amore fra Elton John e l'Italia

Quando Elton John arrivò qui nel 1989, Beppe Grillo era soltanto un comico, a Sanremo potevi trovarci una canzone di Al Bano, non ancora una dichiarazione degli uomini di Alfano. "Guardavo l’Eurofestival in tv. Ricordo le canzoni di Marino Marini e di Domenico Modugno", svelò lui prima di mettersi a cantare "ciao ciao bambina, un bacio ancora".

La fabbrica dei giovani padrona del festival

SE NON sapete che Giuseppe Caccamo e Deborah Iurato stavolta cantano insieme e sono i favoriti, o peggio ancora se non sapete affatto chi sono, allora siete cascati nel tranello di Bennato. No, non sono solo canzonette. Forse una volta, ma adesso l'affare è serio. I ragazzi italiani si sono presi il festival di Sanremo. Senza chiedere il permesso. Cosa ne faranno ancora non si sa, ma il 2016 è un segno di croce sulla mappa del nostro paesaggio musicale, e dunque sociale.

mercoledì 3 febbraio 2016

Essere Insigne, essere Totti


LA lezione è semplice. Mai disperarsi quando salta un affare di mercato. Se ad agosto fosse arrivato il trequartista chiesto da Sarri, uno fra Soriano e Saponara, oggi il Napoli non conoscerebbe un Insigne così. Uno che prima serve a Higuaín «un pallone su cui c’è scritto: basta spingere» (copyright di Pablito Rossi, Mundial ’82, gol alla Polonia su cross di Bruno Conti) e poi pitta un calcio di punizione che a volergli cercare un modello il San Paolo saprebbe dove andare a parare. Il San Paolo sì, Skorupski no. Perciò a questo punto del campionato, dopo dieci gol e più assist di tutti in serie A (nove), il dubbio comincia a diffondersi: Insigne non sarà diventato per caso il miglior giocatore italiano?

martedì 2 febbraio 2016

Buster Keaton e la dittatura dell'ottimismo


Benito Mussolini era presidente del Consiglio da quasi sei anni e dittatore da tre, quando nel giugno del '28 su La Stampa uscì quest'articolo firmato da Marco Ramperti, che era critico teatrale e scrittore molto molto apprezzato all'epoca: da Ojetti, D'Annunzio, anche da Pound. Ramperti fu uomo di destra senza indecisioni, pure dopo la caduta del regime. Quel che colpisce in questo suo lungo articolo, in questa sua lettura di una maschera dell'impassibilità, è la relazione che da un certo momento in avanti il Potere e la propaganda stabiliscono o provano a stabilire con l'ottimismo, con la realtà, con la rappresentazione, con la disperazione. (Ce n'è anche per Charlot).

***

Mi dicono che Buster Keaton, il comico che non ride mai, sia d'origine italiana. Mi stupisce. Mi spiace, anche, per il mio paese felice che possa produrre di esemplari siffatti, vero che poi li regala all'America e al cinematografo. Codesti, in verità, sarebbero gli emigranti indesirables per il paese che li esporta. E' bene per loro, come per noi, che si allontanino. Passino pure oltremare, insieme alle nuvole di tempesta, gli uomini alla cui faccia non giunge mai raggio di sole!

lunedì 1 febbraio 2016

Il progetto per cambiare la Champions


I signori che cambieranno il calcio si mettono al lavoro fra sette giorni. La Champions e i suoi milioni sono l’epicentro della trasformazione, il resto verrà a cascata: dopo i Mondiali a Natale, potremmo avere la serie A di mercoledì e le Coppe spostate al week-end. Il fantasma che si aggira per l’Europa si chiama Superlega, il campionato riservato alle élite del pallone, un giocattolino di cui si parla da tempo nei corridoi, ora neppure sotto voce. Milano, 13 gennaio, convegno alla Bocconi: Karl Heinz Rummenigge (dirigente Bayern) dice: «Nelle cinque leghe di spicco le grandi diventano sempre più forti. In Italia c’è la Juve, spero che torni la mia amata Inter, forse il Milan. Si va verso una Lega oltre la Champions, sotto l’Uefa o un tetto privato. Con partite anche negli Usa e in Asia». Bum.
Decideranno in due. La European Club Association (Eca), di cui Rummenigge è presidente, si riunisce 8 e 9 febbraio in assemblea; la commissione competente dell’Uefa giovedì 11. Eca e Uefa hanno un accordo che le rende partner per le riforme fino al 2022 ma nessuna certezza che arrivino alleate alla fine del processo di revisione. Le parole di Rummenigge sono giudicate da altri club una “fuga in avanti”, di certo la Champions così com’è non piace più a molti dei potenti. I ricchissimi (Real, Barça, Bayern, United) trovano più utile giocare con un Borussia che con un Bate Borisov. C’è poi chi è scottato da troppe qualificazioni mancate e ne porta le cicatrici sui bilanci. Umberto Gandini, vicepresidente dell’Eca e direttore dell’organizzazione sportiva del Milan, spiega che «non abbiamo un piano già definito, ma sappiamo cosa fare. Ogni tre anni, alla scadenza dei contratti tv, si discute del format. Il dato nuovo è che oggi la Premier cresce più di tutti e distribuisce tre miliardi di euro l’anno. Fuori dall’Europa ha più appeal della Champions. Vedere che il Liverpool contro il Real risparmiava giocatori per la Premier del week-end successivo, è stato un segnale preoccupante».
superlega2Il punto sono i criteri d’accesso. I piccoli sono diventati ingombranti e arrivano a frotte pure dall’interno: Leicester, Atlético Madrid, da noi Napoli Roma Fiorentina. Le big storiche vogliono essere certe di un posto. «Esiste una pulsione dei grandi club», dice Gandini, «per avere più stabilità. È un dibattito legittimo e necessario. L’Uefa conosce punti di forza e limiti dell’attuale formula. Un anno mancò il Bayern, un anno lo United, un’altra volta sono assenti Milan e Inter: brand che fuori dal mercato europeo hanno un peso. Esiste una classifica storica nel mondo che non può essere ignorata, mentre ci sono squadre che vengono da mercati con minor appeal con una via per la qualificazione più semplice. È un’esigenza diffusa. Non vogliamo rinnegare la filosofia attuale, ma cercare un sistema diverso da quello che impone a un’italiana di giocarsi il preliminare con una tedesca o una spagnola. Non è scritto da nessuna parte che solo i primi tre Paesi del ranking debbano schierare 4 club. Discutiamo questo dogma. Certo, la revisione andrà a discapito di qualcun altro».
Con un presidente Uefa sospeso e il suo segretario generale in corsa per la Fifa, l’Eca, nel cui board siede anche Andrea Agnelli, ha campo libero come mai. Così può ri-sventolare come nel ‘99 lo strappo finale: un torneo privato a inviti, un sistema che superi il ranking Uefa nel quale oggi il Milan è 24°, l’Inter 30ª mentre il Basilea è al numero 17 e l’Olympiakos al 21. L’ipotesi delle franchigie neutralizzerebbe i tornei nazionali: la realizzazione su scala europea del teorema Lotito e della A senza un Carpi e un Frosinone. «Una soluzione — media Gandini — va cercata dentro il sistema: una formula che possa portare più ricavi, garanzie e stabilità ai partecipanti senza privarci della bellezza». Ci sarà da riscrivere i criteri. Superando il merito del campo, chi stabilisce se contano i titoli antichi dell’Ajax o le maglie vendute in Asia? Anche la Pro Vercelli ha vinto 7 scudetti e la Steaua più Champions del City: cos’è storia e cos’è archeologia? La tv ha stravolto ovunque gli albi d’oro. La Champions recente ha almeno avuto sei finaliste differenti negli ultimi tre anni e 9 vincitrici diverse in 12 edizioni. Due titoli consecutivi mancano dal 1990 (Milan). La filosofia del futuro sarà: più spazio a club famosi sui mercati asiatici e meno ai Ludogorets; più peso a chi genera maggiori risorse. Ma nel sistema attuale, il market pool (una quota dei ricavi tv divisa su scala nazionale) già riconosce pesi diversi ai singoli mercati. Quando il Porto vinse nel 2004, incassò la metà dello United, uscito agli ottavi. «La Champions è diventata un’aristocrazia che non tollera altre origini », ha scritto Aitor Lagunas sulla rivista Panenka. Nel marzo ‘93 l’allora numero uno Uefa Johansson confessò: «Temo che faremo i ricchi sempre più ricchi».
Diego Tarì, analista di bilanci, fondatore del sito Il tifoso bilanciato, avverte: «Una Champions che dovesse svuotare di interesse i campionati nazionali, farebbe crollare il valore dei diritti tv della serie A fino a 500 milioni. La Champions ha trasformato un gioco popolare in un business, la meritocrazia cucita sulla nobiltà e sul passato sega le gambe ai club emergenti». È il punto su cui si sta spaccando il basket, che dall’anno prossimo avrà due Champions perché quella della federazione mondiale sarà priva di undici club dal grande “brand”, tra cui Milano, messi sotto contratto dall’Eurolega per un torneo privato, indipendente dagli esiti dei campionati. Stefano Sardara, presidente di Sassari, si fa sentire: «La Fiba detiene i diritti, l’Eurolega in questi anni ha supplito con competenza. O si trova un punto di incontro, o chi va di là si mette fuori dall’organizzazione Fiba, creando un pregiudizio per la partecipazione alla serie A. Le spaccature sono dannose per tutti». Lo sa bene il rugby. Treviso e Parma hanno lasciato il campionato italiano per un torneo con irlandesi, gallesi e scozzesi. Marzio Innocenti, ex azzurro e dirigente federale in Veneto: «A fronte di un’esperienza per loro poco formativa e con poche vittorie, abbiamo assistito alla distruzione del campionato, che negli anni ’90 aveva i migliori al mondo». Il calcio europeo è a questo stesso bivio.
(da la Repubblica di lunedì 1 febbraio 2016)