QUANDO finisce un amore, se sei Riccardo Cocciante ti senti un buco nello stomaco o un vuoto nella testa, ma se sei Giampiero Ventura quelli dentro la testa sono fischi, e in fondo pensi ci sarà un motivo. Certo che c'è un motivo. Il calcio non perdona. Arriva un pomeriggio amaro in coda a un anno grigio, un pomeriggio con un autogol e un rigore contro, e diventi un mezzo estraneo nella stessa casa che abitavi e nella quale ti sentivi un re. Prima di guardarsi negli occhi e dirsi cose da manuale di fine rapporto come "ti trovo cambiato" o "non siamo cresciuti insieme", viene quella fase in cui tutto è chiaro ma nessuno dei due ha la forza di dirselo. Il Torino e Ventura sono a quel punto lì.
Incontrarsi in età avanzata non è stata la garanzia di un rapporto maturo. Il Toro ha 110 anni, tante ne ha viste e troppe ne ha passate. Ventura arriva e gli promette un mondo nuovo, oltre la retorica, la nostalgia, la letteratura: scappa con me, bimba, ci rifaremo una vita insieme. Ha la voce profonda e l'abbronzatura dell'uomo che sa come si fa una promessa, specialmente a chi vive nel passato, nella zona protetta dei ricordi, dentro la collezione di francobolli di Valentino Mazzola, Pulici e Graziani, la finale di Amsterdam. Ventura esce in mare aperto con i suoi anni che sono quasi 70 e diventa l'allenatore più longevo nella storia del club. Una volta lo paragonano a Gigi Radice, e lui sorride. Un'altra lo chiamano "il nostro Ferguson" e lui fa lo stesso. Una colpa ce l'ha, in fondo la stessa di chi l'ha seguito: aver creduto che potesse arrivare il Futuro. Sotto sotto se ne era convinto, proprio lui che in tv si muove sul registro del disincanto, facendo il saggio pure quando alla fine di un derby gli scappa un gesto (ti taglio la gola) verso un tifoso che gli rimprovera qualcosa. Ma era uno, uno soltanto, mica adesso puoi mostrare il coltello a uno stadio intero, a un popolo intero? Avrebbe dovuto sfogliare la biografia di Sir Alex per scoprire il bluff e la bugia, l'improbabilità del confronto, fare il calcolo di tutto il tempo che a Ferguson diedero per capire lo United e per poi costruire, mentre invece a lui tolgono prima Cerci, poi Immobile, gli vendono Darmian, nel dubbio pure El Kaddouri, e Ventura sorride, forse sapendo pure come prima o poi sarebbe andata a finire. Eppure chi lascia il suo mondo, altrove finisce per giocar meno o meno bene, qualcuno si perde, molti vorrebbero tornare. Un motivo ci sarà.
«Devo aver sbagliato qualcosa io» mormora adesso, mentre gli rimproverano di non aver fatto sbocciare in pochi mesi questo pugno di ragazzi ben valutati che Cairo gli ha messo fra le mani. Ventura ha sbagliato a immaginare che nel calcio abbia un senso la parola preferita dai presidenti: progetto. Pazienza, attesa, comunità: questo dovrebbe significare. Ha sbagliato nel dimenticare che la riconoscenza è stata sepolta nel giorno in cui il San Paolo fischiò durante un Napoli-Pisa un calciatore argentino con i capelli ricci che usciva dal campo a testa bassa, scalzo, con le scarpette tenute per i lacci in una mano. Il futuro a un certo punto sembrò Bilbao, dove nella pioggia e nel vento il Toro diventò la prima squadra italiana della storia a vincere. Rischia di essere solo un altro francobollo. Se per rifarti una vita non bastano i soldi, al massimo puoi andare a vedere il tramonto. Quando finisce un amore, Cocciante ci costruisce sopra una carriera, ma se sei Ventura alla carriera aggiungi una ferita. E comunque in entrambi i casi, quando è finita bisogna lasciarsi.
(la Repubblica, 9 febbraio 2016)
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