Sergio Bruni con Claudio Villa |
Clementino, nome d'arte di Clemente Maccaro, allarga le braccia e dice che lui con Maruzzella e con ‘ Na sera ‘ e maggio ci è cresciuto: «Vengo dai villaggi d'animazione ». Ma adesso le parole che a lui viene da scrivere e da cantare sono altre: «Pregando che dall'alto qualcuno ci salvi». Spiega: «Voglio difendere Napoli e la sua lingua attraverso la nostalgia di chi la guarda da lontano. Io guardo Gomorra in tv, mi piace, è una denuncia forte. Ma faccio il cantante. Se facessi il commissario, forse contro la camorra potrei fare di più».
Qualcosa però non torna. Anche quando a metà anni 70 al cinema s'imponeva il genere poliziottesco, Sanremo chiedeva a Napoli di conservarsi come una gouache, con il romantico Peppino Di Capri o lo struggente Peppino Gagliardi. Tanto che deve pensarci Massimo Troisi a invocare con i suoi film una rottura, che si produce pure in campo musicale (Pino Daniele, i Bennato, Napoli Centrale) ma che non arriva sul palco dei fiori e della rima baciata. Peppe Vessicchio, direttore d'orchestra nato e cresciuto nel rione di Cavalleggeri, assediato dall'amianto dell'Eternit, mette sull'avviso: «La rappresentazione di Napoli al festival è sempre stata funzionale all'idea che il resto del Paese aveva della città in quel momento. Se leggiamo la scena in questo modo, allora non è cambiato molto. A maggior ragione se Sanremo non è più il vecchio programma ripreso dalla tv, ma prodotto dalla tv». Mentre Renzo Arbore girava il mondo con i classici, il festival promuoveva la riscoperta folk di Nino D'Angelo e le melodie all'antica di Gigi D'Alessio. Eppure Napoli piangeva lo stesso i suoi morti ammazzati. Giù dal palco di Sanremo, un ministro (Giuliano Amato) se la prendeva con i neomelodici «che celebrano i camorristi», e all'Ariston era ancora sentimento e melodramma. Pasquale Scialò, musicologo, spiega: «La canzone napoletana anche nella gioia porta una ferita, un embargos come dice Moscato. Il festival sta solo seguendo un imprinting commerciale. Il noir è il nuovo stereotipo: fa molto più notizia una Napoli arrabbiata rispetto a una luminosa. Il minimo che a questo punto possa fare l'industria musicale è portare due rapper sul palco».
Dario Salvatori, critico musicale, giudica con severità: «Per me questo rap non è protesta, è moda. I rapper danno della protesta un'interpretazione singolare, grottesca. È un genere in cui non è necessario avere talento. Vedere sul palco qualcuno peggio di noi, incoraggia a provarci». Rocco Hunt ieri sera ha urlato dal palco il suo invito a scuotersi: «Non sono i ragazzi napoletani che devono svegliarsi, ma chi li lascia dormire. In famiglia ho due laureate con 110 e lode ma sono costrette a lavorare in un ristorante ». La sua canzone fa Wake up guagliu'. Quando il festival cominciò, 1951, la prima canzone in napoletano fu di Achille Togliani e il Duo Fasano. Diceva: «Famme durmì».
(la Repubblica, 10 febbraio 2016)
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