giovedì 11 febbraio 2016

La mutazione genetica della canzone napoletana

Sergio Bruni con Claudio Villa
Non cercate più i mandolini, la pizza è sparita e il sole è un inganno. «Fammi vedere il colore lì dove non c'è sole» canta Clementino a Sanremo, certificando la fine dell'egemonia della Napoli da cartolina sugli altri volti della città. Se accade qui, tutto è più vero: qui, sul palco che nel '60 sentì Sergio Bruni cantare che «il mare è la voce del mio cuore » mentre Fausto Cigliano si beava del fatto che «accanto a te splende il sole». Con due rapper pieni di rabbia in gara dove un tempo Napoli portava solo l'ammore, anche il festival partecipa allo smantellamento dell'immaginario classico, nei giorni in cui il ministro Alfano invoca l'esercito per «far star zitte le pistole».
Clementino, nome d'arte di Clemente Maccaro, allarga le braccia e dice che lui con Maruzzella e con ‘ Na sera ‘ e maggio ci è cresciuto: «Vengo dai villaggi d'animazione ». Ma adesso le parole che a lui viene da scrivere e da cantare sono altre: «Pregando che dall'alto qualcuno ci salvi». Spiega: «Voglio difendere Napoli e la sua lingua attraverso la nostalgia di chi la guarda da lontano. Io guardo Gomorra in tv, mi piace, è una denuncia forte. Ma faccio il cantante. Se facessi il commissario, forse contro la camorra potrei fare di più».
Qualcosa però non torna. Anche quando a metà anni 70 al cinema s'imponeva il genere poliziottesco, Sanremo chiedeva a Napoli di conservarsi come una gouache, con il romantico Peppino Di Capri o lo struggente Peppino Gagliardi. Tanto che deve pensarci Massimo Troisi a invocare con i suoi film una rottura, che si produce pure in campo musicale (Pino Daniele, i Bennato, Napoli Centrale) ma che non arriva sul palco dei fiori e della rima baciata. Peppe Vessicchio, direttore d'orchestra nato e cresciuto nel rione di Cavalleggeri, assediato dall'amianto dell'Eternit, mette sull'avviso: «La rappresentazione di Napoli al festival è sempre stata funzionale all'idea che il resto del Paese aveva della città in quel momento. Se leggiamo la scena in questo modo, allora non è cambiato molto. A maggior ragione se Sanremo non è più il vecchio programma ripreso dalla tv, ma prodotto dalla tv». Mentre Renzo Arbore girava il mondo con i classici, il festival promuoveva la riscoperta folk di Nino D'Angelo e le melodie all'antica di Gigi D'Alessio. Eppure Napoli piangeva lo stesso i suoi morti ammazzati. Giù dal palco di Sanremo, un ministro (Giuliano Amato) se la prendeva con i neomelodici «che celebrano i camorristi», e all'Ariston era ancora sentimento e melodramma. Pasquale Scialò, musicologo, spiega: «La canzone napoletana anche nella gioia porta una ferita, un embargos come dice Moscato. Il festival sta solo seguendo un imprinting commerciale. Il noir è il nuovo stereotipo: fa molto più notizia una Napoli arrabbiata rispetto a una luminosa. Il minimo che a questo punto possa fare l'industria musicale è portare due rapper sul palco».
Dario Salvatori, critico musicale, giudica con severità: «Per me questo rap non è protesta, è moda. I rapper danno della protesta un'interpretazione singolare, grottesca. È un genere in cui non è necessario avere talento. Vedere sul palco qualcuno peggio di noi, incoraggia a provarci». Rocco Hunt ieri sera ha urlato dal palco il suo invito a scuotersi: «Non sono i ragazzi napoletani che devono svegliarsi, ma chi li lascia dormire. In famiglia ho due laureate con 110 e lode ma sono costrette a lavorare in un ristorante ». La sua canzone fa Wake up guagliu'. Quando il festival cominciò, 1951, la prima canzone in napoletano fu di Achille Togliani e il Duo Fasano. Diceva: «Famme durmì».

(la Repubblica, 10 febbraio 2016)

LEGGI ANCHE

Nessun commento: