QUANDO il 19 ottobre del '57 la nazionale irachena di calcio gioca la prima partita ufficiale della sua storia a Beirut, pareggiando 3-3 con il Marocco, l'Italia ha già vinto due volte i Mondiali e una le Olimpiadi, ha perso una generazione d'oro con il Grande Torino e ha appena visto la Fiorentina di Fulvio Bernardini spingersi in finale di Coppa dei Campioni. Qualche anno ancora e nasceranno il Milan di Rocco e l'Inter di Herrera. Fra i due mondi non c'è confronto. Perciò quando quasi sessant'anni dopo, Ali Adnan Kadhim Al-Tameemi scaraventa di sinistro una punizione dentro la porta alla destra della tribuna di Marassi, Genova, proprio la città che dominò ai tempi dei pionieri, pare quasi che con il primo gol arrivato in Italia da Baghdad la storia voglia suggerirci qualcosa. Che sono cadute tutte le barriere, ma proprio tutte, e non c'è troppo da farsi maestri.
Come si racconta sui tram e nei talk-show, esistono lavori che gli italiani non vogliono fare più, signora mia. I gol, per esempio. Fra i migliori sette cannonieri della serie A soltanto uno è nato qui, si chiama Massimo Maccarone, e viaggia per i trentasette anni. L'Iraq è l'ultimo puntino che la serie A aggiunge sulla propria mappa. Solo una dozzina d'anni fa il loro calcio si liberava dall'oppressione di Uday Hussein, il figlio di Saddam che controllava lo sport nel Paese: si rischiava la vita nel rifiutare il trasferimento all'al-Rasheed, la sua squadra. Simon Freeman, un giornalista inglese, ha ricostruito quegli anni drammatici in "Baghdad Football Club" (Isbn edizioni). La generazione di Ali Adnan, 22 anni compiuti a dicembre, ora va per il mondo. I calciatori iracheni all'estero sono settantaquattro, di cui trentacinque in Germania, sebbene ancora nessuno in Bundesliga. Adnan è l'unico nella serie A di una delle cinque maggiori leghe europee: poi spiccano Meram nella Major League Usa e Yasin in Svezia. «Qui rappresento la gioventù irachena», disse in estate al suo arrivo a Udine, portandosi dietro l'etichetta di "terzino soldato": giravano foto di lui in mimetica e racconti di giornate trascorse con il fucile in mano a combattere contro l'Isis. «Ho solo posato per uno spot», ci tenne a chiarire Adnan. Anche suo padre e suo zio giocavano a calcio.
Non poteva che essere Udine ad aggiornare la geografia del gol in Italia. Ai Pozzo e ai suoi trent'anni nel calcio — anniversario a luglio — si devono il primo egiziano della A (Hazem Emam), il primo eritreo (Goitom), il primo maliano (Camara) e il primo kazako (Merkel). Nessuno ha internazionalizzato il nostro campionato quanto loro. In compenso, in Friuli non ha mai giocato un inglese, neppure dopo che la famiglia ha acquisito il Watford. Non fanno male al calcio italiano gli Adnan, non sono loro gli improbabili: stranieri che arrivano, giocano, segnano; anche se nella vulgata "tolgono il posto ai nostri giocatori" in realtà li stanno spingendo a migliorarsi per riprendersi uno spazio fra i titolari. Fanno male casomai gli altri, quelli che non giocano, quelli che arrivano per diventare una plusvalenza, finanza creativa, per essere subito girati in prestito altrove. Una dozzina d'anni fa, in piena faida di Scampia, un Ali iracheno in grado di segnare in serie A — in quel caso con la maglia del Napoli — era solo il personaggio di una barzelletta che girava, politicamente assai scorretta. Ora il sinistro di Adnan è un'altra cosa. Peraltro molto seria.
(la Repubblica, 23 febbraio 2016)
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