La Napoli del maestro Vessicchio è quella della zona occidentale. Rione Cavalleggeri, schiacciato tra la piccola borghesia di Fuorigrotta e l’anima operaia di Bagnoli, dove l’Eternit prosperava avendo di fronte a sé il mare, Ischia e Procida. “Quando ero alle scuole medie, non potevamo comprare il compensato per lavorare con il traforo, allora usavo lastre di amianto. Ero pure bravino a intagliare. I miei giocattoli li costruivo così, tutti d’amianto, e come me tanti amici. Molti non ci sono più. Asbestosi, mesotelioma della pleura: quando succede a un amico certi nomi non li scordi più. Un giorno ho fatto uno screening all'istituto tumori. Mi hanno definito una bomba a orologeria, ma non mi spaventa. Non è del tutto vera quella storia della mens sana in corpore sano. Intendo dire che se hai una mente sana non devi temere un corpo malato. Quando sei in pace con te stesso e con quel che ti circonda, puoi diventare un fachiro. Puoi bere un veleno e non subirne le conseguenze”. Casa Vessicchio, anni ’70. Vigeva la regola del “pezzo di carta”. “La musica era il mio piano B. Mentre frequentavo il Conservatorio da uditore, ero iscritto ad Architettura. Se fossi stato una schiappa all'università, sarebbe stato facile mollarla. Invece andavo bene. La musica del resto è architettura liquida. Finché una notte rientrai da una serata alle 3 e mezzo, cinque ore dopo ero in piedi per un corso. Mio padre mi vide sfatto e mi fermò sulla porta: ma tu davvero vuoi fare l’architetto, mi domandò. Lo faccio per voi, gli risposi. E lui: ma chi te l’ha chiesto? Spesso restiamo vittime di un pensiero comune che circola nell’aria. Se affrontassimo le cose con più naturalezza, potremmo evitare di disperdere energie”.
L’architetto Vessicchio smise di esistere quella mattina. Ma tra lui e la musica spuntò un secondo ostacolo. Il cabaret. “A fine anni ’70 incisi un disco con un amico, Mirko Setaro. Ci facevamo chiamare “Il punto due”, un 33 giri oggi rarissimo, mai più ristampato. Lui aveva un certo umorismo e così fummo cooptati da un gruppo di cabarettisti con implicazioni musicali, si chiamava “I rottambuli”. Io arrangiavo i pezzi e suonavo. Tra i nostri rivali dell’epoca c’erano Troisi e la sua Smorfia. Un giorno uno del gruppo si fratturò la clavicola giocando a pallone, lo spettacolo non poteva essere cancellato, allora la sua parte toccò a me. Andai bene, cominciai a essere coinvolto sempre di più. Cambiammo nome e diventammo i Trettré”. Se qualcuno crede di riconoscerlo nella parte di un autista di pompe funebri in un film con Alvaro Vitali (“Giggi il bullo”), non sbaglia. E’ lui. “La mia sofferenza cresceva, per seguire il gruppo dovevo rinunciare sempre più spesso a belle occasioni musicali. Un giorno Maurizio Costanzo ci invitò a esibirci in un suo programma e durante lo sketch io avevo l’orchestra alle spalle che suonava. Fu il clic definitivo. Rientrammo in camerino e dissi agli amici che avrei lasciato”. Peppe Vessicchio è uscito dal gruppo. “Loro andarono a Drive In e fu la svolta. Io sentii che presto arrivata anche per me”.
L’incontro con Gino Paoli. La riscrittura dell’arrangiamento del “Cielo in una stanza”. Poi Jobim. Bocelli. Gli Avion Travel. Fra un mese compie sessant’anni. “Adesso dirigo solo partiture su cui posso intervenire. Non si firmano articoli con il proprio nome se hanno i verbi sbagliati. Nella musica di oggi si tende a credere che la ricchezza del suono si ottenga aggiungendo. Non è così. Dieci persone ben combinate suonano in modo speciale, meglio di cento persone che si sommano. Chi partecipa di più: uno spettatore che riprende un concerto rock col telefonino o un ascoltatore di sinfonica nel silenzio di una sala? Insieme alla diminuzione dei compensi ai parlamentari, un segno di sana convivenza sociale sarebbe se i cantanti interpretassero questo lavoro come un idraulico fa il suo, tutti i giorni, proponendosi in teatri da 600 posti anziché con gli amplificatori negli stadi. Dovrebbero moltiplicare per dieci il numero dei concerti, guadagnare molto meno, ma renderebbero onore al loro talento segnalando rispetto per coloro che li apprezzano”.
La militanza di Vessicchio si manifesta la domenica mattina, quando con il movimento di solisti “Il sesto armonico” (quintetto d’archi e fisarmonica) porta la musica fra quelli che alla musica non possono arrivare, in ospedali e centri anziani: un’iniziativa nata in sintonia con un’azienda che non pubblicizza il proprio intervento. La militanza di Vessicchio è nei suoi studi sugli effetti prodotti dalle combinazioni di suoni, un pensiero che fa riferimento ai principi del contrappunto. “La chiamo musica armoniconaturale. Se le mucche del Wisconsin producono più latte ascoltando Mozart, mi sono detto vediamo cosa succede su altri organismi viventi. La musica sollecita l’aria. Quando gli armonici si combinano in modo naturale, l’equilibrio delle loro attrazioni è pacifico. L’opera di Mozart è quella che detiene il più alto tasso di elementi del genere”. Vessicchio fa come una volta i bambini. Ha smontato il giocattolo per capire il meccanismo, poi lo ha rimontato per conto suo, scrivendo pezzi con quelle caratteristiche. Ha seminato la sua musica conducendo esperimenti in due serre di pari dimensioni e a parità di condizioni. “Nella serra in cui la produzione veniva accompagnata dalla musica, i raccolti sono stati tre e con venti giorni d’anticipo. Nell'altra si sono registrate criticità sulle foglie e sui frutti”. Bisogna leggere certe connessioni invisibili fra i suoi racconti per capire il prossimo obiettivo della terapia-Mozart. La reazione dell’uomo. “Sul sistema empatico finora hanno lavorato gli scienziati, non i musicisti. Eppure, ci sono persone che sul pentagramma vedono le note colorate. Sinestesie. Non deve sorprendere. I microbi esistevano prima che col microscopio potessimo scoprirli, la musica esisteva prima che ne scrivessimo le regole”. Dirige l’orchestra: il maestro Peppe Vessicchio.
(la Repubblica, 14 febbraio 2016)
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