Il bambino che voleva diventare Mastroianni adesso passa per una specie di Valeria Marini. Quando il rilevatore Auditel registra il picco di ascolti della prima serata alle 23 e 41, nell'attimo cioè in cui non canta nessuno, mentre Garko sta presentando Rocco Hunt, tutto diventa chiaro. L'Italia è radunata lì per vedere quello che combina. Del resto il record d'ascolti una volta lo fece il segnale orario.
Lui comunque l'ha presa bene. Impassibile. «Ho leccucchiato solo qualcosa, leggicc…, insomma non voglio leggere troppo». Ha passato i 12 chilometri che separano Sanremo dal Grand Hotel del Mare di Bordighera, dove dorme, a farsi fare il riassunto delle cattiverie dette su di lui, scoprendo che 12 chilometri non bastavano. Secondo le rilevazioni Nielsen, il 5% dei tweet gli sono stati dedicati: 20.963 dalle 20 fino alla sigla finale. Reputation Manager, che ne ha analizzato il contenuto, fa sfoggio di perifrasi: "La maggior parte dal tono ironico".
Giacca di pelle, occhiali infilati nello scollo di una canotta nera, t-shirt bianca sblusata, Garko si difende con sprezzo dell'autogol: «Ho sempre detto che qui sarei stato me stesso. Ho intenzione di andare avanti in questo modo». Brivido in Rai e boato femminile nel Paese. La Gialappa's al dopofestival ha infierito sullo sguardo perso nel vuoto. «Sarebbe impossibile imparare questi testi a memoria », replica lui facendo rivoltare Laurence Olivier nell'aldilà. «Non sono un robot». Ma come diceva Mina anche un uomo può sempre avere un'anima.
Non vive un giorno facile, il povero Garko. A pranzo si rifugia a Bordighera, stacca, si isola. Sfila una cartina dalla tasca e si prepara una sigaretta. Altre verranno fino a sera. «Lo so che non è finita », confessa stralunato allo staff, ma non prende mai in considerazione l'ipotesi di spiegare i suoi impacci con quel che gli è capitato prima del via: la tragedia della proprietaria nella villa in cui soggiornava a Solaro, il ricovero in ospedale, lo shock, i giorni con il collarino e i cerotti.
Garko si rintana nel camerino di otto metri quadri al secondo piano: divanetto, tv, frigo, bagno, banco trucco, finestra. Per raggiungere il palco, quando lo chiamano per la seconda serata, costeggia quella che qui chiamano in modo principesco la "green room", in realtà uno scantinato con del linoleum verde.
È quello il momento in cui l'uomo eletto come il più bello d'Italia nel 1991, il primo maschio italiano a svestirsi per un calendario, deve decidere se affondare con il suo nome d'arte da re delle B-fiction o riscoprire dentro di sé il ragazzo che voleva farcela, Dario Oliviero all'anagrafe, capace di dimagrire 14 chili per un film con Ozpetek e di studiare canto per girare con Zeffirelli. Allora fa l'autoironico con la maestra di Ceresole Reale: «Dicono che devo imparare a leggere meglio». Poi con la Kidman gli scappa di evocare Montale: "Ho sceso la scala". C'è ancora una possibilità. Svegliarsi e convincersi che tutto sia stato finzione, che tutto sia accaduto in un universo parallelo, ma è più da Donnie Darko, non da Gabriel Garko. Pure Marisa Allasio nel '57 infilò una papera dietro l'altra, Nunzio Filogamo la escluse dalla finale. Lei che era "povera ma bella". Garko non ha neppure il vizio della povertà. «Pensavo di essere obbligato a far capire alla gente che non ero un deficiente. Adesso me ne frego», disse nel 2001. Leggero come una valletta ideale. E noi invece a ridere di lui, l'incarnazione dell'uomo che non deve chiedere mai, ma che se per caso si trovasse a dover chiedere, potrebbero non venirgli le parole. Ovviamente la nostra è tutta invidia.
(la Repubblica, 11 febbraio 2016)
Giacca di pelle, occhiali infilati nello scollo di una canotta nera, t-shirt bianca sblusata, Garko si difende con sprezzo dell'autogol: «Ho sempre detto che qui sarei stato me stesso. Ho intenzione di andare avanti in questo modo». Brivido in Rai e boato femminile nel Paese. La Gialappa's al dopofestival ha infierito sullo sguardo perso nel vuoto. «Sarebbe impossibile imparare questi testi a memoria », replica lui facendo rivoltare Laurence Olivier nell'aldilà. «Non sono un robot». Ma come diceva Mina anche un uomo può sempre avere un'anima.
Non vive un giorno facile, il povero Garko. A pranzo si rifugia a Bordighera, stacca, si isola. Sfila una cartina dalla tasca e si prepara una sigaretta. Altre verranno fino a sera. «Lo so che non è finita », confessa stralunato allo staff, ma non prende mai in considerazione l'ipotesi di spiegare i suoi impacci con quel che gli è capitato prima del via: la tragedia della proprietaria nella villa in cui soggiornava a Solaro, il ricovero in ospedale, lo shock, i giorni con il collarino e i cerotti.
Garko si rintana nel camerino di otto metri quadri al secondo piano: divanetto, tv, frigo, bagno, banco trucco, finestra. Per raggiungere il palco, quando lo chiamano per la seconda serata, costeggia quella che qui chiamano in modo principesco la "green room", in realtà uno scantinato con del linoleum verde.
È quello il momento in cui l'uomo eletto come il più bello d'Italia nel 1991, il primo maschio italiano a svestirsi per un calendario, deve decidere se affondare con il suo nome d'arte da re delle B-fiction o riscoprire dentro di sé il ragazzo che voleva farcela, Dario Oliviero all'anagrafe, capace di dimagrire 14 chili per un film con Ozpetek e di studiare canto per girare con Zeffirelli. Allora fa l'autoironico con la maestra di Ceresole Reale: «Dicono che devo imparare a leggere meglio». Poi con la Kidman gli scappa di evocare Montale: "Ho sceso la scala". C'è ancora una possibilità. Svegliarsi e convincersi che tutto sia stato finzione, che tutto sia accaduto in un universo parallelo, ma è più da Donnie Darko, non da Gabriel Garko. Pure Marisa Allasio nel '57 infilò una papera dietro l'altra, Nunzio Filogamo la escluse dalla finale. Lei che era "povera ma bella". Garko non ha neppure il vizio della povertà. «Pensavo di essere obbligato a far capire alla gente che non ero un deficiente. Adesso me ne frego», disse nel 2001. Leggero come una valletta ideale. E noi invece a ridere di lui, l'incarnazione dell'uomo che non deve chiedere mai, ma che se per caso si trovasse a dover chiedere, potrebbero non venirgli le parole. Ovviamente la nostra è tutta invidia.
(la Repubblica, 11 febbraio 2016)
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