tag:blogger.com,1999:blog-39195981331400956032024-03-18T17:32:32.461+01:00 il divano sul cortileun blog che cammina con la bocca salataachttp://www.blogger.com/profile/02839367301230689930noreply@blogger.comBlogger1753125tag:blogger.com,1999:blog-3919598133140095603.post-21820539939891531112023-01-28T11:28:00.002+01:002023-01-28T11:28:00.234+01:00Galeano<p>L’ultima partita giocata ai Mondiali dalla Nazionale finì con un morso di Luis Suárez a Chiellini. Eravamo nel punto più orientale del Sudamerica, a Natal, più o meno dove arrivò Vespucci a inizio Cinquecento, la terra dei Pitaguary, i leggendari mangiatori di gamberi. L’Italia si stava infilando in un cono nero che durerà almeno fino al 2026, dodici anni senza vedere la Coppa, senza questo rito collettivo che scandisce la vita di un paese in ogni aspetto, la cultura, l’economia, il cibo. Inconsapevole allo stesso modo, l’Uruguay stava invece per perdere la voce che ha raccontato questo incantesimo meglio di chiunque altro al mondo, un tipo che nei giorni dei Mondiali appendeva un cartello sulla porta di casa, cerrado por fútbol, chiuso per calcio.</p><p>Eduardo Galeano sarebbe morto nell’aprile del 2015, dieci mesi dopo il gol di Godin a Buffon. Messi gli aveva fatto arrivare poco tempo prima una sua maglia. Aveva letto un giudizio espresso sul suo conto, se ne era innamorato. Galeano sosteneva che Maradona tenesse sempre la palla attaccata al piede, ma Leo di più, Leo non se la staccava mai dall’interno, un fenomeno oltre la fisica, impossibile per la scienza, eppure vero. Perché l’aveva detto Galeano. È lo scrittore più citato da chi non vuole vergognarsi di confessare la propria sbandata per il calcio, un bel paradosso per un intellettuale insofferente verso la santa madre chiesa della letteratura, dove da sinistra - con Jorge Luis Borges per primo - si snobbavano e si snobbano i moti del pallone, per via di quella storia dell’oppio dei popoli. Gianni Mura ha detto: “A cosa serve, in definitiva, leggere Eduardo Galeano? A non smettere di sognare, di lottare e di stare, per quanto è dato, dalle parti del cuore”.</p><p>Arriva a fine mese in Italia una sua raccolta di pensieri e riflessioni su questa malattia infantile che non ci lascia nemmeno da adulti, si intitola proprio Chiuso per calcio, Cerrado por fútbol in originale, tradotto per Sur da Fabrizio Gabrielli, a sua volta autore di un recente libro su Messi [edizioni 66thand2nd]. Ospita il Galeano più puro, fatto di schegge e di frammenti, di sentenze affilate, memorabili quanto quelle più celebri in cui si definisce cacciatore di sogni e mendicante di bellezza, dentro “uno sport specchio del mondo”, eppure consapevole del suo “triste viaggio dal piacere al dovere”, dove l’utile avrebbe preso il posto dell’allegria, sostituendo “quella follia che rende l’uomo bambino per un attimo”.<span></span></p><a name='more'></a><p></p><p>Il calcio di Galeano è un mosaico che tiene insieme l’attrazione per l’ormai famosa garra charrúa di Obdulio Varela con le finte e i dribbling del malandro Garrincha, la leggenda di Pelé con la bellezza di Maradona, senza chiedersi chi sia stato fra i due il più grande, anzi ribaltando i giudizi più diffusi su entrambi. In O Rei vedeva un calciatore “più ballerino, più plastico”, in Diego uno più completo, capace “di essere in campo e allo stesso tempo sulla torre più alta dello stadio, a osservare la partita”. Un dribbling ai luoghi comuni. Non c’è da stupirsi. Nel 2009 Hugo Chavez, presidente del Venezuela, regalò a Obama un’edizione in inglese del libro di Galeano forse più famoso, Le vene aperte dell'America Latina. Lo aveva scritto a 31 anni, una invettiva lanciata contro gli sfruttatori della sua terra. Quando il libro entrò per quella via tra i primi dieci della classifica di Amazon, Galeano fece sapere che non lo avrebbe mai più riletto. Perché alla fine i poeti fanno così scartano e fuggono dall’ovvietà.</p><p>Prima di diventare giornalista e scrittore, aveva fatto il bigliettaio, il dattilografo, l’operaio, l’aiuto fotografo, il fattorino in una banca. Aveva imparato in quegli angoli di società che bisogna ascoltare che cosa hanno da dire gli invisibili e i poveri, le voci distanti dal potere, un’eco che avvertiva come la versione bugiarda della realtà. Solo che dovremmo metterci d’accordo su cosa sia falso e cosa vero. A Galeano piaceva credere che Moacyr Barbosa, il portiere brasiliano maledetto dal suo popolo dopo la sconfitta del 1950 nella partita decisiva per il titolo contro l’Uruguay, avesse comprato la porta dei due gol subiti, usando i pali per alimentare una sera il fuoco del barbecue. Nell’introduzione a Chiuso per calcio, Daniele Manusia ricorda che il giornalista Ezequiel Fernández Moores aveva inizialmente provato a confutare quel racconto, salvo arrendersi ai principi dei galeanesimo, sentendosi all’improvviso “un idiota dell’oggettività”. I sudamericani hanno inventato i gesti magici del calcio, sono stati i primi a fare un dribbling, i primi a colpire la palla in rovesciata, i primi a segnare dalla bandierina dell’angolo. Hanno portato in campo la giravolta sul pallone [ruleta o veronica] e i guanti per i portieri. Ma nessuna di queste meraviglie sarebbe davvero tale, se non ci avessero anche insegnato a farne materia di racconto, con Osvaldo Soriano in Argentina, Eduardo Galeano sull’altra sponda de la Plata, fratelli irregolari, due esuli in fuga dai regimi al governo nelle loro terre. Galeano è stato una specie di Salgari del calcio. Ha raccontato verità che aveva immaginato. Gli piaceva il senso letterario presente in uno slogan degli Indignados in Spagna: “Se non ci farete sognare, non vi faremo dormire”. Da Juan Carlos Onetti, aveva imparato che le uniche parole che meritano di esistere, sono quelle che migliorano il silenzio. È stato uno scrittore leggero e un feroce riscrittore, capace di tornare su un avverbio una, due, venti volte, a caccia di uno stile semplice, nudo, senza pelle, né grasso, diceva, fatto esclusivamente di carne e di ossa. Cercare la parola, incontrarla, dare musica a un testo costa fatica, può assomigliare a un dolore o alla cosa più vicina al sesso. Galeano ha insegnato a intere generazioni come si scava dentro le frasi, per stanare quella malinconia irrimediabile che tutti sentiamo dopo l’amore, o alla fine di una partita di pallone. Anche questa, ovviamente, è sua.</p><p>[uscito sul <i>Venerdì </i>del 20 gennaio 2023]</p>achttp://www.blogger.com/profile/02839367301230689930noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3919598133140095603.post-5755295766603630752022-12-28T13:57:00.012+01:002023-01-17T14:53:08.042+01:00Perché vanno ancora a miss Italia<p></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: left;"><a href="https://www.dietrolanotizia.eu/wp-content/uploads/2022/12/Finaliste-Miss-Italia-2022_Patrizia-Mirigliani.jpeg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="533" data-original-width="800" height="279" src="https://www.dietrolanotizia.eu/wp-content/uploads/2022/12/Finaliste-Miss-Italia-2022_Patrizia-Mirigliani.jpeg" width="399" /></a></div><div><p style="text-align: left;"><span style="font-family: inherit;">Le guardi, le ascolti, e non c’è più una miss che voglia essere solo una miss. Una si è presentata con un Master in giornalismo sportivo, un’altra è iscritta a una facoltà trilingue, c’è chi si sta laureando in Scienze internazionali, chi in Filosofia, chi farà la cardiochirurga. La faccenda si fa complessa. Il passato ha sempre il pregio di essere più nitido. Chi vinceva, si faceva chiamare reginetta. Reginetta di bellezza. Era l’Italia in cui l’educazione delle bambine poteva passare dall’attesa di un principe più o meno azzurro. Te ne stavi scalza ad aspettare, lui portava una scarpetta - spesso senza citofonare - e se la misura era giusta, smack, vissero felici e contenti. Eri miss qualcosa e in fondo quella era la tua strada.<br /></span><span style="font-family: inherit;">Sono saltati gli schemi. Per capirci qualcosa, bisogna arrivare in questo albergone romano oltre la via Aurelia, alla fine di una serie di collegi pontifizi, dentro una sala allestita con diciotto file di sedie dallo schienale in velluto rosso. Sarebbero tristi per un convegno di radiologi, figurarsi per la finale di miss Italia, che ai bei tempi rendeva glamour il nome di Salsomaggiore. È qui che ha chiesto asilo politico questo concorso che era un romanzone popolare, finito in esilio in un centro congressi, senza diretta tv, sulla zattera dello streaming via social, stritolato da una serie di veti perché “i valori non sono più in linea con quelli di oggi”.<br /></span><span style="font-family: inherit;">È qui che bisogna venire a chiedere cosa spinga 21 ragazze scelte fra ventimila, a intrecciare i loro percorsi di emancipazione con una sfilata in passerella, dentro un costume da bagno e con un numerino sul petto. Scoperta: non sfilano più ma dialogano, indossano un abito e il numerino da fiera è stato abolito. Patrizia Mirigliani è la figlia dello storico patron Enzo. È lei che regge il gioco, allarga le braccia, dice di non sapere perché non ci sia più spazio in tv - quando in tv è pieno di ragazze uscite dal concorso. “Siamo un fenomeno di costume, non un concorso di bellezza. Se vogliamo parlare di libertà, non si può impedire a una ragazza di indossare un costume di bagno, solo per non essere etichettata come superficiale. Sulle spiagge d’estate se ne vedono di più succinti. Da miss Italia sono arrivate donne nella politica, nello spettacolo, nel giornalismo”. La vincitrice di un anno fa, Zeudi di Palma, è appena stata invitata al ministero della Cultura per la giornata del contrasto alla violenza contro le donne. E allora i valori: sono in linea o non sono in linea?</span></p><span><a name='more'></a></span><br />Zeudi viene da Scampia. I genitori sono tutt’e due biondi con gli occhi azzurri, lei è nata scura, “e allora mi hanno chiamato come l’attrice, la conosce Zeudi Araya?”. Studia sociologia, spiega che “la mia generazione deve saper fare tre cose per sperare di riuscire in una. Se vuoi puntare solo sul corpo, fai la modella. Sfili e taci. Chi viene a miss Italia, spera di entrare nello spettacolo dalla porta principale”. Si chiamava Bortolo Galletto, il primo a dubitare. Era consigliere della Banca d’Italia, tenente colonnello di complemento in Fanteria, senatore eletto nel 48. In una interpellanza si lamentò per il dilagare dei concorsi di bellezza. Sosteneva che potessero avere brutte influenze sulla gioventù. La polizia fece irruzione a Rimini, chiesero i documenti di identità alle partecipanti e le minorenni furono escluse. <br />Una settantina d’anni dopo, Patrizia Mirigliani annusa l’aria che tira e parla di pregiudizi, di ideologia sbagliata. Ce l’ha con “la signora Boldrini che pensava di risolvere i problemi delle donne cancellando miss Italia dalla tv, non mi pare che abbia raggiunto il suo scopo. La bellezza non può essere una colpa. Miss Italia ha interpretato continuamente i cambiamenti della società”. Nel tempo c’è stata la prima miss Italia sposata, la prima ragazza lesbica, l'apertura alla taglia 44, la prima afrodiscendente che finì sulla copertina del Time, la prima con una protesi, Miss Coraggio che negli anni 90 era stata vittima di uno stupro di gruppo. Al paese la accusavano di aver denunciato. “Anche lei aveva la colpa di essere bella”. Come si cambia, per non morire. Gettate le fasce e i numerini, miss Italia ha deciso di mettere in mostra le storie. C’è Giulia Cordaro che dal Piemonte racconta di “aver subito violenza”, il momento più buio dal quale è uscita con l’aiuto di professionisti e della famiglia. Eleonora Lepore dall’Alto Adige ha sofferto il bullismo. Cecilia Alma Levita dall’Umbria racconta “di aver passato l’intera adolescenza a nascondersi dentro un involucro di plastica, il busto”. Due anni fa si è operata. Recita poesie di Lepoardi.<br />Insomma, va così. Patrizia Mirigliani dice: “Non sono io che cerco queste storie di proposito. Non inseguo la società. Sono le ragazze che la portano in concorso. Non è un mondo a parte. Le miss non vivono separate delle altre donne del Paese. Mio padre è morto nel 2011, l’anno dopo è scaduto il contratto in Rai e non l’hanno rinnovato. Mi chiedo se sia una coincidenza. Finché era vivo, io ero una donna protetta e lui un uomo compreso. Ora che miss Italia ha smesso di essere una cosa da uomini, con una donna alla guida, incontra veti. A gennaio, compie 84 anni. Senza un solo scandalo. Ha reso indipendenti tante donne, una donna indipendente è libera di andarsene di casa quando vuole. Non spingiamo le nostre ragazze nel salotto del produttore che ti invita a cena. Chi vince, viene seguita e accompagnata per un anno da un avvocato nelle sue scelte”. Stasera gioca in casa Federica Maini, miss Roma. Racconta di aver sofferto per la magrezza e di aver subito bullismo a scuola. Partecipa - dice nella bio - “per superare la sua insicurezza”. Che bellezza. Senza offesa. </div><div><br />[uscito su <i>Repubblica Roma</i> del 21 dicembre 2022]</div><p></p>achttp://www.blogger.com/profile/02839367301230689930noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3919598133140095603.post-72288944795054645892022-12-21T14:20:00.003+01:002023-01-17T14:55:25.051+01:00Il Marocco di Centocelle<p></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: left;"><a href="https://zetaluiss.it/wp-content/uploads/2022/12/marocco6-scaled.jpg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="534" data-original-width="800" height="217" src="https://zetaluiss.it/wp-content/uploads/2022/12/marocco6-scaled.jpg" width="326" /></a></div>È nelle apparenti minuzie che si costruisce una casa comune. Un piatto di polenta, per esempio. Le donne cattoliche la prepareranno senza salsiccia e dalla moschea porteranno il cous cous, come accade da tre anni nella domenica del mercatino di Natale, alla parrocchia San Felice da Cantalice. È davanti alla facciata di questa chiesa a forma di capanna che mezzo secolo fa passeggiava l’Accattone di Pasolini, appoggiando il braccio sinistro sulle spalle di Stella, “lo sai che io già te vojo bene, me pare che pure te c’hai bisogno d’un conforto”. Centocelle era margine, era un ciglio di Roma, dieci anni prima c’era venuta la regina Elisabetta in visita e durante la guerra i partigiani avevano insediato un comando sotto il pergolato dell’osteria in piazza Mitri. Era il tempo in cui Sergio Citti diceva che i Parioli sono “er contrario de’ ‘e borgate”<p></p><p>Ora le borgate sono periferie, si somigliano tutte, sul retro di San Felice hanno dipinto un murale di Baglioni - “strada facendo, vedrai | che non sei più da solo” - perché da ragazzetto veniva a suonare la chitarra in chiesa. La parrocchia di frate Mario Fucà è diventata il centro di un corpaccione che fa 54 mila abitanti, il 18% stranieri. Se domani il Marocco dovesse aggiungere un’altra perla al suo storico Mondiale, se un gol in Qatar dovesse far ballare di nuovo tutti all’angolo di via degli Aceri, allora domenica la polenta col cous cous sarà nei piatti quando mancheranno poche ore alla finale, e a Centocelle saranno tutti sotto una stessa bandiera. Il centro di Roma è lontano 7 km. Nel 61 era un viaggio. Ora che il mondo ti entra nella vita con un telefonino, sono sei fermate di metro C che Accattone non aveva. Alla Casa del popolo in via delle Acacie, Teresa Mecca racconta dei corsi di italiano per adulti, stranieri e immigrati. “Si sono iscritti in trenta”, dice, “anche egiziani, tunisini, una siriana”. L’ambizione è aprire uno sportello che fornisca assistenza non solo burocratica, ma di partecipazione civica. “Forse le comunità sono distanti - dice frate Mario - forse non sono tutte rose e fiori, ma esiste un affiatamento tra le persone che costruiscono ponti e aggregazione. Qui non ci sono mai stati episodi di intolleranza, neppure di rifiuto reciproco. Se vogliamo vivere in pace, dobbiamo scommettere sulla valorizzazione della diversità. Mi pare che la comunità musulmana gradisca quest’attenzione”. </p><p><br /><span></span></p><a name='more'></a><p></p><p>La moschea al-Huda è a un centinaio di passi. Il suo nome significa “la retta via”. Sotto la guida dell’imam Mohammed Ben Mohamed accoglie fedeli da più di 25 paesi, la maggior parte dei quali maghrebini. È stata una delle prime di Roma, il sermone di mezzogiorno del venerdì [la khutba] si tiene in arabo e italiano. Due figli dell’imam sono nati qui. Quando è stato formato il gruppo degli scout musulmani, hanno iniziato a frequentare più spesso i cattolici. Gli incendi dolosi di tre anni fa alle attività commerciali del quartiere si spinsero anche nell’area marocchina, dove adesso le bandiere sono appese alle vetrine. Al numero 12 di via Pioppi, macelleria Baraka, c’è la maglia del terzino Hakimi e un televisore davanti al quale si radunano una trentina di tifosi ogni volta. È il negozio di Larbou Sadik, da 22 anni in Italia, prim’ancora autista e frigoriferista, i condizionatori se li è montati da solo. I quattro figli sono nati in Italia e dice che se l’avversaria fosse stata la Nazionale di Mancini, non la Francia, avrebbero avuto il cuore a metà, perché “casa è dove sei nato, ma pure dove trovi il piatto a tavola”.</p><p>Al Mercato Arabo, Ibrahim Rabeh racconta la sua storia di figlio di un ambulante partito dal Marocco, girovago per l’Europa, stregato da Napoli, “la città per la quale ha sviluppato un senso di appartenenza che ci ha trasmesso. A Napoli non sapevo di essere marocchino”. Lui e suo fratello sono nati là. Il padre incontrò per caso una donna tunisina, un’insegnante in gita scolastica. Volò a casa sua, la chiese in sposa alla famiglia. È uno dei molti immigrati che si oppongono con fierezza ai soprusi della camorra, una verità rimossa dai nostri racconti dell’immigrazione. “Non pagava il pizzo. Gli hanno bruciato due volte il negozio. Quando torno a Napoli, vado a guardare il segno dei proiettili sulla saracinesca. Teneva testa al Biondo nel rione, finché un giorno al Tg capimmo dalle immagini dell’arresto chi fosse davvero questo Biondo”. </p><p>Ecco cosa succede quando segna il Marocco. Questa è la tempesta emotiva che scatena. Ibrahim è cittadino italiano. Ha studiato antropologia a Roma, suo fratello ingegneria a Napoli. Hanno una sorella infermiera, l’altra insegnante. “Farcela con un cognome arabo è un’impresa. Penso che Fatima c’è riuscita solo perché è bianca come una mozzarella. Eravamo invisibili, ora col Mondiale ci vedono. Uno di seconda generazione vive tutto peggio. Cerca un equilibrio nella sua identità in bilico. Non è più solo musulmano, scopre che non sarà mai del tutto italiano. Più sei integrato, più ti fa male. Puoi diventare chi vuoi, resterai quello dei cammelli e delle 72 vergini. Penso alle bambine arabe del tutto integrate, immerse nella cultura italiana fino ai suoi aspetti pop, pubblicano video su TikTok con le compagne di scuola, e un giorno provano lo shock di sentirsi chiamate marocchine di merda. Se non ci fosse un’intera comunità a mediare, questo odio si potrebbe trasformare in un clima da banlieue. Non si può elemosinare un’appartenza, geografica e sentimentale. Ecco perché gli Hakimi e gli Ziyech sono tornati a giocare per il Marocco. Il mio rancore l’ho trasformato in freddezza. La parola e l’ironia battono il razzismo. Ai più piccoli dico: parlate. Anche col confronto duro si costruisce qualcosa”. Se poi segna En-Nesyri ancora meglio. Non sei di Centocelle, se non tifi per il Marocco.</p><p>[uscito su <i>Repubblica Roma</i> il 14 dicembre 2022]</p>achttp://www.blogger.com/profile/02839367301230689930noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3919598133140095603.post-85432646593492490002022-12-15T13:35:00.018+01:002023-01-17T14:54:38.798+01:00La magia che Marco D'Amore vede in Napoli<p><span style="font-family: inherit;"><span face="Arial, Helvetica, sans-serif" style="background-color: white; color: #4b4b4b; font-size: 14px;"></span></span></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: left;"><a href="https://www.cinematographe.it/wp-content/uploads/2022/12/NapoliMagica5.jpg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="451" data-original-width="800" height="222" src="https://www.cinematographe.it/wp-content/uploads/2022/12/NapoliMagica5.jpg" width="393" /></a><span style="font-family: inherit;"><span face="Arial, Helvetica, sans-serif" style="background-color: white; color: #4b4b4b; font-size: 14px;"></span></span></div><span style="font-family: inherit;"><span face="Arial, Helvetica, sans-serif" style="background-color: white; color: #4b4b4b;"><span style="font-family: inherit;">C'è un uomo esageratamente anziano accecato da una luce in uno scrigno. L'ha aperto con le mani che tremano per l'età, per la fatica di una ricerca. Ha percorso i sentieri di tufo del sottosuolo, si è tuffato nel golfo, ha visto spiriti e fantasmi. Ha pure baciato una sirena, non una qualunque, Partenope, per capire da dove vengano miti e leggende della città. Marco D'Amore è stato al trucco sei ore, prima di girare la scena chiave del suo film Napoli magica, nei sotterranei di Castel dell'Ovo, dove Virgilio nascose l'uovo su cui si posano l'edificio e la città, guai a romperlo, sarebbe una sciagura.</span></span></span><p></p><p><span style="background-color: white; color: #4b4b4b; font-family: inherit;">«È un progetto che mette in scena un fallimento — dice — l'impossibilità di raccontare Napoli nella sua pienezza. Come ogni città-mondo ». Prodotto da Sky e Mad Entertainment, il film sarà fuori concorso al festival di Torino, in sala tre giorni dal 5 dicembre, con un linguaggio a metà tra documentario e finzione. È un viaggio nelle credenze di Napoli e dentro ciò che di Napoli si crede, nelle convinzioni dei vivi e nel culto dei morti, un'indagine su Storia e percezione, complessi di superiorità e inferiorità, sul misterioso bisogno di affetto e la necessità di piacere, sulla separazione tra élite e popolo, in un posto dove stanno insieme l'illuminismo di Vico e il corno rosso della superstizione. Ed è curioso che questo percorso nell'aldilà lo faccia il volto che in Gomorra era l'Immortale.</span></p><p style="background-color: white; border: 0px; color: #4b4b4b; margin: 0px; padding: 0px; vertical-align: baseline;"><span style="font-family: inherit;">«È il mio desiderio di conoscenza, una spinta che sento da ragazzino. Sono andato via a 18 anni, sono tornato a 30. Ho studiato a Milano, ho girato il mondo con la compagnia di Servillo. Mamma mi portava al Duomo, papà allo stadio. Sono le due passeggiate che mi hanno formato, ma il volto meno folkloristico di Napoli si conosce poco, anche in città. Pasolini ci chiamò una tribù che ha deciso di estinguersi, eppure esiste qui una spinta alla modernità e al progresso. Pazienza se mi sento contestare di non mettere distanza tra me e un'eredità artistica di cui non ho alcun merito, di essere troppo napoletano nel punto di vista politico».</span></p><p style="background-color: white; border: 0px; color: #4b4b4b; margin: 0px; padding: 0px; vertical-align: baseline;"><span style="font-family: inherit;">Tra il cimitero delle Fontanelle, le catacombe di San Gaudioso e la cappella del Cristo Velato, il film è un atto di devozione. Eppure, D'Amore tradisce il piacere di camminare nei risvolti, sui sentieri della Napoli scientifica. Mette in scena l'afasia del popolo incapace di definire cosa siano magia e bellezza. Chiude con una sorpresa, uno sberleffo tra Collodi e Apuleio in cui pare invocare una moratoria, il silenzio dell'ignoranza su Napoli. C'è tanto studio dell'antropologia cittadina in dettagli, eccessi, scene comiche, omaggi a Totò e Peppino.</span></p><p style="background-color: white; border: 0px; color: #4b4b4b; font-size: 14px; margin: 0px; padding: 0px; vertical-align: baseline;"><span style="font-family: inherit;"><br /></span></p><p style="background-color: white; border: 0px; color: #4b4b4b; font-size: 14px; margin: 0px; padding: 0px; vertical-align: baseline;"><span></span></p><a name='more'></a><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><br /></div><span style="font-family: inherit;">«Ho girato un film di stereotipi. Ogni scena ne presenta uno. Volevo raccontare il conflitto dei napoletani con essi». Non sfugge che la sirena gli chieda perché l'abbia abbandonata. «Il canto di Partenope — dice D'Amore — è inascoltato da chi la abita, e mi ci metto dentro. Per essere fuggito, per non aver ancora costruito qualcosa di concreto per la città, per la responsabilità che avverto di essere un piccolo rappresentante che parla a tanti». Ma a Partenope non sente di dover chiedere perdono per essere stato un volto della cartolina nera. «Sono un figlio di questa città, studio le cose che faccio. Quando ho accettato Gomorra — spiega — immaginavo le polemiche. Ma con Gomorra, la sirena mi è parso invece di ascoltarla, per accendere una luce su una realtà da cambiare. Mi rifiuto di addentrarmi in tribune politiche. Non mi interessa. Dico solo che gli ultimi 5 anni di Barbera a Venezia mostrano di quali visioni siano capaci gli artisti napoletani, partendo dall'elemento base della narrazione che è il conflitto. Napoli è unica per raccontare il mondo attraverso sé stessa ». D'Amore è nato nel 1981, quando usciva Ricomincio da tre. Dice che il sogno di Troisi oggi è impossibile. «Impossibile che Napoli diventi normale, per il processo storico da cui nasce, per la sua biologia, la terra tellurica, la maniera furente di vivere le passioni. Una città quasi sudamericana, ma da cittadino sento di esigere normalità nell'eguagliare i diritti delle nostre periferie a quelle di altre città. Napoli al cinema per me è Rosi. Me lo fece conoscere una professoressa delle medie, Maria Perna. Considerava che i 13 anni non fossero l'età della stupidità, ma dell'apprendimento di realtà scomode. Oggi raccontiamo i ragazzi come morti viventi. Non sono così. La serata cinema la faccio con le miei nipoti. È l'eredità di tutte le Maria Perna che lavorano nascoste a Napoli».</span><p></p><p style="background-color: white; border: 0px; color: #4b4b4b; font-size: 14px; margin: 0px; padding: 0px; vertical-align: baseline;"><span style="font-family: inherit;"><br /></span></p><p style="background-color: white; border: 0px; color: #4b4b4b; font-size: 14px; margin: 0px; padding: 0px; vertical-align: baseline;"><span style="font-family: inherit;">[su <i>Repubblica</i> del 15 novembre 2022]</span></p>achttp://www.blogger.com/profile/02839367301230689930noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3919598133140095603.post-43934907009368527052022-12-12T14:25:00.002+01:002023-01-17T14:56:11.381+01:00La Roma di Ornella Vanoni<div style="text-align: left;"><span style="font-family: inherit;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: left;"><a href="https://www.cinemaepsicologia.it/wp-content/uploads/2022/04/i-viaggiatori-della-sera-1979-ugo-tognazzi-recensione-932x460-1.jpg" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" data-original-height="395" data-original-width="800" height="170" src="https://www.cinemaepsicologia.it/wp-content/uploads/2022/04/i-viaggiatori-della-sera-1979-ugo-tognazzi-recensione-932x460-1.jpg" width="343" /></a></div>C’è un chilometro di distanza tra l’Auditorium della Conciliazione e Regina Coeli, una passeggiata d’una dozzina di minuti tra il palco di domani sera e le celle scure dove in fondo tutto è cominciato, dove ‘na campana sona a tutti l’ore, il punto metaforico da cui è partita la parabola del successo di Ornella Vanoni. Giorgio Strehler, Fausto Amodei e Fiorenzo Carpi le avevano cucito addosso un repertorio e un personaggio, la cantante della mala. Era una 23enne reduce da un debutto in scena ne I Giacobini di Zardi. Si inventò un genere, di cui era l'interprete ufficiale. I giornali dell'epoca parlavano di "voce interessante da mezzo soprano, calda e penetrante", di "capacità scenica non frequente", e in uno dei pezzi più popolari cantava che le Mantellate so’ delle suore, ma a Roma so’ sortanto celle scure. Era stato costruito apposta perché sembrasse il recupero colto di una tradizione popolare. Invece Strehler era triestino, Amodei torinese, Carpi milanese come lei. Lo presentarono al festival dei due mondi di Spoleto. Cantava il mondo chiuso dentro la sezione femminile del carcere di via Lungara, nato dalla trasformazione di un monastero seicentesco delle Carmelitane Scalze, ma di secolare nella canzone non c’era nulla, una fake-song, sebbene stesse bene pure nel repertorio folk di Gabriella Ferri e Lando Fiorini.<br /></span><span style="font-family: inherit;">La giovane Ornella che aveva preso il diploma per fare l’estetista perché «avevo l'acne», si ritrovò cucita sulla pelle l’etichetta di cantante cerebrale. Nei titoli era accostata spesso così a Laura Betti, capace d’essere insieme sia felliniana sia pasoliniana, oltre che attrice preferita di Bellocchio. L’Ornella delle Mantellate sparì presto dalla scena. Divenne quasi subito molto altro, si diede alla prosa, al cinema, alla musica leggera. Roma ebbe di nuovo un ruolo, venne per sposare l’impresario Lucio Ardenzi, uscendo dalla figura politicamente scorretta di cantante della mala, quelle esibizioni che erano state raccontate dai critici del 1959 come una “apparizione espressionista, cantava guardando il soffitto, pallida, gli occhi brucianti, le mani bianchissime e lunghe nelle nella semioscurità della sala”. </span></div><div style="text-align: left;"><span style="font-family: inherit;"><br /></span></div><div style="text-align: left;"><span><a name='more'></a></span><span style="font-family: inherit;"><br /></span><span style="font-family: inherit;">Alla vigilia della tappa romana di questo nuovo tour, dopo il numero zero di Mantova e la prima uscita di Padova, Ornella Vanoni racconta al telefono che “a Roma ho vissuto per 11 anni, ho ricordi belli e brutti, ho fatto molta televisione. Ho abitato prima a Prati e poi sull’Appia Antica, una città bellissima”. Anche una cine-città di lì a poco, con una dozzina di film, il primo per la regia di Corbucci, si intitolava Romolo e Remo. “Se capita - dice in una pausa delle prove - mi rivedo volentieri. I film non sono sono tanti, non tutti sono stati belli”. Un chilometro oltre le Mantellate e 63 anni più tardi, sul palco con lei c’è un quintetto di sole musiciste: Sade Mangiaracina al pianoforte, Eleonora Strino alla chitarra, Federica Michisanti al contrabbasso, Laura Klain alla batteria e Leila Shirvani al violoncello, per una rilettura jazz del suo percorso, ogni sera una scaletta da montare e rimontare. “Ho lavorato in passato con jazzisti straordinari e sono eccezionali adesso le musiciste che mi accompagnano. Il fatto che siano tutte donne è per me un valore aggiunto. Sono stata certamente femminista negli anni Settanta, senza potermi dire militante. La mia militanza credo di averla fatta in musica, quando ho cantato Mi sono innamorata di te, il pezzo di Tenco, cambiando il concetto di ciò che a una donna in amore era consentito e cosa no, imponendo l’idea che anche una donna può pensare e dire certe cose in amore”.<br /></span><span style="font-family: inherit;">Tra le Mantellate e l’Auditorium ci sono stati 112 lavori in tutto, tra album originali e raccolte, 55 milioni di dischi venduti, 8 volte al festival di Sanremo, e un frammento di infanzia. “Nessuno cantava in casa mia, quando ero bambina. Forse solo la cameriera”.</span></div><div style="text-align: left;"><span style="font-family: inherit;"><br /></span><span style="font-family: inherit;">[uscito su <i>Repubblica Roma </i>il 5 dicembre 2022]</span></div>achttp://www.blogger.com/profile/02839367301230689930noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3919598133140095603.post-8837707099272624202022-11-22T13:49:00.014+01:002023-01-17T13:56:01.001+01:00Storia dei Musumeci Greco, maestri di spada degli attori<p><span style="font-family: inherit;"></span></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><span style="font-family: inherit;"><a href="https://static.wixstatic.com/media/17774a_e81e58741db447b68f0fca39e8d46b61~mv2_d_5616_3744_s_4_2.jpg/v1/fit/w_2500,h_1330,al_c/17774a_e81e58741db447b68f0fca39e8d46b61~mv2_d_5616_3744_s_4_2.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="533" data-original-width="800" height="424" src="https://static.wixstatic.com/media/17774a_e81e58741db447b68f0fca39e8d46b61~mv2_d_5616_3744_s_4_2.jpg/v1/fit/w_2500,h_1330,al_c/17774a_e81e58741db447b68f0fca39e8d46b61~mv2_d_5616_3744_s_4_2.jpg" width="636" /></a></span></div><span style="font-family: inherit;"><br /><span style="white-space: pre-wrap;"><br /></span></span><p></p><p style="line-height: 1.38; margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: left;"><span style="font-family: inherit;"><span><span style="white-space: pre-wrap;">Se c’è un film di cappa e spada, è qui che gli attori vengono a imparare, nel cuore di Roma, una cinquantina di passi dal Pantheon. Cominciò Gino Cervi, anno 1939. Prima di essere Maigret, Alessandro Blasetti gli diede il ruolo del pittore Salvator Rosa, nella leggenda Formica, abilissimo spadaccino mascherato contro il conte Lamberto, consigliere del viceré di Napoli. Gli fece da maestro Enzo Musumeci Greco, nipote di Aurelio e Agesilao. La loro Accademia d’armi in via del Seminario, logo di Duilio Cambellotti, esiste dal 1878. Sono passati Tyrone Power per “Il Principe delle Volpi” e Orson Welles per “Cagliostro”, poi Richard Burton, Charlton Heston, Burt Lancaster.<br /></span></span><span><span style="font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; vertical-align: baseline; white-space: pre-wrap;">“Questo è papà con Errol Flynn”, dice Renzo Musumeci Greco, sfilando una cornice da un mucchio di foto. È la quarta generazione dei maestri che insegnano l’arte del duello prima dei ciak. Per la Festa del cinema tiene oggi un corso intensivo di 6 ore a 12 giovani attori. “Ragazzi in attesa di qualche provino. Intanto imparano che cos’è una parata, un affondo, un passo avanti. È come quando un professore di piano insegna - che so - a fare una canzone di Battisti. </span><span style="font-style: italic; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; vertical-align: baseline; white-space: pre-wrap;">Come può uno scoglio arginare il mare</span><span style="font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; vertical-align: baseline; white-space: pre-wrap;">”.<br /></span></span><span><span style="font-weight: 700; white-space: pre-wrap;">La scherma è una successione di gesti come al piano? <br /></span></span><span><span style="font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; vertical-align: baseline; white-space: pre-wrap;">“Ci sono produttori che chiamano e dicono: </span><span style="font-style: italic; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; vertical-align: baseline; white-space: pre-wrap;">ahò, te damo tre giorni</span><span style="font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; vertical-align: baseline; white-space: pre-wrap;">. In genere rispondo: vieni tu e vediamo se in tre giorni impari. Questi film scalcagnati li riconosci dal montaggio vertiginoso, inquadrature strette. Nessuno impara niente. Magari ci sono io che infilo un braccio. Quando invece abbiamo fatto </span><span style="font-style: italic; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; vertical-align: baseline; white-space: pre-wrap;">Caravaggio</span><span style="font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; vertical-align: baseline; white-space: pre-wrap;">, con la fotografia di Storaro, le lezioni sono durate tre mesi. I duelli erano senza controfigure con 100 colpi da ricordare a memoria, più la sicurezza da garantire. Per </span><span style="font-style: italic; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; vertical-align: baseline; white-space: pre-wrap;">L’innocente</span><span style="font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; vertical-align: baseline; white-space: pre-wrap;"> di Visconti, 120 colpi in piano sequenza, i tempi sarebbero stati perfino più lunghi. Truccarono me e mio fratello e combattemmo. Oggi esistono i trucchi del digitale. Dalle lame di Sean Connery e Richard Gere, ne “Il </span><span style="font-style: italic; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; vertical-align: baseline; white-space: pre-wrap;">Primo Cavaliere”</span><span style="font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; vertical-align: baseline; white-space: pre-wrap;"> uscivano stelle filanti, come comete. Significa che sul set non avevano niente in mano. Tutto finto. Invece Johnny Depp nel “</span><span style="font-style: italic; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; vertical-align: baseline; white-space: pre-wrap;">Pirata dei Caraibi</span><span style="font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; vertical-align: baseline; white-space: pre-wrap;">” si è mosso più lentamente e hanno velocizzato l’azione dopo”. </span></span></span></p><a name='more'></a><span style="font-family: inherit;"><span><span style="font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-weight: 700; vertical-align: baseline; white-space: pre-wrap;">Chi viene a fare scherma oggi?<br /></span></span><span><span style="font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-weight: 700; vertical-align: baseline; white-space: pre-wrap;">Chi viene a fare scherma oggi?<br /></span></span><span><span style="font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; vertical-align: baseline; white-space: pre-wrap;">“La scherma si sceglie. Non si vede in televisione. Mai. Qualche volta è una passione trasmessa dai genitori, in altri casi un desiderio represso da bambini. Un nuovo iscritto ha 65 anni. Mi ha raccontato che passava qui sotto da ragazzino, ma a casa non avevano le possibilità. Adesso sale le scale e ricorda suo padre. Gli adulti hanno il richiamo della cultura, il romanticismo, Cyrano, Dumas. I ragazzi, quello dei cartoni animati. Ce ne sono tanti che si travestono da Zorro e che giocano con le spade di plastica. Dal 2011, nel centenario della nascita di mio padre, mi son detto che dopo aver tanto avuto, era il momento di donare. Il progetto </span><span style="font-style: italic; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; vertical-align: baseline; white-space: pre-wrap;">Scherma senza limiti</span><span style="font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; vertical-align: baseline; white-space: pre-wrap;"> offre corsi per paralimpici in carrozzina e per persone con disabilità mentali. Andiamo nelle scuole e nelle parrocchie di periferia, con il sostegno della fondazione Terzo Pilastro Internazionale”.<br /></span></span><span><span style="font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-weight: 700; vertical-align: baseline; white-space: pre-wrap;">Gli attori più bravi che ha visto?<br /></span></span><span><span style="font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; vertical-align: baseline; white-space: pre-wrap;">“I quattro moschettieri sono Alessio Boni, Massimo Ranieri, Kim Rossi Stuart e Alessandro Preziosi. Ma anche Giuseppe Zeno e Ruben Rigillo sono molto bravi. Nella scherma si deve saper recitare. Fingere un attacco per far scoprire l’altro, arretrare e poi avanzare. Mi sarebbe piaciuto dare lezione a Richard Gere. Clooney no, non mi pare adatto. Troppo piacione. La scherma acuisce i sensi e la nobiltà d’animo, insegna il rispetto, pratica l’eguaglianza. In pedana un principe è vestito come un proletario. La scherma è rock, è sexy, stimola a risolvere i problemi in tempo reale”.<br /></span></span><span><span style="font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-weight: 700; vertical-align: baseline; white-space: pre-wrap;">Dio sa tirare di scherma?<br /></span></span><span><span style="font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; vertical-align: baseline; white-space: pre-wrap;">“Dovrebbe. Dio sa fare tutto. Solo che nella scherma serve anche saper ingannare, essere vanitosi e narcisi. Non lo so se è il tipo”. <br /></span></span><span><span style="font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-weight: 700; vertical-align: baseline; white-space: pre-wrap;">“</span><span style="font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; vertical-align: baseline; white-space: pre-wrap;">Hanno qualcosa in comune. Sulla tastiera le mani si muovono in modo autonomo, ciascuna sa cosa viene dopo, anticipa il prossimo colpo. La scherma è una disciplina che riguarda il corpo, ma soprattutto la mente. È una partita a scacchi giocata a 200 all’ora”. <br /></span></span><span><span style="font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-weight: 700; vertical-align: baseline; white-space: pre-wrap;">Quanto tempo serve per imparare a duellare su un set?<br /></span></span></span><span style="font-family: inherit;"><span style="font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; vertical-align: baseline; white-space: pre-wrap;"><span style="font-family: inherit;">[uscito su </span><i><span style="font-family: inherit;">Rep</span>ubblica Roma </i>il 22 ottobre] </span></span><p></p><p style="line-height: 1.38; margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: left;"><span style="font-family: inherit;"><span></span></span></p><p style="text-align: left;"></p>achttp://www.blogger.com/profile/02839367301230689930noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3919598133140095603.post-40205206967125165952022-10-30T17:34:00.008+01:002023-01-17T17:39:21.763+01:00Il gol che Turone non ha smesso di segnare<p></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: right;"><a href="https://i.ytimg.com/vi/EVIeYOEjVTU/maxresdefault.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" data-original-height="450" data-original-width="800" height="226" src="https://i.ytimg.com/vi/EVIeYOEjVTU/maxresdefault.jpg" width="403" /></a></div>La stringa su Google restituisce 893mila risultati. Dopo 41 anni il gol di Turone è vicino a essere segnato un milione di volte - ovviamente: in rete. Anche se non è stato segnato mai, anzi, è stato segnato ma è stato pure annullato. È il non-evento più famoso nella storia del calcio italiano perché è più di un’azione da moviola, di una polemica, di uno scudetto svanito. È un modo di vivere il calcio, di averlo addosso come una camicia. È un trauma ironico, e forse neppure basta. “È una grande metafora per raccontare la città”, secondo Giannandrea Pecorelli, la mente di Notte prima degli esami e adesso produttore di un documentario su quel fatale 11 maggio 1981: Er gol de Turone era bono passa oggi alla Festa del cinema, con la regia di Francesco Miccichè e Lorenzo Rossi Espagnet.<p></p><p>Cosa accadde quel giorno si sa. Il guardalinee Giuliano Sancini, negoziante di abbigliamento sportivo e articoli da regalo a Bologna, annullò per fuorigioco il gol che avrebbe dato alla Roma di Liedholm il suo scudetto con due anni d’anticipo. Giusto, sbagliato, e chi lo sa. Carlo Sassi alla Domenica Sportiva non riuscì a stabilirlo in modo definitivo, il martedì la Gazzetta scriverà che “alla moviola è parso regolare”. Tutti a Roma sanno dov’erano e cosa facevano, quella domenica. Di questo si occupa il film, “di come una città - spiega Pecorelli - si lega a un fenomeno, il calcio, di come continua a vivere un episodio accaduto nel 1981 come se fosse ieri”. Con un registro ironico e brillante, con le testimonianze di Falcao, Pruzzo, Prandelli, Marocchino, di arbitro e guardalinee, di tifosi noti e soprattutto tifosi comuni. L’ambizione di “Er gol de Turone era bono”, spiega Pecorelli, è quella di ritrarre “una giornata particolare del tifo, l’attesa, la preparazione, l’esodo senza charter”, fino al dopo, quando Vanzina dice che nasce la leggenda del romanismo piagnone.<span></span></p><a name='more'></a><p></p><p>Intorno alla partita che doveva assegnare lo scudetto, c’era la città di Torino che teneva da qualche giorno il maxi processo ai brigatisti per i reati commessi dall’aprile del 1977 al dicembre del 1979. Patrizio Peci era diventato da poco il primo pentito. I suoi ex compagni terroristi erano rinchiusi in sei gabbie e rivendicarono il sequestro dell’assessore regionale campano Ciro Cirillo, l’omicidio dell’agente di scorta e dell’autista. Il giorno prima della partita, a Roma una ventina di giovani a volto coperto e pistole in pugno, avevano bloccato tre autobus in Corso Vittorio gridando “fuori i compagni dalle galere”, lanciando molotov e una bomba contro la sezione del PCI in via Corallo. Il film si avvale della consulenza di Ettore Viola e racconta pure come la polemica - dice il produttore “sia stata amplificata nel tempo, altro fenomeno molto interessante: non montò subito”. Il caso della partita sembrava un altro: il gioco scorretto di Furino. Il Guerin Sportivo dedicò addirittura la sua copertina al Napoli, al gol dello sconosciuto Palo a Como.</p><p>Il documentario esce in 40 copie da lunedì, una ventina a Roma, e allunga la galleria del calcio in giallorosso al cinema, aperta negli Anni Cinquanta sempre da Roma-Juventus, prima in <i>L'inafferrabile 12 </i>con Walter Chiari, poi con <i>La città si difende</i>, quando durante la partita si tiene una rapina all’interno dello stadio. Il dizionario Davinotti ha contato non meno di cinquanta partite della Roma che appaiono in spezzoni qua e là. “<i>La domenica della buona gente</i>” illustra un tifo ancora candido e ingenuo, “<i>Il marito</i>” con Sordi mostra la passione frustrata da un concerto di violoncello, “<i>I Mostri</i>” porta Gassman allo stadio a vedere Roma-Catania, con i soldi che avrebbe dovuto spendere per le medicine di suo figlio. Una storia con molti derby (“<i>L’arbitro</i>” con Buzzanca) e qualche trucco: <i>Roma-Osters </i>di Coppa UEFA viene spacciata per finale di Coppa dei Campioni in “<i>Il gatto </i><i>mammone</i>”. Quelli che hanno sperato de morì prima nel film di Totti, non sperino di avere risposta sul gol di Turone. La tecnologia è andata avanti, ma il fotogramma è lo stesso di sempre. Ripreso da una sola telecamera. Nemmeno la VAR ci direbbe se è bono o no.</p><p>[uscito su <i>Repubblica Roma</i>, 23 ottobre 2022]</p>achttp://www.blogger.com/profile/02839367301230689930noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3919598133140095603.post-82099067435012849862022-10-28T10:32:00.002+02:002023-01-18T10:35:44.198+01:00La città che insegna a fare il cinema<p></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://www.cristianobacchieri.com/blog/wp-content/uploads/2021/01/sottotitoli-subtitles2.jpg.png" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="365" data-original-width="800" height="131" src="https://www.cristianobacchieri.com/blog/wp-content/uploads/2021/01/sottotitoli-subtitles2.jpg.png" width="288" /></a></div>Hanno i badge tra l’azzurro e il blù, e sono ovunque, con i bloc notes, le macchine fotografiche, i microfoni. Guardano, fanno domande, studiano il cinema e i suoi processi. Molti vengono da fuori Roma, affittano una camera, sognano di farcela. La Festa parla a loro in molti modi, mostrando pure quei mestieri che non sono in superficie, la macchina nascosta, non meno affascinante. Roma Lazio Film Commission ha aperto ieri il suo CineCampus Atelier di formazione con una lezione di Francesco Di Stefano sul mestiere del montatore, “un mestiere dimenticato - ha detto alla saletta piena di studenti - una figura che viene data per scontata”. Ha lavorato a “Freaks Out” e alla versione Director’s cut de “La grande bellezza”. Insegna che il montaggio è “come la cucina, gli ingredienti sono quelli, ognuno prepara il piatto a modo suo. Un film si monta in molti modi”. Avverte che bisogna avere un buon carattere, disporsi a mediazioni, entrare in sintonia fisica con il girato, come Walter Murch che lavora in piedi, perché ondeggia mentre monta.<p></p><p>Alessandra Rucco invece lavora in qualunque condizione, in riva a un fiume, in un bosco in Norvegia. Fa la segretaria di edizione e dice che ancora oggi, dopo vent’anni, qualcuno crede abbia a che fare con gli accenti. La dizione. Invece è il ruolo in cui si registra l’attività giornaliera del set, le sequenze, i ciak, i commenti del regista, un diario di bordo che sarà utile al montaggio. Ha scoperto il mestiere quasi per caso. Faceva la comparsa nella serie La Squadra. “Il cliché culturale - spiega - vuole che si tratti di un lavoro per donne. Forse perché serve un approccio femminile, forse per il nome”. In America lo chiamano script supervisor, Ambra Angiolini suggerisce: direttrice della continuità. Rucco ha una sua piattaforma online per la formazione, tiene corsi avanzati e per principianti. <span></span></p><a name='more'></a><p></p><p>C’è chi il film lo scrive dopo che è stato girato. Il boom delle piattaforme ha sviluppato i sottotitoli, un mercato che copre il 20% del fatturato della post produzione. Luciano Vittori con i 60 collaboratori della sua Backlight Digital opera per le sale e per l’home video. Racconta: “Un sottotitolista non è un semplice traduttore, ma una figura specializzata. Può arrivare dal mondo dei servizi per le lingue, ma deve conoscere la tecnologia e l’arte per far convivere questa terza linea di comunicazione insieme al sonoro e al campo visivo. Sviluppa un gusto, assorbe abitudini, si confronta con gli autori. È più difficile lavorare dall’italiano verso la lingua straniera, specialmente se c’è del dialetto romano o napoletano da tradurre”. Nella sede di via Anagnina gli arrivano in media 30 curriculum al mese. Il sottotitolista ideale si forma fino ai 30 anni e dopo spicca. Impiega dai 4 ai 10 giorni per un lavoro. Guadagna fra i 10 e 12 euro all’ora per l’inglese, 50 per le lingue asiatiche, richieste per horror e film erotici. Serve sensibilità, ma pure tecnica: la riga superiore deve essere più corta di quella inferiore, ma per iTunes le righe sono tre.</p><p>Al futuro del cinema in ogni sua declinazione, l’Anica ha dedicato un ciclo di nove incontri, con tutte le componenti. Una sorta di stati generali, nei quali Francesca Cima (Indigo) ha citato come modello la tessera che in Francia permette agli studenti di andare al cinema gratis, Riccardo Tozzi (Cattleya) ha invitato a “tornare a fare cinema estremo, sfidante, meno cose, più buone”, Lorenzo Mieli (The Apartment) ha illustrato le prospettive e la sua visione di produttore di serie, Domenico Procacci (Fandango) ha ricordato una frase di Franco Cristaldi: “Non facciamo film che si vendono, ma vendiamo i film che facciamo”. Duecento studenti in sala, altri cento rimasti fuori, sono andati a sentire Paolo Virzì: “Si parla di crisi da 120 anni. Quando entrai al Centro sperimentale nel 1982, era dato per morto”. Invece resta l’eccellenza italiana per la formazione. Hanno aperto in questi giorni i bandi per i nuovi corsi la scuola pubblica Gian Maria Volonté e la Academy dell’Anica, legata a realtà produttive come Medusa, Netflix, Paramount, Rai e Vision. Roma rimane il posto giusto per sognare. E per studiare.</p><p>[uscito su <i>Repubblica Roma</i> il 21 ottobre 2022]</p>achttp://www.blogger.com/profile/02839367301230689930noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3919598133140095603.post-45444956471985248082022-10-27T10:42:00.001+02:002023-01-18T10:47:14.820+01:00Gli anni di piombo raccontati da chi non c'era<p></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://upload.wikimedia.org/wikipedia/it/b/ba/Agguato_di_via_Fani_-_Roma%2C_1978.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="537" data-original-width="800" height="231" src="https://upload.wikimedia.org/wikipedia/it/b/ba/Agguato_di_via_Fani_-_Roma%2C_1978.jpg" width="345" /></a></div>Matteo Leonardi e Camilla Giuliani non hanno fatto le vacanze. Hanno rinunciato al mare e sono stati in giro per la città a girare. Lui ha diciotto anni, lei sedici, nessuno dei due immaginava che Roma potesse essere stata un tale teatro di morte. Questa è la storia di ragazze e ragazzi che usano i pollici sui loro telefoni e che hanno iniziato a fasi domande sui coetanei, quelli che cinquant’anni fa usarono invece gli indici, premendo i grilletti delle pistole. Sono usciti dalla memoria dei loro computer e sono andati a cercarla tra le strade, tra le lapidi, tra le parole scolpite sulle pietre e i marmi di Roma, nel dolore dei familiari delle vittime, nei ricordi dei testimoni. Questa è la storia di adolescenti che a scuola non trovano risposte sugli anni di piombo, “non ci arriviamo col programma” - dicono così - e il viaggio l’hanno fatto allora con una macchina da presa.<p></p><p>Studiano per fare del cinema il loro futuro all’istituto Roberto Rossellini, liceo artistico con indirizzo audiovisivo. Intanto hanno portato al Maxxi e alla Festa del Cinema un prezioso lavoro, “Divergenze parallele”, titolo che parafrasa e sovverte la formula politica delle convergenze usata da Aldo Moro - con la regia di uno dei loro docenti, Massimo Franchi. Quindici anni della vita di Roma raccontati da chi passa davanti alla stele di Giorgiana Masi senza conoscere la sua storia, la sua e quella di una generazione che ha subito “un furto di tempo, dell’allegria e della speranza”, come dice Walter Veltroni, l’ex sindaco, uno degli intervistati dai tre protagonisti del film, ai quali racconta “la violenza diffusa, la sensazione che potesse sempre succedere qualcosa”, gli anni barbari, la diffusione della droga, una partita di pallone giocata ai giardinetti con uno dei futuri responsabili del rapimento di Moro e dell’omicidio della scorta. Quando la città era bianca e nera, dice la voce narrante di Tiziano Favaretto: bianca per i lacrimogeni, nere per le auto in fiamme.<span></span></p><a name='more'></a><p></p><p>È la città di Roma che a cavallo del 76 assiste al passaggio dalla stagione delle spranghe all’apocalisse delle pistole, i corpi ritorti, i cerchi di gesso intorno a bossoli sull’asfalto, ogni Capodanno atteso con la speranza che portasse un mondo nuovo. Invece aggiungeva altra morte. Alice Barbato, una delle attrici e delle intervistatrici, si domanda: “A che cosa ci ha portato tutto questo?”. A una democrazia più solida, si risponde, mentre fuori dalla sala racconterà a Repubblica che è stata “un’esperienza incredibile, mi sono accostata a una generazione con la quale spesso capitava di pensare di avere poco in comune. Invece ho sentito una vicinanza”. Loro sono quelli di Change, la generazione di Greta. Conoscono percorsi diversi dalla piazza per farsi sentire. Con lei, Anna Nunzi si dice colpita da “un senso di comunità che nella società esisteva e che mi pare adesso manchi. La mia generazione non si sottrae, fa sentire la propria voce, ma forse ciascuno di noi lo fa nel suo piccolo e nel privato”. Nico Giorno, il terzo volto di questo viaggio, racconta che “a qualcuno l’ideologia ha dato alla testa” e a margine della proiezione aggiunge di avvertire “una nuova consapevolezza”.</p><p>“Doveva essere un corto, è diventato un docufilm” spiega Massimo Franchi, la sceneggiatura è di Giordana Giammartino. Chiara Ferro, in arte Nori, un ex alunna, ha scritto la colonna sonora, andando a vedere i murales e i luoghi di Valerio Verbano, una delle vittime. I loro nomi scorrono sui titoli di coda, un attimo dopo che il fotografo Tano D’Amico ha raccontato come andò con una delle sue foto più famose, il poliziotto in borghese che ha appena sparato al corteo fatale per Giorgiana Masi. “Era un’immagine banale, diventò rilevante il giorno dopo, quando in Parlamento negavano che ci fossero agenti infiltrati. Era la prova che il potere mentiva. Si disse che il ministro si sarebbe dimesso. Quello che è stato dimesso da tutto, sono stato io”.</p><p>[uscito su <i>Repubblica Roma</i> il 20 ottobre 2022]</p>achttp://www.blogger.com/profile/02839367301230689930noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3919598133140095603.post-40601916527148639352022-10-26T10:51:00.001+02:002023-01-18T10:54:38.770+01:00Il cinema dentro Rebibbia<p><a href="https://quinlan.it/upload/images/2012/02/cesare-deve-morire-2012-taviani-cov932.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em; text-align: center;"><img border="0" data-original-height="395" data-original-width="800" height="159" src="https://quinlan.it/upload/images/2012/02/cesare-deve-morire-2012-taviani-cov932.jpg" width="322" /></a>Oltre il rosso matto della guardiola, una volta chiuso il cancello alle spalle, ci sono diciotto scalini da scendere, lasciandosi sulla destra il braccio G12 e la sala per i colloqui, prima di entrare in un teatro da 340 posti, dove a Rebibbia si tramanda il ricordo della più fulminante recensione mai ascoltata: “‘A Infasce’, manco quanno è nato mi fijo ho pianto così”. Alex Infascelli, regista di Mi chiamo Francesco Totti, passò così l’esame della platea più esigente di Roma e dintorni, i 1600 detenuti tra Ponte Mammolo e la Tiburtina, cinque minuti a piedi da quella piazza Ferriani dove per un po’ visse Pasolini. Una comunità di persone che se spende un paio d’ore davanti a uno schermo, non vuole gettarle via. Non ha tempo da sprecare e non può chiamarlo tempo libero. Quando un regista porta un suo film dentro il Teatro Libero di Rebibbia, scopre il petto al vento, misura quanta distanza ha messo tra la sua arte e la sincerità. La Fondazione Cinema per Roma contribuisce a costruire il cartellone. Ieri la Festa ha portato in anteprima L’Ombra di Caravaggio di Michele Placido. Due ore di buio e di silenzio teso, per la storia di papa Papa Paolo V che mette un uomo dei servizi a seguire il pittore condannato a morte per omicidio. Deve capire se può concedergli la grazia.</p><p>Dentro le carceri, un tempo il cinema veniva a girare i suoi film e quando spegneva le luci, se ne andava. Da Rebibbia non esce più. È un ponte con l’esterno. Paolo Taviani è tornato giorni fa a dieci anni di distanza da “Cesare non deve morire”, premiato a Berlino e girato con una ventina di detenuti per attori. C’erano quasi tutti alla rievocazione, da uomini liberi. Il Centro Studi Enrico Maria Salerno cura quotidianamente la promozione di attività teatrali, cinematografiche, editoriali. Fabio Cavalli dirige e coordina. Sei anni fa portarono il cortometraggio Naufragio con spettatore alla Mostra di Venezia. “Non dobbiamo formare attori - dice - ma tenere accesa una luce. Gli effetti dell’arte nelle carceri è misurabile. La recidiva nel reato di chi frequenta un percorso di recitazione o di musica scende al 10 percento, rispetto alla media del sessantacinque. Qui il lockdown è stato più feroce che altrove. Tutte le iniziative si sono fermate. Riallacciare un filo è stato difficilissimo”.</p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><br /></div><br /><span><a name='more'></a></span><p></p><p>Nella casa circondariale femminile, la più grande d’Europa, 350 detenute, opera la compagnia Le Donne del Muro Alto. Alla Festa del Cinema, domenica, hanno portato lo spettacolo “Medea in sartoria”, il primo scritto fuori dalle mura con ex detenute o ammesse alle misure alternative. In scena: tre di loro e tre studentesse del dipartimento di scienza della formazione di Roma Tre, future educatrici in carcere. Francesca Tricarico, la regista, si batte dal 2013 per non limitare le attività a cucina e sartoria. La compagnia è nata per le sezioni Reati Comuni e Alta Sicurezza, tra madri alle quali erano appena stati sottratti i bimbi che fino all’età di tre anni possono tenere con sé nel nido, ma non oltre. In lockdown hanno trasformato gli spettacoli in un audiolibro e hanno trovato un magistrato di sorveglianza così coraggioso da autorizzare progetti di inclusione lavorativa vera e propria, e dunque una turné. “Ramona e Giulietta - racconta Tricarico - è stato scritto da noi, ispirato alla prima unione civile celebrata in un carcere italiano, proprio qui a Rebibbia. Quando siamo arivate a Siena, una delle attrici si è sdraiata su un prato e mi ha detto che guardava un cielo diverso da quello di Roma per la prima volta. Un’altra, a Torvaianica, mi ha confessato di non aver mai visto il mare. Per una donna che commette un reato, lo stigma sociale è più grande e con loro lo portano i figli”. Dice Andy Dufresne in “Le Ali della Libertà” che “c'è qualcosa dentro di te che nessuno ti può toccare né togliere, se tu non vuoi. Si chiama speranza”.</p><p>[uscito su <i>Repubblica Roma</i> il 19 ottobre 2022]</p>achttp://www.blogger.com/profile/02839367301230689930noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3919598133140095603.post-10523808469202287142022-10-25T10:55:00.001+02:002023-01-18T11:00:44.794+01:00Il western di Cristina Comencini<p><a href="https://www.repstatic.it/content/nazionale/img/2021/02/18/152338215-6486276e-f549-4a04-a63f-8d23855b808b.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em; text-align: center;"><img border="0" data-original-height="453" data-original-width="800" height="230" src="https://www.repstatic.it/content/nazionale/img/2021/02/18/152338215-6486276e-f549-4a04-a63f-8d23855b808b.jpg" width="406" /></a></p><p>Puoi rifare il western ma non toccare Pinocchio. Puoi accettare la sfida di essere tra le poche donne al mondo a confrontarsi con il genere cinematografico della virilità, ma i confronti con i padri sono un’altra cosa. Più impegnativa. Più profonda. Su un coloratissimo divano nel cuore del quartiere San Lorenzo, Francesca Comencini ne è divertita. Sgombra il campo dagli imbarazzi. “Starei delle ore a parlare di Pinocchio, ma non ne girerei mai una versione mia. Non mi azzardo. Spero che qualcuno osi ancora, altri lo hanno già fatto. Non io. Proprio non posso”. C’è un filo tra l’eroe di legno che papà Luigi portò cinquant’anni fa nelle case degli italiani con Manfredi-Geppetti e il suo Django, l’anti-eroe della serie prodotta per Sky e CANAL+ da Cattleya e Atlantique Productions, in anteprima alla festa di Roma. “Pinocchio, come il western - dice Francesca Comencini - non finirà mai”.</p><p><b>Una volta Paolo Virzì ha raccontato di aver saputo in treno da Matteo Garrone che stava per girare Pinocchio, mentre lui stesso aveva una riunione in settimana su un progetto simile. Chiamò la segretaria e annullò. Perché tutti vogliono fare un Pinocchio?</b></p><p>“Perché è un contenitore smisurato che rappresenta la condizione umana, in modo universale. Ognuno ne ha uno suo. Quale sia il mio preferito è ovvio. È un enorme archetipo, il mondo di qualunque essere umano si sia sentito storto da bambino, con la sensazione di sentirsi bruciare qualcosa. Come ogni classico, parla di oggi. In questo senso, Pinocchio è un western”.</p><p><b>Se ne vedevano molti in casa Comencini?</b></p><p>“Onestamente, non credo che a papà piacessero. Le favole, quelle sì. Il western era una passione soprattutto mia, da adolescente ribelle. Erano gli anni in cui si andava al cinema per vedere i film di Sergio Leone, “Piccolo grande uomo” o “Pat Garrett e Billy the Kid”. Incarnavano lo spirito del tempo meglio di quei film di denuncia che andavano dritti. Il western è il genere-manifesto dell’idea di chi non si sottomette”.</p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><br /></div><br /><span><a name='more'></a></span><p></p><p><b>Giocava anche ai cow-boy?</b></p><p>“Giocavo alle sabbie mobili: temibili e affascinanti. All’epoca se ne vedevano anche in Sandokan. Ciascuno di noi ha una forma della fantasia che suscita una possibilità del racconto". </p><p><b>Tra Pinocchio e Sandokan, in che modo era il western a raccontare la Roma degli anni di piombo?</b></p><p>“Sia i western americani sia quelli italiani travestivano il clima di terrore che c’era intorno a noi, lo avvolgevano dentro una favola nera e raccontavano gli scontri politici del tempo, senza farlo in maniera frontale. Il western racconta la condizione di chi non può sentirsi mai al sicuro, la città dove il pericolo può nascere ovunque e in qualunque momento”.</p><p><b>Che cosa pensa dell’etichetta spaghetti western? È offensiva o spiritosa?</b></p><p>“A me non piace. Preferisco western all’italiana. Ma è divertente, accettiamola per quel che è, la definizione di film ironici, auto-ironici, improbabili. Eppure dei capolavori. Una serie di registi italiani si sono Impossessati di un genere americano e anche per motivi di budget lo hanno rifondato, in una specie di delirio artistico Gli americani stessi si sono fatti poi influenzare da questo gruppo di matti, penso a Sam Peckinpah e al “Mucchio selvaggio”, il film che in assoluto credo mi abbia formata”.</p><p><b>Ci sono città più western di altre?</b></p><p>“Un western ha bisogno di paesaggi vasti. Foreste, montagne, deserto. Noi abbiamo trovato in Transilvania questa specie di ventre scavato nella roccia rossa, dove costruire la New Babylon del film, ispirandoci a “I compari” di Altman, ma su un terreno scosceso, eliminando così l’orizzonte piatto tipico del western. Ogni tanto sul set tornava l’aggettivo wrong, in rumeno si dice stramb, come strambo da noi”.</p><p><b>Massimo Troisi diceva che i registi dei western danno i cavalli bianchi ai buoni e i neri ai cattivi. Lei?</b></p><p>“Qui il cavallo bianco ce l’ha The Lady, l’antagonista. Nel mio “Django” il cattivo è una cattiva. È un doppio capovolgimento del canone. Per costruire un personaggio femminile molto forte. Anche per “Gomorra” mi sono confrontata con un progetto aspro. Raccontare gli angoli bui e scomodi, ciò che ci spaventa, mi attira. Mi piace farlo da donna, dimostrare che non ci sono campi di gioco e generi da cui siamo escluse”.</p><p><b>Esiste ancora la necessità di affermarlo?</b></p><p>“Totalmente. Viviamo una fase in cui è una grande fortuna essere una regista donna. Non perché sia più facile, ma perché buona parte di ciò che è stato raccontato, non ha ancora un punto di vista femminile. E adesso si stanno aprendo delle possibilità". </p><p>[uscita su <i>Repubblica Roma</i> il 18 ottobre 2022]</p>achttp://www.blogger.com/profile/02839367301230689930noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3919598133140095603.post-11207457608237810592022-10-24T11:00:00.001+02:002023-01-18T11:04:40.091+01:00Come Roma racconta al cinema i suoi ultimi<p></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://i0.wp.com/www.badtaste.it/cinema/wp-content/uploads/sites/1/2022/10/bassifondi-1.jpg?fit=1200%2C600&quality=85&strip=all&ssl=1" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="400" data-original-width="800" height="304" src="https://i0.wp.com/www.badtaste.it/cinema/wp-content/uploads/sites/1/2022/10/bassifondi-1.jpg?fit=1200%2C600&quality=85&strip=all&ssl=1" width="607" /></a></div><br />Quando nel luglio del ‘58 Alberto Moravia pubblica sul Corriere della sera un racconto che si chiama L'incantesimo, Pier Paolo Pasolini ha esordito con Ragazzi di Vita da tre anni. Lo hanno mandato a processo per oscenità e s’è salvato con la testimonianza di Carlo Bo, perché il romanzo - ha detto in tribunale - “spinge alla pietà verso i poveri e i diseredati". Moravia attaccherà la sua storia scrivendo: "Gli zingari che stanno nelle baracche del Mandrione, vicino a Porta Furba, sono diversi da noialtri romani". Diciassette parole. La rappresentazione di un muro. La linea che separa la città ufficiale dagli ultimi, i giusti dagli espulsi. Siamo alla vigilia di Accattone, il film che apre la stagione delle indagini del cinema nelle esistenze degli irrilevanti, tra Pietralata e il Quarticciolo, dove certe volte si può avere nostalgia solo della morte. Il neorealismo aveva scoperto i proletari, Pasolini mostrerà che c’è un altro strato, un pezzo di mondo che sta di sotto.<p></p><p>Non solo metaforicamente, in questo sotto vivono due nuovi ultimi del cinema italiano, si chiamano Romeo e Callisto, e sono destinati a rimanere indimenticabili con la loro disperazione in Bassifondi, film d’esordio di Trash Secco, con la sceneggiatura poetica di Fabio e Damiano D’Innocenzo, prodotto da 11 Marzo Film con Rai Cinema. Abitano gli argini del Tevere e la città di sopra li ha dimenticati. Hanno le forme opposte di Gabriele Silli e Romano Talevi, alto e magro il primo, riservato, taciturno; basso e irregolare l’altro, sboccato, repellente, l’ultima coppia shakespeariana partorita dalla periferia romana, una catena cominciata con Scintillone e Ruggeretto di Bolognini ne La Notte Brava, ma qui senza nessun compiacimento estetico.</p><p>Sono lo scarto degli scarti, emarginati nella stessa comunità dei senzatetto, fanno i bisogni in strada come i cani randagi, mangiano come i gabbiani del degrado, si trovano pancia a terra come il topo che scende le scale e annusa i cartoni, attraversa la monnezza, si strofina contro i piedi di chi dorme sotto i ponti. Salgono nella città di sopra per attaccare il naso e le labbra alla vetrina del Caffè della Scala, guardano come i borghesi mangiano i cornetti e si tolgono le briciole dalla barba. Questa secca dell’esistenza è una fantasia partorita da Trash Secco quindici anni fa, prima che Claudio Caligari mettesse in scena tra Ostia e Fiumicino le dipendenze di Cesare (Luca Marinelli) e Vittorio (Alessandro Borghi) in Non essere cattivo. La dipendenza di cui parla Bassifondi è quella dal calore delle persone. “Una storia di fratellanza e d’amore platonico con un compagno d’avventure” dice il regista. Durante le riprese, suo padre gli ha regalato il dvd del film di Kurosawa che porta lo stesso titolo, “e sul set ce lo ripetevamo spesso, facciamolo alla Kurosawa, nel senso che spesso il teleobiettivo stava lontano dagli attori, quasi a spiarli”.</p><p>È dalla metà degli Anni Settanta che il mondo degli ultimi lo diciamo dei brutti, sporchi e cattivi, facendo del titolo di Ettore Scola un‘etichetta. Lo puoi raccontare pure se vieni da Prati. Solo che la sincerità si vede. I gemelli D’Innocenzo sono partiti col loro cinema da un set a Ponte di Nona. Quattro anni fa La terra dell’abbastanza era stata un’immersione in un posto senza una scuola, senza una fermata del treno, senza un parco - un posto dove Mirko e Manolo erano due isole affettive condannate al sacrificio. Cinque Nastri d’argento dopo, con il premio di Berlino alla sceneggiatura di Favolacce, Damiano racconta che prima di scrivere Bassifondi ha voluto rileggere Fame di Knut Hamsun, “per ritrovare quella disperazione che - senza essere falsi - abbiamo perso. Trash Secco conosce la grazia degli ultimi e la malinconia dei primi. È un magnifico illustratore. Frequenta il basso senza paura e lo racconta da lì”.</p><p>Fabio dice di non aver avuto “libri sul comodino davanti a me, ma la finestra, la gente fuori, e in casa ho pure qualche specchio. Non ho fatto fatica, casomai ho provato vergogna nell’essere tra quelli che ogni tanto pensano di non appartenervi”. L’imperatore di Roma di Nico D’Alessandria è il film di cui Bassifondi si sente più parente. C’è stato un tempo in cui la periferia romana era oltre le mura, poi è stata inghiottita dentro la città che avanza, ora è trasversale. Quando la morte schiaccia Accattone, gli sentiamo dire “Ah! Mo’ sto bbene”, come Callisto accanto a Romeo mormora di non avere niente, eppure ha tutto.</p><p>[uscito su <i>Repubblica Roma</i> il 17 ottobre 2022]</p>achttp://www.blogger.com/profile/02839367301230689930noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3919598133140095603.post-5329173460109269862022-10-23T11:05:00.001+02:002023-01-18T11:09:02.253+01:00Fenomenologia del Gradasso romano<p></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://kisskissitalia.it/wp-content/uploads/2022/08/gass-1024x550.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="430" data-original-width="800" height="222" src="https://kisskissitalia.it/wp-content/uploads/2022/08/gass-1024x550.jpg" width="414" /></a></div>Se il vecchio Scrooge di Dickens fosse di Roma e non di Londra, sarebbe burbero, sì, ma a modo suo. Non solo arido e ruvido, anzi, sarebbe una delle tre maschere che questa città da sempre porta al cinema, sarebbe il Gradasso, compagno del Trucido e del Puro, in una strana versione del buono, brutto e cattivo partorita dall’antropologia locale. Il Gradasso ha mille e più sfumature. Non è solo una faccenda di scontrosità (tipo Fabrizio Capucci ne La voglia matta) oppure di cinismo (diciamo alla Alain Delon in L’Eclisse). Il velo che lo separa dal resto del mondo è fatto di eccessi. Di smargiassate e li mortacci tua. Il Gradasso vive di strepito e di apparenza, di esibizione e di possino ammazzàtte. Uno Scrooge di Roma è bullo e becero, vigliacco, ma in fondo fa simpatia perfino prima di cambiare vita, prima che gli appaiano i fantasmi come all’originale nel Canto di Natale inglese.<p></p><p>Arriva adesso un ultimo aggiornamento che porta la faccia di Marco Giallini ne Il Principe di Roma, passato in anteprima ieri alla Festa dell’Auditorium, dal 17 novembre in sala, distribuito da Lucky Red, che co-produce con Rai e Sky. È un tipo che punta a comprarsi un titolo attraverso il matrimonio con l’erede di una nobiltà spiantata, portando - lui - in dote 100 scudi. Parla la lingua nota dei mattatori di Roma. Quando all’ex amico di gioventù dice “Io so’ diventato principe e tu sei rimasto co’ ‘e pezze ar culo” fa sentire tutta l’eco del Sordi vestito da Marchese del Grillo, quello che io so’ io, eccetera eccetera. Se non fosse in abiti ottocenteschi, potrebbe passare per uno dei flâneur visti sullo schermo dentro il corpo di Vittorio Gassman, da Bruno Cortona in poi (Il Sorpasso, Dino Risi, 1962), il prototipo di un certo modo affascinante di essere laido. Edoardo Falcone, regista e sceneggiatore del Principe di Roma, dice di aver scritto il suo film pensando al mondo di Luigi Magni (“Una scelta obbligata”), un mondo popolano e popolare che ha mescolato i propri passi con il clima e l’umore della commedia dell’arte, con la radice originaria del poema cavalleresco. L’antonomasia del Gradasso viene dagli Orlando di Boiardo e Ariosto, uno innamorato e l’altro furioso. Porta quel nome uno dei capi saraceni e l’ha lasciato in eredità, come aggettivo, alla folta schiera di maschere romane, che si tratti di un Meo Patacca, oppure del suo alter ego Marco Pepe, lo spaccone, il fanfarone che promette sfracelli e scappa, un poco vigliacco, un poco canaglia, comunque plateale. Rugantino è la versione addolcita, Cacini quella sguaiata.<span></span></p><a name='more'></a><p></p><p>Così, quando Giallini viene chiamato a rivelare i suoi modelli di riferimento, non finge nel dire che Sordi lo è stato, certo, ma fino a un certo punto. “Non è che io abbia pensato a lui, nel recitare. Sordi casomai lo assimili guardandolo, anche non volendo. L’unica volta che l’ho incontrato in vita mia stava di schiena e guardava un monitor. Ha fatto quell’espressione sua di sorpresa, il sobbalzo, e mi ha detto: lascia perde, nun è roba per te. Quando si parla di romanità, Sordi è il numero uno insieme a Gassman. Ma non è stato l’unico romano del cinema. Romane sono certe espressioni e certi gesti. Voglio dire: o sei di Roma o sei di Viterbo”. Il Gradasso è stato di volta in volta il Cavaliere Nero di Gigi Proietti o il Gallo Cedrone di Verdone. È il tipo che rivendica una sorta di nobiltà di cittadinanza, anche quando è plebea, come sa bene l’Enzo di Un Sacco Bello nel dare appuntamento all’amico, al Palo della morte, a mezzogiorno, per partire verso Cracovia. Pure lui a Ferragosto, come Gassman-Cortona. Quando il bullo arriva in scena, guarda il caso, viene accompagnato dall’armonica di Morricone, uno degli strumenti suonati per Sergio Leone e il suo triello. Tutto torna. “Quelli come me, ce staranno sempre” dice il principe di Giallini alla fine. E così sia.</p><p>[uscito su <i>Repubblica Roma</i> il 16 ottobre 2022]</p>achttp://www.blogger.com/profile/02839367301230689930noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3919598133140095603.post-63761666105376018102022-10-22T11:09:00.001+02:002023-01-18T11:15:37.070+01:00Come parlano i romani al cinema<p></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://stanzedicinema.files.wordpress.com/2020/12/andrea-arcangeli-e-marianna-fontana-sono-yemos-e-ilia-in-romulus-credits-francesca-fago-e-sky.jpeg?w=1088" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="466" data-original-width="800" height="260" src="https://stanzedicinema.files.wordpress.com/2020/12/andrea-arcangeli-e-marianna-fontana-sono-yemos-e-ilia-in-romulus-credits-francesca-fago-e-sky.jpeg?w=1088" width="447" /></a></div>Duemila e 800 anni prima di Zerocalcare, Roma non aveva ancora il suo primo re, ma aveva già una lingua pronta per il cinema. Non c’erano i buffi, nessuno che spiccia casa, ma una società primitiva unita da parole che non avremmo conosciuto mai. Non ne hanno lasciato di scritte, il protolatino noto dai primi ritrovamenti è successivo di un bel po’. Eppure, l’ipotesi di una parlata dell’ottavo secolo avanti Cristo è sullo schermo, venduta in 40 paesi con la serie Romulus II - La guerra per Roma, prodotta da Cattleya e Sky, presentata alla Festa del Cinema e dal 21 ottobre sulla pay tv, in streaming su Now.<p></p><p>Il Signore degli Anelli si è inventato l’elfico, Avatar ha fatto conoscere il Na'vi, due latiniste hanno lavorato per aggiungere la lingua di Romolo a quella di Sordi e Fabrizi. Hanno ricostruito un latino che non si studia nelle scuole, ma con una base scientifica. Si sono date un metodo comparativo tra lingue indo-europee, cercando un carattere comune a strutture affini. Daniela Zanarini spiega che “non è la lingua colloquiale né la lingua aulica dei re, si tratta di un grosso compromesso, un lavoro di immaginazione sulla base di una filologia corretta”. Gianfranca Privitera, sua compagna in questa fantasia colta e pop, racconta che “il sapere andava usato e tacitato, per costruire una lingua precedente a quella che conosciamo.</p><p>Bisognava cercare il senso della distanza, un latino che fosse rappresentazione del pensiero magico del tempo”. Romolo ha dato una mano. Se è vero che offrì asilo a quanti volevano vivere in Roma, compresi lazzari e assassini, la sua lingua non poteva che essere un impasto di prestiti, “il lessico dei naviganti - dicono le docenti - degli emigranti in una Roma mossa e irrequieta, la lingua della commistione e della mescolanza”. Hanno usato la struttura paratattica del greco di Omero. Hanno privilegiato i suoni forti e duri, quelli che al nostro orecchio sembrano arcaici. Si sono poste il problema di “come far parlare una comunità rozza, probabilmente priva di un pensiero articolato, con frasi semplici, senza subordinate, nelle quali il concreto prevale sull’astratto”, ma con esigenze di sceneggiatura, con “la presenza di personaggi complessi che conoscono odio, gelosia, elaborano un senso del divino”. Un processo di immaginazione fonetica.<span></span></p><a name='more'></a><p></p><p>Un esempio? Un uomo malvagio poteva essere un monstrum, ma con la stessa parola il latino classico indica qualcosa di meraviglioso. “Allora abbiamo recuperato il Mormò - racconta Privitera - lo spauracchio con cui le mamme minacciavano i bambini nel mondo greco. Lo dice Platone. Mormò rappresenta la repulsione e il terrore verso il deforme”. Quando Roma parla al cinema, non è mai una storia che lascia indifferenti. Prima che Alberto Sordi dicesse al maccarone io me te magno, è stato il dialetto della capitale a celebrare un’età nuova, con la voce di Anna Magnani che in Roma città aperta grida a Marcello, “devi anda' da don Pietro, sbrigate", oppure quella di Lamberto Maggiorani in Ladri di biciclette: “Mari’, dimme se nun so' disgraziato”. La televisione sarebbe arrivata per cucire, per riprendere il modello linguistico unitario adottato fino alla guerra. Il cinema col neorealismo lavorava per strappare, per mostrare il pluralismo di accenti e idee, le varietà regionali, la rabbia di proletari disoccupati, pensionati (Umberto D.), pescatori, popolane. Fu Roma a cominciare a parla’ la lingua sua, per marcare la distanza tra le classi. Non ha più smesso di farlo. Ha seguito i tempi, fino all’afasia giovanile anni 80 espressa dai cioè di Carlo Verdone.</p><p>Nella sua Storia del cinema italiano, Gian Piero Brunetta sostiene che il predominio del romanesco, “viene raggiunto quando entrano in scena nuovi soggetti: i bulletti di periferia, le prostitute, i gruppetti giovanili che contribuiscono, in maniera decisiva, a produrre vere e proprie forme di pidginizzazione”. È la lingua di Pasolini, in qualche modo pure quella ricostruita a tavolino, un’operazione colta e raffinata per il racconto delle periferie, giacché - segnalava Sordi - “il romano non parla neppure un dialetto. Parla un italiano da indolenti”. Fu un altro non romano come Gadda, a sperimentare, prima che il cinema e la televisione facessero scempio di una lingua, trasformandola in un romanoide. Matteo Rovere, regista di Romulus, dice che si è trattata di una “sfida potente e divertente. Le lingue nei film sono legate ai mondi che raccontano. L’italiano non esiste, è fatto di decine di specificità fluide. Roma si presta perché ha una storia multiculturale da 2mila anni, nella quale è compresa l’accoglienza dei reietti. Il dialetto romano di ieri sembra più bello forse perché erano più belli i film nei quali era parlato, ma se Zerocalcare deve far parlare un ragazzo di Rebibbia, non ha un altro modo”. E se non ti piace, ahò, stacce.</p><p>[uscito su <i>Repubblica Roma</i> del 15 ottobre 2022]</p>achttp://www.blogger.com/profile/02839367301230689930noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3919598133140095603.post-57517586022187667882022-10-21T11:19:00.001+02:002023-01-18T11:26:53.467+01:00Nuovo Cinema Flaminio: le sale che hanno chiuso nella zona del festival<div><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://upload.wikimedia.org/wikipedia/it/9/90/Parco_della_Musica_di_Roma.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="522" data-original-width="800" height="272" src="https://upload.wikimedia.org/wikipedia/it/9/90/Parco_della_Musica_di_Roma.jpg" width="417" /></a></div>Una volta qui era tutta campagna. Oddio, tutta tutta proprio no. C’erano molti palloni che finivano in porta allo stadio e altri lanciati nei canestri, c’erano le stanze in cui dormivano gli atleti delle Olimpiadi, le gare di sollevamento pesi al palazzetto di piazza Apollodoro. Se viale Ungheria si chiama così, è per i formidabili pallanuotisti del Sessanta, non per le opere di Miklós Jancsó. Senza offesa. I pesi veri da sollevare, nel quartiere, sono arrivati dopo. Quando la fiaccola dei Giochi s’è spenta, l’area ha dovuto combattere il degrado. Lo sport l’aveva popolata, i film l’hanno risvegliata.</div><div><br /></div><div>Vent’anni di Auditorium e diciassette di festival hanno disegnato un’altra mappa. Ora è il Palatiziano a galleggiare sul mare mosso di chiusure e riaperture, una volta sì e una volta no. Il cinema ha occupato la scena che fu dei cinque cerchi, dove le strade parlano di Pierre De Coubertin e Nedo Nadi, dove le sculture in bronzo di Amleto Cataldi raffigurano calcio e corsa, lotta e boxe. Ciak, si cambia. Se ci fosse Tornatore, direbbe che queste strade adesso sono il Nuovo Cinema Flaminio. Dieci anni fa, all’Auditorium è arrivato Woody Allen per girare delle scene di To Rome With Love. Non possono avergli detto che lo svincolo di corso Francia, verso viale maresciallo Pilsudski, nell’immaginario collettivo rimarrà il tratto di strada dove si prostituisce Jolanda, la sorella di Sordi in Lo Scopone scientifico, né che per anni è rimasta vandalizzata e abbandonata la cabina telefonica da cui Fabio chiama amici e conoscenti per il suo spettacolo d’avanguardia in Io sono un autarchico. Nel quartiere Flaminio, Dario Argento girò L’uccello dalle piume di cristallo negli Anni Settanta, Nanni Moretti è venuto di recente per Mia Madre, Pietro Germi prima di tutti portò il set di La città si difende.</div><div><br /></div><div>Eppure, perfino nei paraggi della zona in cui Roma ha messo in piedi la sua Croisette, il cinema è un bene da difendere a fatica. Quando Giovanni Gronchi dichiarò aperte le Olimpiadi, la sera del 25 agosto 1960, al Capitol davano Il Barone con Jean Gabin, mentre il Roxy voleva vincere facile, in cartellone manteneva La Dolce Vita. Erano due delle 41 sale di prima visione aperte in città, altre 63 affollavano il circuito di seconda, 51 offrivano film al terzo giro di vita. Nella pagina degli spettacoli, L’Unità pubblicava anche il programma di 31 sale parrocchiali e di 28 arene estive. A 700 metri dall’Auditorium, il Capitol oggi non esiste più. È stato travolto dal ciclone che investì gli affari dei Cecchi Gori. La sala è diventata prima un club con musica dal vivo e adesso una discoteca, di fronte a una caserma dismessa, in mezzo a un paio di tavole calde e alle petizioni di protesta dei residenti nei paraggi. “Mi pare che l’ultimo film sia stato Ovosodo di Virzì. Era una delle poche sale con il tetto mobile. Si apriva per permettere di fumare”, racconta Fabrizio Tosi. Il Bar Xenia, di fianco, è di proprietà della sua famiglia. La crisi della sala aveva coinvolto pure loro.</div><div><br /></div><div>Adesso invece stanno aperti 24 ore su 24, così servono l’alcol di notte a quelli che entrano, il caffè e il cornetto a quelli che escono all’alba. Resiste l’Arena Tiziano, sala parrocchiale dell’Associazione culturale Santa Croce, dieci minuti a piedi dal red carpet. Domani danno I figli degli altri. Per provare a salvare il Roxy, due km più su, verso i Parioli, l’ultima petizione è stata firmata nel dicembre scorso, in un quartiere che nel frattempo ha visto cadere l’Archimede e l’Embassy. L’ultimo colpo l’ha assestato la pandemia, decine di cinema trasformati in supermercati, bingo, ristoranti, parcheggi. Eravamo appena usciti dal lockdown, nel maggio 2020, quando la politica annunciava l’arrivo del primo drive-in, in un’area che le indiscrezioni individuavano in piazzale Ankara, dove al martedì ci fanno il mercatino. Ai drive-in siamo invece andati a farci i tamponi. Ieri, al giorno #1 della festa, all’Auditorium è tornato il pubblico. Nuovo Cinema Flaminio, dai, ricominciamo.</div><div><br /></div><div>[uscito su <i>Repubblica Roma</i> del 14 ottobre 2022]</div>achttp://www.blogger.com/profile/02839367301230689930noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3919598133140095603.post-27249529638641509842022-03-14T14:43:00.001+01:002023-01-17T14:47:41.999+01:00La leggerezza di WIlson, il capitano baronetto<p><span style="background-color: white; color: #4b4b4b;"><span style="font-family: inherit;"></span></span></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: left;"><a href="https://www.corriere.it/methode_image/2022/03/06/Sport/Foto%20Sport%20-%20Trattate/14rm01f2-kD7G-U333058448393FlF-656x492@Corriere-Web-Sezioni.jpg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="492" data-original-width="656" height="291" src="https://www.corriere.it/methode_image/2022/03/06/Sport/Foto%20Sport%20-%20Trattate/14rm01f2-kD7G-U333058448393FlF-656x492@Corriere-Web-Sezioni.jpg" width="388" /></a><span style="font-family: inherit;"></span><span style="font-family: inherit;">Successe a Sunderland, a Doncaster, a Wolverhampton, a Londra per una partita contro l'Arsenal nel vecchio stadio di Highbury e pure davanti al mare di Ipswich. Ogni volta che la Lazio volava in Inghilterra, Pino Wilson si trovava a fissare l'orizzonte e a fare i conti con una tentazione, scappare, salire su un treno, esplorare. Desiderava vedere finalmente Darlington, almeno una volta, su al nord, dove tra carbone e acciaio erano diventati famosi per la lana e per la prima ferrovia al mondo. Voleva risalire alle radici, scoprire la sua culla, era nato là e non c'era tornato mai. Era di quella Lazio il volto della saldezza, portava la fascia da capitano, ma aveva pure lui le sue malinconie. Suo padre Denis, inglese, aveva fatto il militare a Napoli, la città dove si era innamorato di Rachele. Dentro uno spogliatoio che aveva assegnato a ciascuno un ruolo, Wilson era il dominus d'ogni contesto, era l'altra faccia di Chinaglia, la sua spalla forte, almeno fino alla crisi post scudetto che portò Giorgione in America e la squadra dei miracoli a smembrarsi. Luigi Martini aveva la parte dell'oppositore, Sergio Petrelli quella dell'irregolare che aveva portato le pistole dentro lo spogliatoio, Renzo Garlaschelli il viveur, Mario Frustalupi il filosofo socialista, Felice Pulici un buono agostiniano, Franco Nanni il timido, Vincenzo D'Amico la recluta, Giancarlo Oddi l'ingenuo, Mario Facco una specie di fool shakespeariano. Wilson era invece per tutti il Baronetto, per altri il Padrino. Proiettava questa posa di stabilità e di fermezza pure sul campo. Quando Gianni Brera se ne avvide, di lui scrisse: «La difesa ha scoperto in Wilson un regista sapiente, non che sia gran cosa l'anglo-napoletano, in fatto di acrobazia: è anche miope e sulle palle spioventi da lontano non si sente a suo agio, come è ovvio: però nel tackle è tempestivo e qualche volta maligno. Nei disimpegni tocca di piatto destro con ricercata eleganza».</span></div><p></p><p><span style="background-color: white; color: #4b4b4b;"><span></span></span></p><a name='more'></a><span style="font-family: inherit;"><br /></span><p></p><p style="background-color: white; border: 0px; color: #4b4b4b; margin: 0px; padding: 0px; vertical-align: baseline;"><span style="font-family: inherit;">Wilson, morto ieri a 76 anni, è stato probabilmente l'incarnazione più precisa della lazialità, quel sentimento individuato da molti dei suoi tifosi eccellenti come un orgoglio privato, silenzioso, distinto, una sfera spesso fraintesa e impastata di cliché, ma socialmente più disomogenea di quanto appaia in superficie. La Lazio anni 70 divisa in due combriccole, due gruppi che si svestivano in due stanzoni separati, è allora fortemente evocativa di un destino e di una identità. La lazialità è una passione alimentata dal tormento, da un urrà contabile complesso di inferiorità dinanzi all'egemonia romanista. Wilson ne è stato un drappo. Amava gli scherzi, meglio se impensabili. Ne fece uno atroce al dottor Ziaco nascondendogli la macchina, facendola scivolare sul fondo della piscina dell'hotel a Pievepelago, dove la squadra d'estate andava in ritiro. Amava la leggerezza, ma aveva portato dentro di sé per molti anni il peso degli errori commessi e pagati, la condanna del calcioscommesse a cui aveva aggiunto una espiazione ulteriore, una specie di esilio dal suo mondo.</span></p><p style="background-color: white; border: 0px; color: #4b4b4b; margin: 0px; padding: 0px; vertical-align: baseline;"><span style="font-family: inherit;">Come la maggior parte dei compagni di quella squadra irragionevole, irripetibile, aveva ceduto alla fascinazione delle armi, una 38 special di cui era arrivato a studiare le minuzie, il funzionamento del tamburo, il peso del proiettile, il percussore. Un giocatore fuori dal canone, un universitario, si era iscritto a giurisprudenza, laureandosi poco dopo lo scudetto. Tesi: la relazione tra l'ordinamento sportivo e la giustizia ordinaria. Alla discussione lo aveva accompagnato una delle due figlie di Maestrelli, quel Tommaso che gli aveva consegnato la fascia e gliel'aveva confermata anche nei momenti di burrasca, il più difficile forse nell'ottobre del 1971 dopo una sconfitta a Terni in B. Avevano tutta la folla contro e trovarono i loro nomi scritti su dei bidoni dell'immondizia, compresi i numeri di maglia dall'uno all'undici. Poi cominciò l'ascesa irresistibile, una candela bruciata tra il 1973 e il 1977. In politica si definiva andreottiano, ma erano i tempi in cui in Italia una buona fetta di elettori del Movimento Sociale non osava dirlo. Senza Wilson, la Lazio ha perso la sua coscienza storica. Se n'è andato con un rimpianto che qualche anno fa trovò la forza di confessare: «Mi piacerebbe una volta sognare Re Cecconi».</span></p><p style="background-color: white; border: 0px; color: #4b4b4b; margin: 0px; padding: 0px; vertical-align: baseline;"><span style="font-family: inherit;"><br /></span></p><p style="background-color: white; border: 0px; color: #4b4b4b; margin: 0px; padding: 0px; vertical-align: baseline;"><span style="font-family: inherit;">[uscito su <i>Repubblica</i>, 7 marzo 2022]</span></p>achttp://www.blogger.com/profile/02839367301230689930noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3919598133140095603.post-38319252895275199632020-11-30T17:20:00.001+01:002023-01-17T17:24:08.870+01:00L'ultima volta ch'è morto Maradona<p><span style="background-color: white; color: #4b4b4b;"><span style="font-family: inherit; font-size: medium;"></span></span></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><span style="font-family: inherit; font-size: medium;"><a href="https://storiedicalcio.altervista.org/blog/wp-content/uploads/2015/12/maradona-arrivo-napoli-1984-wp.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="450" data-original-width="800" height="324" src="https://storiedicalcio.altervista.org/blog/wp-content/uploads/2015/12/maradona-arrivo-napoli-1984-wp.jpg" width="576" /></a></span></div><span style="font-family: inherit; font-size: medium;"><br />Quante cose è stato, tutte insieme, nell'unico posto al mondo che l'ha reso martire e sovrano, dove si vive toccando il cielo e ci si converte in un secondo al pessimismo. La città che prima mise un suo capello sotto una teca nella vetrina di un bar e poi rinchiuse direttamente lui sotto una cappa morbosa di venerazione. La città che lo ha costretto a vivere di notte e che in periferia gli aveva intitolato una Rotonda. La città che lo ha trattato come una divinità, mai come un divo, venerandolo più dei suoi cinquantadue santi patroni e il loro sangue sciolto. La città che quando giurava diceva ha da muri' mammà, iniziò a giurare su Diego Maradona, detto qualche volta O Nennillo, come il bambino Gesù, oppure O Masto, il maestro, per i più anziani la parola che indica il datore di lavoro, dunque il guadagno, il benessere, la riconoscenza. Era Diego, semplicemente. Diego solo con il nome, alla maniera di Eduardo, anzi come Eduardo diceva che meritassero di essere chiamati i re e i parrucchieri. È stato anche Dieco, con la c, anzi Thiechíto. È stato il nome di battesimo per 527 bambini nati in città, provincia esclusa, in quei 7 anni irripetibili, 12 dei quali Diego Armando e uno per intero Diego Armando Maradona. Fa il pizzaiolo in un comune nei pressi del Vesuvio. Vengono ancora gli inviati dall'estero per parlare con lui.</span><p></p><p><span style="background-color: white; color: #4b4b4b;"><span></span></span></p><a name='more'></a><span style="font-family: inherit; font-size: medium;"><br /></span><p></p><p style="background-color: white; border: 0px; color: #4b4b4b; margin: 0px; padding: 0px; vertical-align: baseline;"><span style="font-family: inherit; font-size: medium;">Diego è arrivato come Mowgli che cercava una famiglia e se n'è andato come Simba che dalla famiglia scappa. C'erano ottantamila persone al San Paolo per accoglierlo e nemmeno uno che lo accompagnasse il giorno dell'addio all'aeroporto. Ha scambiato con gli abitanti di Napoli ogni tipo d'amore, spirituale e fisico. Disse: «Quando me ne andrò porterò con me la voglia di battere la Giuve». È stato un angelo vendicatore, un sovvertitore dell'ordine costituito. Ha fatto l'unica rivoluzione riuscita alla città e i più pigri che ancora lo chiamano Masaniello. Lo scudetto era un'evenienza così distante che i vecchi speravano non arrivasse mai, dicevano: non sia mai Dio — che significa: Iddio non voglia — non sia mai Dio perché se no viene la fine del mondo. Diego fece il miracolo e subito un secondo, quando disse non invadete il campo vogliamo festeggiare con voi, e non uno entrò. È stato potente come a Napoli riescono a essere solo il dialetto e le canzoni, un ponte tra la parte alta e la parte bassa della città, i ricchi e i poveri, la cartolina e i vicoli, le case di cemento armato e il tufo, la superficie e le catacombe, i vivi e i morti, con i primi che dopo lo scudetto sul muro del cimitero fecero trovare agli altri la scritta: Che vi siete persi. È stato come il padreterno per gli umili e la legge per gli avvocati. È stato una canzone diventata un modo di dire, Maradona è meglio 'e Pelé, musica del maestro Campassi. È stato materia di studio per antropologi e sociologi. È stato un musical (di Tato Russo), un comitato di intellettuali (Te Diegum), un pezzo di Pino Daniele (Un angelo vero). È in un murale ai Quartieri spagnoli e in uno a San Giovanni a Teduccio. È stato nella dedica di Paolo Sorrentino agli Oscar. È stato un padre inseguito per una vita da un Diego junior. Era un ospite da avere alle feste, ai circoli da inaugurare, ai battesimi, nei ritrovi della città indicibile e della zona grigia, la città porosa, dove tutto passa senza ostacoli da una parte all'altra. Era una foto da scattare e da esibire, sorridi Diego, sorridi, negli anni in cui Napoli aveva ministri al governo che si facevano garanti con le banche. Un giorno tornò da Torino e raccontò meravigliato che era uscito dall'albergo per comprarsi un dopobarba, nessuno lo aveva fermato, lui che ogni giorno a Napoli dimostrava d'essere sia vulnerabile sia indistruttibile. Si è mischiato con la vita e c'è un solo pensiero oggi che vale una carezza. Questa è l'ultima volta che Maradona muore.</span></p><p style="background-color: white; border: 0px; color: #4b4b4b; margin: 0px; padding: 0px; vertical-align: baseline;"><span style="font-family: inherit; font-size: medium;"><br /></span></p><p style="background-color: white; border: 0px; color: #4b4b4b; margin: 0px; padding: 0px; vertical-align: baseline;"><span style="font-family: inherit; font-size: medium;">[uscito su <i>Repubblica</i> il 26 novembre 2020]</span></p>achttp://www.blogger.com/profile/02839367301230689930noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3919598133140095603.post-3153648001747374952020-06-16T17:29:00.000+02:002023-01-17T17:33:02.294+01:00La partita che cambiò il peso del calcio in Italia<div style="background-color: white; border: 0px; color: #4b4b4b; margin: 0px; padding: 0px; text-align: left; vertical-align: baseline;"><span style="font-family: inherit;"><span style="background-color: white; color: #4b4b4b;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: left;"><a href="https://www.calcioweb.eu/wp-content/uploads/2020/06/Italia-Germania-4-3-585x329.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="329" data-original-width="585" height="205" src="https://www.calcioweb.eu/wp-content/uploads/2020/06/Italia-Germania-4-3-585x329.jpg" width="365" /></a></div>Tutto quello che si trovava cinquant'anni fa sulla scena della cultura pop italiana non c'è più. Carosello ha smesso di esistere nel 1977, Canzonissima due anni prima, il cinema ha rinunciato ai poliziotteschi, il </span>Guardiano del Faro non fa un disco da tempo. Ma se una qualunque partita di calcio in qualunque angolo del mondo finisce 4 a 3, anche senza pubblico, non c'è nessuno che non pensi a Italia-Germania, semifinale della Coppa Rimet in Messico, i Mondiali, 17 giugno 1970.<br />È la partita che ha cambiato il peso del calcio italiano nella società. L'abbiamo vista portare a teatro e al cinema, l'abbiamo vista tra le strisce dei fumetti di Topolino. L'abbiamo vista all'epoca in bianco e nero e la rivediamo — ogni volta che le televisioni la rimandano in onda — a colori. Finisce sempre 4 a 3, e ogni volta ci scappa un sorrisino mentre Nando Martellini dice «Che meravigliosa partita, ascoltatori italiani». Noi ci domandiamo — conoscendoci — come abbiamo fatto a buttarla via, riprenderla e ribaltarla. Così come i tedeschi si chiedono al contrario — conoscendosi — come abbiano fatto loro a riprenderla, ribaltarla e poi buttarla via ai supplementari. I messicani l'hanno chiamata el partido del siglo — la partita del secolo — e hanno scolpito questa convinzione su una targa che sta fuori lo stadio dove si giocò: l'Azteca di Città del Messico. Una partita matrioska, la partita cioè che dentro ne contiene tante, due tre quattro, o forse ne contiene una diversa per ciascun calciatore andato in campo.<span><a name='more'></a></span><br />Questo racconta Maurizio Crosetti in " 4 a 3", il libro in edicola con Repubblica e in libreria per Harper Collins Italia: le storie dei tredici cavalieri italiani che fecero l'impresa e di otto fra i tedeschi. Una cronaca sentimentale moltiplicata per ventuno giovani uomini, che si apre e si chiude — non è un caso — con i due portieri, da Enrico Albertosi a Sepp Maier: i due che per convenzione, per cliché e soprattutto per davvero, furono i più soli fra tutti in mezzo al campo. Il libro è il grande romanzo popolare di una nazione bloccata davanti alla tv — la partita cominciò quando in Italia era mezzanotte — ed è anche un diario personale e familiare di quella notte, un padre e un figlio di 8 anni, uniti dall'1-0 di Roberto Boninsegna al 4-3 di Gianni Rivera.<br />Boninsegna è anche il primo che in quella notte tocca il pallone. Crosetti scrive che nelle sue vene "scorre l'arte dell'agguato. Non è mai stanco". È certamente una notte di campioni. Di Beckenbauer che a riguardarlo oggi è "come rileggere Thomas Mann, è come riascoltare Mozart. Nel caso di questo giocatore unico e irripetibile saltano le categorie, non ci sono più musica o letteratura o pittura o sport, c'è solo bellezza". Di Gigi Riva, «che sta attraversando in quel periodo i tormenti di un amore fuori dai canoni. Prenderà a ottobre il soprannome, Rombo di tuono , che lo distinguerà per sempre, intanto gli basta essere el pie izquierdo del diablo , il piede sinistro del diavolo, come scrive un giornale messicano. È una partita leggendaria: accanto agli eroi, ci sono gli antieroi, gli accenti sdruccioli che movimentano il ritmo dei soliti piani. Fabrizio Poletti è «il pezzo sbagliato in un meccanismo di ingranaggi esatti, ma proprio per questo è la miccia che fa esplodere la magnifica follia. Entra a freddo in un mondo più grande di lui e lo pasticcia, lo ingarbuglia, inciampa, s'imbroglia, e la somma di tutti questi errori produce il risultato perfetto». Che vita sarebbe senza gli imperfetti? Imperfetta del resto fu tutta la partita secondo il più grande degli analisti di sport in Italia. Gianni Brera lavorava al Giorno con il suo bagaglio di ideologia italianista e le teorie sulla necessità per noi mediterranei di giocare d'astuzia, rinserrarsi e colpire, difesa e contropiede. Figurarsi come poteva prendere sette gol segnati tutti assieme. «Il calcio giocato — scriverà — è stato quasi tutto confuso e scadente, se dobbiamo giudicarlo sotto l'aspetto tecnico- tattico. Ci è andata bene. Io non posso vedere il calcio a rovescio: sono pagato per fare questo mestiere. Vi siete accorti o no del disastro che Rivera ha propiziato nel secondo tempo?». Fu la prima volta degli italiani in strada con i clacson. Il calcio diventò una febbre vera quella notte.</span></div><div style="background-color: white; border: 0px; color: #4b4b4b; margin: 0px; padding: 0px; text-align: left; vertical-align: baseline;"><span style="font-family: inherit;"><br /></span></div><div style="background-color: white; border: 0px; color: #4b4b4b; margin: 0px; padding: 0px; text-align: left; vertical-align: baseline;"><span style="font-family: inherit;">[uscito su <i>Repubblica</i> il 15 giugno 2020]</span></div>achttp://www.blogger.com/profile/02839367301230689930noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3919598133140095603.post-81462003724329732482019-05-10T00:49:00.000+02:002019-05-10T00:49:48.069+02:00Due o tre cose sulla superiorità del calcio inglese<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjSR9NKF6eVPWr12pDeP3rz_PC7w3-Lp89XtKt66CYn4URuxsewilXoTXFvNukTRTmF9MYGasjYg6-bs464cPU7DQQMm4cvyCzLVFjhyTro-jRr9Xoe4XOBjQJUhJEmFa4nIlfTokNSygA/s1600/skynews-tottenham-champions-league_4663120.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="432" data-original-width="768" height="180" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjSR9NKF6eVPWr12pDeP3rz_PC7w3-Lp89XtKt66CYn4URuxsewilXoTXFvNukTRTmF9MYGasjYg6-bs464cPU7DQQMm4cvyCzLVFjhyTro-jRr9Xoe4XOBjQJUhJEmFa4nIlfTokNSygA/s320/skynews-tottenham-champions-league_4663120.jpg" width="320" /></a></div>
Se per le quattro squadre in finale di Coppa dobbiamo celebrare il calcio inglese, sarà bene definire subito cosa intendiamo per calcio inglese, cosa c’è dentro la scatola che porta questa etichetta e dove risiede la sua superiorità.<br />Come hanno fatto quattro squadre di uno stesso Paese ad arrivare davanti a tutti? Ci sono riuscite perché non sono affatto quattro squadre di uno stesso Paese. <a name='more'></a><br /><div>
È più corretto chiamarlo<b> il calcio degli inglesi</b>, cioè una loro proprietà, ma è un calcio creolo - come quello visto agli ultimi Mondiali, dove 3 giocatori su 10 avevano origini o nascita in un paese diverso da quello per cui erano in campo - cresciuto nella <b>mescolanza</b> con i geni altrui, tanto per cominciare con le idee delle scuole tecniche e dei quattro allenatori stranieri che sono alla guida di Liverpool (un tedesco), Tottenham (un argentino), Arsenal (uno spagnolo nato nei Paesi Baschi, al confine con la Francia) e Chelsea (un italiano, tosco-napoletano). La Premier è diventata nell’ultimo decennio il campionato in cui più ci si mischia: il <b>69</b>% dei calciatori viene dall’estero. Lo scherzo della storia è che un raccolto tanto vistoso arriva nel momento in cui politicamente l’Inghilterra ha scelto l’isolamento dal resto dell’Europa. <br /><br /> La Premier viene giudicata da tempo una sorta di <b>Nba del calcio</b>, ma tutto sommato in modo improprio se per Nba intendiamo il torneo dei migliori professionisti. I migliori nell’ultimo decennio erano in Spagna, non solo Messi e Ronaldo. Fra i primi tre del Pallone d’oro manca un calciatore della Premier addirittura dal 2008 (Torres, allora al Liverpool). Un intervallo tanto lungo c’è stato solo fra 1983 (Dalglish) e 1993 (Cantona), come dire che per qualità e visibilità individuali, la Premier è tornata all’epoca del bando dalle Coppe post Heysel. La Liga nel decennio ha invece preso per sé 27 posti da podio su 30. I libri d’oro delle Coppe confermano con chiarezza dove sia stata la superiorità: le ultime cinque Champions vinte da Real e Barça (due derby in finale) più sei delle ultime nove Europa League con Atletico Madrid e Siviglia. <br /><br />Se per Nba del calcio intendiamo i più ricchi, ci avviciniamo al vero. La Premier è il campionato in cui sono concentrate <b>sei fra le dieci squadre</b> più benestanti al mondo (tutte più della Juve), nove fra le prime 20 (il Newcastle e il West Ham fatturano più del Napoli), 13 fra le prime 30 (il Brighton fattura più dell’Ajax, o del Benfica, o dell’Atalanta, fate voi). Un campionato opulento, talvolta con valutazioni fuori mercato. Eppure a lungo deludente in campo europeo. Nel marzo di quattro anni fa Oliver Kay, prima firma del calcio del Times, scriveva: “Che pessimo periodo per l'élite della Premier. E che ilarità deve causare altrove in Europa, dato che, con gli introiti commerciali e televisivi, al tempo in cui il fatturato annuale del West Ham sta per superare quello dell'Inter, i club inglesi trovano sempre modi nuovi per prestazioni deludenti". Kay metteva l’accento sullo "stravagante reclutamento", sulla noncuranza dei meccanismi difensivi e su una sempre più accentuata anarchia tattica. </div>
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<br />Alla fine della stagione scorsa, la piccola Italia dal campionato di cui si dice sempre tutto il male possibile era arrivata a 3 punti di distacco dall’Inghilterra nel ranking Uefa, dopo aver nel frattempo superato la Germania. Sempre in quel periodo di 4 anni fa la posizione dell’Independent era questa: "I manager europei battono quelli di scuola inglese per la tattica". La vecchia tattica. In sostanza gli inglesi sentivano che gli mancava ciò che da quest'altra parte fa orrore a tanti. Le inglesi hanno perso qualche colpo negli anni contro le italiane: il Tottenham pre-boom era stato eliminato dalla Fiorentina, a Napoli hanno perduto dal 2012 in poi Chelsea Arsenal e pochi mesi fa il Liverpool, l'Inter in autunno ha battuto il Tottenham. Molti dei pregi che abbiamo sempre attribuito alla Premier, in Inghilterra venivano vissuti come un peso. La famosa intensità che a noi pare la chiave di tutto, lì l’hanno chiamata stress. Il Boxing Day che ci piaceva tanto e che abbiamo copiato, in Inghilterra è criticato dai calciatori che chiedono il Natale libero, dai tifosi a cui mancano in quei giorni i trasporti pubblici per andare allo stadio, dai ct che nelle fasi finali di Europei e Mondiali arrivano coi nazionali a pezzi. Perfino gli stadi salotto, negli anni senza risultati brillanti nelle Coppe, erano stati individuati come un problema: troppo freddi. Il Chelsea si era spinto a immaginare l’introduzione di effetti sonori artificiali da diffondere attraverso gli altoparlanti. Esultanze registrate come le risate negli sketch di Benny Hill. <br /></div>
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Gli allenatori, questo è un punto importante. Gli ultimi 18 titoli di fila sono stati consegnati dal calcio inglese fra le mani di uno straniero. Dopo l’addio di Ferguson, nessun britannico è più riuscito a vincere qualcosa. Ferguson era peraltro un piccolo anti-corpo fra spagnoli (Martinez e la Coppa col Wigan), olandesi (Hiddink al Chelsea), danesi (Laudrup con lo Swansea), portoghesi (Mourinho, ancora Chelsea), francesi (Wenger con l’Arsenal) e soprattutto italiani (col Chelsea prima Ancelotti e poi Di Matteo, Mancini col City). L’ultima Coppa è stata un regalo di Di Matteo, subentrato in corsa a Vilas-Boas. Quella del 2005 a Liverpool ha la firma spagnola di Benìtez. Se non fosse stato per lo scozzese Ferguson, l’ultimo allenatore britannico in una finale di Coppa dei Campioni sarebbe vecchio di trent'anni, quel Terry Venables che con il Barcellona post-Maradona e pre-Cruyff perse ai rigori dalla Steaua.<br /><br />Eppure li abbiamo chiamati a lungo maestri, e maestri erano davvero. Il calcio quasi ovunque è arrivato a bordo delle navi inglesi. Il sistema WM, papà del 3-4-3, è stato inventato da Herbert Chapman. Da noi il Genoa ha dominato i campionati dei pionieri grazie a James Spensley. Herbert Kilpin fece vincere per la prima volta il Milan. William Garbutt veniva dalla cintura di Manchester e fu il primo a introdurre in Italia allenamenti professionali: tre scudetti con il Genoa fra il 1915 e il 1924. Se ancora oggi gli allenatori sono i "mister", si deve soprattutto all'influenza della sua personalità sul movimento italiano. Leslie Lievesley era il preparatore atletico arrivato dal Derbyshire a cui la Figc consegnò i muscoli della Nazionale per le Olimpiadi di Londra del '48; l'anno dopo fu tra le vittime della sciagura di Superga. Sempre un maestro inglese, si chiamava Jesse Carver, riportò la Juve allo scudetto dopo la scomparsa del Grande Torino, era il 1950, fu considerato un innovatore e il primo a introdurre la marcatura a zona in serie A.<br /><br />Noi eravamo già campioni del mondo, due volte, e loro non ancora: eppure gli anni ’50 si aprirono con Crawford sulla panchina del Bologna, Soo a Padova, Neville a Bergamo. La Roma aveva Stock, la Sampdoria Dodgin. Finirono esonerati entrambi nello stesso anno, stagione '57/58, e forse fu allora che l'Italia sentì di non avere più lezioni da prendere. In Gran Bretagna si sarebbero fatti un nome Ramsey, Shankly, Busby, Clough, Paisley. Ma noi ci stavamo dando al catenaccio per smarcarci dal WM, difesa e contropiede, fino a farne un marchio, un vanto, una scuola, fino a chiuderci in un felice isolazionismo tattico. Niente britannici in panchina da noi per circa quarant’anni: neppure dopo la riapertura delle frontiere, quando era la serie A la Nba del calcio. Nulla fino all'Hodgson chiamato dall'Inter nel '95, già in era pay-tv, quando i soldi dei diritti hanno rilanciato il torneo inglese.<br /></div>
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L'ultimo allenatore inglese a vincere il campionato è stato <b>Howard Wilkinson</b>, nel '92 con il Leeds. Dev'essere per questo motivo che il campionato più ricco del mondo, prima di mettersi a inseguire i fuoriclasse, sta scegliendo di spendere i suoi soldi per portare a casa le menti migliori (Guardiola, Klopp, Pochettino, Bielsa) e le ultime novità (Sarri, Emery). Una cessione di sovranità, i migliori tecnici inglesi hanno scelto di ritirarsi a lavorare nelle Academy e insegnare tecnica. Dopo la finale degli europei under 21 del 2013, il Telegraph si lamentava che nelle Academy dei club inglesi non nascesse da tempo un numero 10 dotato di fantasia, uno "alla Insigne" scrissero. La federazione ha lanciato un piano a lungo termine per vincere i Mondiali del 2022. Il luogo simbolo di tutto ciò è St. George’s Park, 13 campi di calcio di cui uno è la replica di Wembley, una palestra e un hotel. L’idea è ripetere il miracolo di Clairefontaine, l’accademia francese aperta nel 1988: dieci anni dopo arrivò il titolo mondiale. Matt Crocker, a capo del progetto per lo sviluppo tecnico, ha spiegato: “Non bisogna trovare qualcuno che reinventi la ruota, bisogna prendere la lezione che arriva da Olanda, Spagna, Francia, Germania e farla nostra”. Come la Gran Bretagna ha già saputo fare in campo olimpico, passando dai 9 ori di Atene 2004 ai 27 di Rio 2016. Oppure nel ciclismo, trasformando pistard in stradisti e cogliendo nel 2018 Giro, Tour e Vuelta. <br /><br />Il calcio inglese si è messo al lavoro per rifondarsi. A cominciare dai ragazzi. Le loro nazionali giovanili sono già esplose: titolo mondiale under 20, finale europea under 19, semifinali con under 21 e under 17. Nel 2012 la Premier ha introdotto l’EPPP, Elite Player Performance Program, per produrre e lanciare calciatori in casa propria con allenatori qualificati, educatori a sostegno. Quest’anno c’è stato spazio in campo per 44 ragazzi inglesi sotto i 23 anni, 22 sotto i 21 anni (in Serie A non molti di meno: 43 under 23 e 15 under 21). Perciò il calcio degli inglesi è tutt’altro che già compiuto. È un calcio in evoluzione e in cammino. Ma bisognerà stare attenti a dare per defunti altri modelli, a ignorare che su certi risultati regnano l'imponderabile e la casualità. Messi non può essere un fenomeno nella semifinale d’andata e una zavorra al ritorno. Il calcio si diverte spesso a smascherare le nostre ricostruzioni teoriche post-risultato. Solo due anni fa elogiavamo il modello Germania, che aveva vinto la Confederations con molti U21, mentre all'Europeo U21 aveva portaro ragazzi meno esperti, vincendo pure quella. </div>
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La vera forza del calcio degli inglesi è nella loro voglia di avere un sistema che cresca a una stessa velocità, nazionale e club, tutti i club, senza negare a nessuno un’occasione. Dall'accordo tra Sky e BT Sport, alle venti società della Premier League sono arrivati 2,7 miliardi di euro. Il 50% della somma viene divisa in parti uguali tra tutti, il resto viene ripartito in base ai passaggi tv in diretta (25%) e alla posizione in classifica (25%). Il City primo nel 2018 aveva incassato 149 milioni, il Wba ultimo 94. In Italia la distanza è stata tra i 107 della Juventus e i 24 del Benevento. <br /><br />È così che sei squadre inglesi sono fra le 20 più ricche in Europa. È così che il Fulham può permettersi di fare un mercato da 100 milioni (eppure retrocedere) oppure il Tottenham costruirsi uno stadio e un futuro pur vendendo Bale. È così che in 4 possono mettere il loro muso davanti alle altre europee. <br /></div>
achttp://www.blogger.com/profile/02839367301230689930noreply@blogger.com2tag:blogger.com,1999:blog-3919598133140095603.post-26167138957086822332019-05-06T08:00:00.000+02:002019-05-06T08:00:00.414+02:00Come il Milan vinse lo scudetto della stella<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://1.bp.blogspot.com/-3pXY4sGrUvw/XM7hqjSU3BI/AAAAAAAAWmQ/hGMmtGmWiT8qfdt8m4ky6w4NgkYmvq1SgCLcBGAs/s1600/cartoon1557061023779.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="852" data-original-width="1600" height="339" src="https://1.bp.blogspot.com/-3pXY4sGrUvw/XM7hqjSU3BI/AAAAAAAAWmQ/hGMmtGmWiT8qfdt8m4ky6w4NgkYmvq1SgCLcBGAs/s640/cartoon1557061023779.jpg" width="640" /></a></div>
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<i>Lo scudetto della stella del Milan, 6 maggio 1979, </i></div>
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<i>nelle parole d'epoca: Arpino, Brera, De Felice, Sconcerti, Zanetti. </i></div>
<i><br /></i>Io triumphe, caro vecchio Milan! Sento impazzare i clacson, indici del suo nume. Dal primo all'ultimo giorno <span style="color: #990000;">il Milan</span> ha comandato il torneo. Ha tenuto più a lungo la sua ruota il magnifico Perugia: poi ha dovuto arrendersi, troppo grande la differenza di forze in campo, di riserve in panchina, di mezzi in città (per tacere della Regione, cioè del retroterra). Ora, secondo che giustizia vuole, togliamoci il cappello per il Perugia e ascoltiamo con grata meraviglia il chiassoso carosello dei nostri cari fratelli cacciaviti <sup>[<b>1</b>]</sup>. L'anno di Rivera, Maldera, Bigon, di un <span style="color: #990000;">Perugia</span> che perde il trentenne Vannini e quindi cade in ambasce strategiche che costano punti, l'anno di una Juve <i>retour de Baires</i> che che prima è appagata poi pentita, poi distratta, l'anno di un Torino falcidiato, è trascorso <sup>[<b>2</b>]</sup>. "In pratica, è stato un torneo a due, ma con una sola squadra iscritta alla corsa per lo scudetto: una sola squadra che poi sono state due, <span style="color: #990000;">il Milan con Rivera e il Milan senza Rivera</span>. Un autentico rompicapo per i maghi delle panchine <sup>[<b>3</b>]</sup>.<br />
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<b><span style="color: #3d85c6;">la partita decisiva</span></b><br />
Alle quattro del pomeriggio San Siro aveva diecimila persone in più delle sessantamila consentite. C'è voluto un appello di Rivera per vedere lentamente la grande ammucchiata aprirsi e disperdersi come il Mar Rosso davanti a Mosè <sup>[<b>4</b>]</sup>. È entrato in campo Rivera avendo al fianco Paride Accetti: "Alzati Gioann", ha ringhiato un fesso, neanche fosse il papa. Rivera ha avuto il microfono dell'altoparlante e ha detto: "<span style="color: #990000;">Se non sgombrate perdiamo la partita</span>". Accetti, che è forse un congiuntivo esortativo, non un indicativo presente e neanche un plurale sbagliato, ha compiuto ampi e cattivanti gesti a sostegno dell'oratore: poi si sono mossi i pretoriani (the Milan boys) brandendo manganelli astutamente avvolti in bandiere da campo: la gente ha subito capito e si è pigiata sugli anelli superiori. Allora finalmente ha avuto inizio <span style="color: #990000;">la più divertente parodia</span> d'una partita di calco che mai sia stata inscenata negli ultimi decennio (a quel livello dico) (...) Il pericolo era che qualcuno, per isbaglio, segnasse <sup>[<b>1</b>]</sup>. C'è una sorta di pudore a cantare il trionfo del Milan, come entusiasmo popolare vorrebbe, anche perché la partita è stata falsa. <span style="color: #990000;">Il Bologna</span> puntava al pareggio, e lo hanno capito subito tutti. (...) A cercare il gol con un certo impegno fra loro era Juliano, che non ha mai amato Rivera per questioni di nazionale <sup>[<b>5</b>]</sup>. La parte cogliona dei presenti si è messa a fischiare con temeraria insolenza: qualcuno ha pure gridato ai bidoni. Oh comica pretesa di voler vedere calcio fra due squadre egualmente interessate a non procurarsi danno! <sup>[<b>1</b>]</sup>.<br />
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<span style="color: #3d85c6;"><b>lo stile di gioco</b></span><br />
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Al termine di una partita brutta ma onesta il Milan ha finalmente vinto il suo decimo scudetto. Senza dubbio un successo meritato. Il Milan ha probabilmente risorse tecniche che in questo campionato sono state sottovalutate. <span style="color: #990000;">Liedholm</span> ha trascinato allo scudetto una squadra praticamente priva di attaccanti di ruolo. Nonostante questo il Milan ha segnato 45 reti. Tanta <span style="color: #990000;">prodigalità offensiva</span> è spiegabile solo con una superiorità tecnica dilagante <sup>[<b>4</b>]</sup>. Come farà questo stesso Milan a reggere, visto che l'amalgama tra Ufo Baresi e Chiodi e Bet e Albertosi non può certo pretendere la ripetizione del miracolo? <sup>[<b>2</b>]</sup>. È una squadra giovane che sa giocare al calcio. Soprattutto ha giocatori giovani nei ruoli in cui gli altri hanno talenti vecchi (e il Milan ha già dimostrato di non essere estremamente legato a Rivera). Non gli servirà cambiare molto per capire che forse è soltanto l'inizio <sup>[<b>4</b>]</sup>.<br />
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<a href="https://4.bp.blogspot.com/-dSM2ZSU_xBU/XM7SOr-kvOI/AAAAAAAAWlQ/_-3fRNhHP500aPl42crZ34rcLYoK4_OeQCEwYBhgL/s1600/s-l300.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="300" data-original-width="219" src="https://4.bp.blogspot.com/-dSM2ZSU_xBU/XM7SOr-kvOI/AAAAAAAAWlQ/_-3fRNhHP500aPl42crZ34rcLYoK4_OeQCEwYBhgL/s1600/s-l300.jpg" /></a></div>
Lo scudetto del Milan ha un significato preciso. Esso è innanzitutto il frutto di un ritorno del club rossonero a quella serietà di conduzione sociale, a quella stabilità di gestione, a quella programmazione previdente e attenta, che per alcuni anni erano mancate con effetti disastrosi nella sede di via Turati e nel centro di allenamento di Milanello <sup>[<b>5</b>]</sup>. "Fortunato io? Se racconto alla gente tutte le disgrazie, le traversie, le preoccupazioni che ho avuto nella mia vita, quelli scappano lontano" <sup>[<b>6</b>]</sup>. Questo Milan rispecchia quella che gli economisti chiamano "la ripresina", situabile tra Brianza ed Emilia <sup>[<b>2</b>]</sup>.<br />
Il titolo conquistato dal Milan premia la vocazione al gioco, alla pienezza tecnica, in qualche caso all'eleganza perfino, della formazione allestita e preparata da Liedholm. In squadre meno dotate il tecnico svedese aveva dovuto accettare l'inevitabile involuzione verso formule difensivistiche, ancorché pudicamente mascherate dall'ammassamento a centrocampo e da inconcludenti ma dilatorie manovre a ragnatela. Come ha rimesso le mani su giocatori di più sicuro talento. Liedholm è tornato alla sua vecchia filosofia di <span style="color: #990000;">autentico esteta del calcio</span>. Vincere uno scudetto senza disporre di un cannoniere in prima linea è un miracolo che passerà forse alla storia del nostro campionato <sup>[<b>5]</b></sup>.<br />
Il Milan, sul piano tecnico, ha vinto la sua partita quando si è messo a giocare <span style="color: #990000;">un calcio che nessuno capiva</span>: schierava una sola punta naturale, Chiodi, e allora gli avversari cercavano di individuare la seconda punta effettiva allo scopo di dare un compito di marcatura al loro secondo stopper. Non trovandola, correvano a leggere i giornali per sapere come si doveva marcare un attacco che, a turno, inviava in avanti sette uomini a tirare in porta, senza un concetto offensivo plausibile <sup>[<b>7</b>]</sup>.<br />
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<b><span style="color: #3d85c6;">l'allenatore</span></b><br />
Il tecnico-allenatore Nils Liedholm ha finalmente ripetuto nella serie maggiore prodezze già realizzate in serie minori. È un vecchio astuto commesso di Waldemarswick (non un vichingo, dunque, bensì un ostrogoto, cioè goto dell'est). Insomma, <span style="color: #990000;">uno svedese di campagna</span>. (...) Lidas si è fatta a sue spese una accorta filosofia italiota, e l'ironia lo salva, come l'astuzia, da atteggiamenti per solito fondati sulla cultura, che ha solo in senso specificatamente pedatorio (ma come appassionato collezionista d'arte è rispettabile assai). La qualità maggiore di Lidas è pedagogica; il <i>superiority complex</i> razziale lo aiuta poi a consolarsi, rischiosamente, di ogni possibile lacuna umanistica <sup>[<b>1</b>]</sup>.<br />
Liedholm lo ha realizzato, inventando un gioco speciale per la sua strana squadra: un gioco che ha proiettato a turno tutti i rossoneri verso la porta avversaria, che ha esaltato le straordinarie doti atletiche di Aldo Maldera, che ha permesso a un Bigon non più giovanissimo di imbroccare la migliore stagione di tutta la sua carriera <sup>[<b>5</b>]</sup>.<br />
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<b><span style="color: #3d85c6;">la squadra</span></b><br />
<span style="color: #990000;">Bigon </span>è un funambolo sui propri bulloni, che purtroppo sono a livello d'erba. In passato ha sempre avuto singolare misura ed è saggiamente rimasto nell'ombra di Rivera. Uscito il quale, improvvisamente il devoto scudiero è assurto a ottimo comandante. La sua annata può paragonarsi a quella, davvero miracolosa, che consentì a un abituale flanellista (sia pure di genio) come Corso di assurgere a deus-ex-machina dell'ultimo scudetto interista (ahi, 1971) <sup>[<b>1</b>]</sup>.<br />
"Questo scudetto lo dedico agli amici che mi sono rimasti tali anche dopo la sconfitta di Verona nel '73. Ho un solo grosso dispiacere: che non ci sia Rocco qui con noi e a lui col quale avevamo gioito e sofferto per tanti anni va il mio primo pensiero <sup>[<b>6</b>]</sup><br />
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<a href="https://3.bp.blogspot.com/-APv5PE5rYpE/XM7Q03-CLsI/AAAAAAAAWlI/45XZfy7ZcJEyN94AU55qK9HdhnQEo02AgCEwYBhgL/s1600/milan7879.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="812" data-original-width="564" height="320" src="https://3.bp.blogspot.com/-APv5PE5rYpE/XM7Q03-CLsI/AAAAAAAAWlI/45XZfy7ZcJEyN94AU55qK9HdhnQEo02AgCEwYBhgL/s320/milan7879.jpg" width="222" /></a></div>
Che tutto ciò sia avvenuto per dichiarato progetto e non per caso, lo dimostra la scelta del battitore libero. Liedholm pensò in un primo momento a Bigon, poi si convinse a puntare sull'esordiente diciottenne <span style="color: #990000;">Baresi</span>. Che cosa avevano in comune questi due? Non l'esperienza nel ruolo, non la brutale prestanza fisica, non la ruvida attitudine a spazzare l'area a casaccio, ma esclusivamente la padronanza tecnica e la capacità di contribuire alla costruzione dell'azione offensiva. Liedholm sapeva che, quale dei due avesse scelto, il settore difensivo avrebbe potuto subire momenti di distrazione o sbandamento. Ma ha accettato questo rischio, calcolandolo, per migliorare il gioco d'attacco. E i fatti gli hanno dato ragione <sup>[<b>5</b>]</sup>.<br />
Merito di Lidas, e di chi l'ha capito e sostenuto, il lancio di ragazzi che sono subito entrati nell'élite del calcio nazionale: cito Baresi e <span style="color: #990000;">Collovati</span>, entrambi dotati di stile troppo raffinato - a mio parere - perché non si debba guardarli con sospetto, sia pure molto amorevole <sup>[<b>1</b>]</sup>.<br />
Alla preparazione atletica Liedholm non ha mai sacrificato quella tecnica, sapendo che non basta correre per giocare il calcio. Ha ostinatamente lavorato per affinare le risorse degli elementi più grezzi <sup>[<b>5</b>]</sup>.<br />
<span style="color: #990000;">Rivera </span>ha speso gli ultimi spiccioli in preziosissimi acquisti. Quando si è grippato, ha saputo restare in disparte giovando tangibilmente alla conduzione generale della società e della squadra. Il suo carisma prestipedatorio è così ben radicato che potrebbe riuscire alla lunga pericoloso. L'amor che muove il sole e l'altre stelle non può, ragionevolmente, far correre un regista come dovrebbe. Molte volte lo vedevo seduto sulla favolosa sedia vescovile che sappiamo: altri, meno disincantati, adoravano con irriducibile entusiasmo: e però certo non stavano in campo, dove era giocoforza correre e sfiatarsi per lui... <sup>[<b>1</b>]</sup>. A vederlo così nello spogliatoio e fra boati di felicità, dopo una stella conquistata e un record prestigioso raggiunto, si riesce in parte a capire il segreto del campione. La freddezza appena macchiata di ironia, la capacità di contenere gioia ed emozioni nell'ora del trionfo assoluto, la razionalità dell'uomo che vince la passione del cuore. Ma dentro gli occhi c'è la felicità del bambino <sup>[<b>8</b>]</sup>. <br />
Ricoeu <span style="color: #990000;">Albertosi</span> ha incantato salvando risultati (e quali!) con la distaccata insolenza del campione che ormai sopravvive a tutti e a se stesso. Qualcuno - anche milanista - ha spropositato che certi suoi errori non erano degni di così decantato campione: oh irriconoscenza marcia e malevola! Ricoeu è stato fra i principali artefici del successo milanista. Fra i protagonisti dell'anno vanno apprezzati in giusta misura <span style="color: #990000;">Maldera</span>, atipico di classe superba, terzino goleador della statura di Facchetti, tanto nome!, e ancora <span style="color: #990000;">Buriani</span>, il mio diletto Mehari, alla lunga ciucco di correre <sup>[<b>1</b>]</sup>.<br />
I progressi di un giocatore utilissimo ma non elegante, come Buriani, rappresentano una testimonianza concreta di questo tenace sforzo. Pochi giorni fa, vedendolo insegnare ad alcuni rossoneri come si calcia di esterno, un cronista chiese a Liedholm: "Perché insiste tanto? Il campionato è finito". Serafico, lo svedese rispose: "Per la tournée in Brasile. Dobbiamo far vedere qualcosa a quel pubblico di intenditori" <sup>[<b>5</b>]</sup>. <br />
Valido è stato anche l'apporto di Novellino, però notevolmente inferiore alle speranze di chi aveva tanto sborsato per il suo acquisto. E decisamente peggio è andato Chiodi, povero figlio. Ai giovani di alto stile più sopra citati va aggiunto l'avv. De Vecchi, che le lunghe leve rendono curiosamente asincronico nei movimenti minimi: è questo, si badi, un rilievo estetico scarsamente legato ai notevoli apporti tecnico-agonistici: <span style="color: #990000;">De Vecchi</span> è più volte assurto a match winner: ha senso geometrico e tiro assai forte da fuori. Che più? Scarsa fortuna hanno avuto <span style="color: #990000;">Bet e Morini</span>: notevolissime sono state per contro le apparizioni di <span style="color: #990000;">Antonelli</span>: il guizzo repentino potrebbe farne un'ala di rara efficacia costruttiva <sup>[1]</sup>.<br />
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<b><span style="color: #3d85c6;">il dibattito</span></b><br />
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Dopo otto anni lo scudetto è tornato a Milano. Nessuno può dire se l'affermazione milanista segni la definitiva caduta della lunga dittatura juventina e rappresenti l'inizio di un nuovo ciclo del campionato. (...) Tuttavia il ritorno dello scudetto a San Siro riequilibra i valori del nostro calcio e offre stimoli nuovi a un torneo cloroformizzato per diversi anni dalla superiorità della Juve (...) L'area dello scudetto adesso si è allargata davvero. È stato il Milan ad aprire la breccia <sup>[<b>5</b>]</sup>. Ha vinto il Milan, evviva il Milan, onore al Milan. Anche se questa è un pochino la stagione del nostro <i>scontento</i>.<br />
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<a href="https://2.bp.blogspot.com/-WULtSmhcxy0/XM7Sbj3w6SI/AAAAAAAAWlU/ddC9S8IWOsc4ANETUFBr4uys-nsPL3j9wCLcBGAs/s1600/intrepido11.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="664" data-original-width="520" height="320" src="https://2.bp.blogspot.com/-WULtSmhcxy0/XM7Sbj3w6SI/AAAAAAAAWlU/ddC9S8IWOsc4ANETUFBr4uys-nsPL3j9wCLcBGAs/s320/intrepido11.jpg" width="250" /></a></div>
Non lo diciamo per motivi torinesi, ma secondo l'etica e il colpo d'occhio di Enzo Bearzot, che in una recente intervista ha riconosciuto tutti i meriti milanisti però sa che l'annata sta profilandosi grama: difensori veri, registi autentici, punteros degni di questo nome stanno sulle dita di due mani, il resto è eclettismo, viziato da tutti gli atipici che fanno football, ma non si sa quanto lo portino avanti <sup>[<b>2</b>]</sup>.<br />
Lo scudetto del Milan, vinto all'insegna dell'unica punta in attacco, non è stato che la naturale sottolineatura di un football quale il nostro, che le punte tradizionali vede nascere sempre più di rado. Bearzot, in alcune recenti interviste, si è dimostrato preoccupato per questa situazione, temendo il nascere di un nuovo gioco italiano, appunto con un solo uomo da area e tanti centrocampisti, forse dimenticando quanto accaduto in Argentina, dove proprio con questo obbligato tema di gioco raccogliemmo soddisfazioni imprevedibili. Rossi fu l'unica punta, mentre Bettega fu sia punta sia centrocampista, col risultato di morire anzi tempo, come alla Juventus sanno benissimo <sup>[<b>3</b>]</sup>.<br />
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<b><span style="color: #3d85c6;">l'omaggio</span></b><br />
San Siro è una lieta bolgia. Manca però Nereo, manca il Paròn, proprio l'uomo che per una stella avrebbe venduta la cantina (...) Il Paròn è già una statua, a Milanello, una statua che ha lasciato interdetto Bigon e che è piaciuta solo a Capello <sup>[<b>2</b>]</sup>.<br />
Domani pomeriggio la festa sarà più grande a Milanello, dove s'inaugura il monumento a Nereo Rocco, il solo enorme rimpianto in un bellissimo settantanove <sup>[<b>9</b>]</sup>. L'ultimo pensiero di Rivera è per Nereo Rocco, un pensiero dolce e delicato: "Non è più con noi, lui che più di ogni altro meritava e voleva la stella. Forse dovremmo moderare un po' la nostra gioia ricordando la sua scomparsa, tuttavia penso avendolo conosciuto bene che lui di lassù desidera così" <sup>[<b>8</b>]</sup>.<br />
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<i>"Non immagino chi al mondo possa battere la vostra squadra"</i> <sup>[<b>10</b>]</sup></div>
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<b>Note</b><br />
[1] Gianni Brera, Il Giorno, 7 maggio 1979<br />
[4] Giovanni Arpino, Stampa Sera, 7 maggio 1979<br />
[7] Gualtiero Zanetti, Guerin Sportivo, 9 maggio 1979<br />
[2] Mario Sconcerti, la Repubblica, 8 maggio 1979<br />
[3] Gianni De Felice, Il Corriere della sera, 7 maggio 1979<br />
[5] Felice Colombo a Giorgio Reineri, Il Giorno, 7 maggio 1979<br />
[6] Albertino Bigon dopo Milan-Bologna del 6 maggio 1979<br />
[8] Carlo Coscia, la Stampa, 7 maggio 1979<br />
[9] Gian Maria Madella, l'Unità, 7 maggio 1979<br />
[10] Papa Giovanni Paolo II, Angelus in piazza San Pietro, 13 maggio 1979<br />
<b><span style="color: #0b5394;"><br /></span></b>
<b><span style="color: #0b5394;">i gol</span></b><br />
<iframe allow="accelerometer; autoplay; encrypted-media; gyroscope; picture-in-picture" allowfullscreen="" frameborder="0" height="157" src="https://www.youtube.com/embed/q5P2uvb0-OU" width="280"></iframe><br />
<br />achttp://www.blogger.com/profile/02839367301230689930noreply@blogger.com2tag:blogger.com,1999:blog-3919598133140095603.post-40212996940088622342019-04-25T13:39:00.001+02:002019-04-26T08:59:17.117+02:00La Resistenza della signorina Finizio<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://1.bp.blogspot.com/-TYSNe4nwgIY/XMGL4XmqsjI/AAAAAAAAWIg/G2WDBppUGU42QGRf40WzwcOCI34s95FogCLcBGAs/s1600/finizio.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="424" data-original-width="565" height="240" src="https://1.bp.blogspot.com/-TYSNe4nwgIY/XMGL4XmqsjI/AAAAAAAAWIg/G2WDBppUGU42QGRf40WzwcOCI34s95FogCLcBGAs/s320/finizio.jpg" width="320" /></a></div>
La signorina Finizio era sposata e aveva due figli ma in classe molti la chiamavano così, signorina, qualche volta <i>signurì</i>. Insegnava in una scuola elementare che all'inizio non aveva neppure un nome, il 75° circolo, un insieme di padiglioni prefabbricati dove faceva freddo d'inverno e coi primi caldi si sudava. La chiamavamo <i>Le Baracche</i> e la pronunciavamo con due erre. Il rione Cavalleggeri aveva preso forma lentamente intorno all'Italsider, per tutti la Fabbrica, anche se la fabbrica in zona era più d'una e comprendeva la Cementir e l'Eternit. Una striscia di 800 o 900 metri, dal ponte della metropolitana fino ai palazzi stretti fra un paio di chiese: negli anni 70 era un rione in prevalenza di giovani coppie, molte avevano preso casa lì a costi contenuti anche se non lavoravano all'acciaio. Cavalleggeri non era più Fuorigrotta e non era già Bagnoli, così noi del posto non sapevamo cosa dire a chi ci domandava di quale parte di Napoli fossimo, <i>'e d''o sì</i>, di dove sei, perché rispondere era una dichiarazione di appartenenza, significava sentirsi classe operaia in un caso o piccoloborghesi nell'altro, e noi non sapevamo d'esserlo.<br />
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Alcuni portavano il fiocco in disordine, altri il grembiule sporco, solo un paio anche lo scudetto agganciato alle ciappe sul petto. La signorina Finizio sapeva come parlare a tutti. Lasciava che qualcuno si facesse interrogare in storia o in geografia aiutandosi col dialetto, <i>dillo in napoletano, nun te preoccupa'</i>, lei stessa per essere certa che tutti capissimo spesso spiegava qualche passaggio importante in napoletano, lasciandoci vivere il paradosso di una maestra che autorizzava in classe l'uso della lingua di casa, la lingua non ufficiale, mentre in casa genitori e nonni ci impedivano di parlarla. Esistevano due velocità e lei cercava una misura per farci i conti. Parlava di Prévert e Neruda, parlava di Pietro Ingrao. Insegnava le canzoni di Di Giacomo, recitava in aula Sik Sik di Eduardo, leggeva le poesie di Totò.<br />
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In attesa che <a href="https://ildivanosulcortile.blogspot.com/2009/06/qualcuno-era-comunista.html" target="_blank">il sindaco Valenzi posasse la prima pietra</a> per una scuola vera, fatta di mattoni, il direttore ci fece dare un nome ai padiglioni. Ciascuno ospitava due o tre classi, ogni gruppo scelse il suo con un piccolo referendum. Le baracche finirono per chiamarsi Martin Luther King, Marie Curie, Albert Sabin o Albert Schweitzer. Non so cosa sapessimo a otto o nove anni di Schweitzer, certamente fummo guidati, e oggi mi pare di leggere un messaggio, direi un lascito, nella scelta dei nomi di uomini e donne così marcati nel segno del rispetto e dello sviluppo. Nel vincere la tentazione di chiamare le baracche: Di Giacomo, Eduardo o Totò, la Finizio ci diceva che le radici esistono ma non sono tutto, bisognava guardare cosa ci fosse oltre il ponte.<br />
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Facevamo i doppi turni. Il sabato pomeriggio lasciava che entrassimo 10 minuti dopo così da poter vedere <i>Oggi le comiche, </i>perché Chaplin e Buster Keaton erano cultura. Nella prima settimana dopo le feste di Natale non assegnava compiti a casa, perché i giocattoli all'epoca arrivavano solo alla Befana e ci dava del tempo per goderceli. L'ora di religione veniva a tenerla un giovane prete, lei diceva: esco fuori a fumare, e a noi pareva un enorme mistero. Molte cose ci sfuggivano. Non sapevamo che la Fabbrica iniziava a chiudere i bilanci in perdita, che il piano regolatore del Comune cominciava a impedirne un ulteriore allargamento e annunciava una trasformazione urbana poi incompiuta. La Fabbrica era un presidio di civiltà, era un baluardo contro la camorra.<br />
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Uno dei figli della signorina Finizio studiava pianoforte al conservatorio. Il sabato invitava alle Baracche dei musicisti - saranno stati studenti, a noi parevano Mozart e Beethoven reincarnati - e lasciava che eseguissero musica sinfonica dopo aver montato e smontato gli strumenti, mostrandoli, spiegandoli: una settimana i fiati, un'altra gli archi, poi le percussioni. Insegnò a ballare il valzer, diciamo che ci provò. Certe volte il sabato cedeva per un'ora la cattedra a un genitore, che veniva a tenere una lezione legata al suo lavoro: imparammo come si compila un conto corrente da un papà dipendente delle Poste e cos'era la Costituzione da un papà avvocato. Era onestamente troppo. La fermarono. Il colera fu il pretesto per mettere un argine all'ingresso di tanti contributi esterni, era invidia, si sentiva dire a casa dalle mamme. </div>
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La signorina Finizio aveva diviso la classe in squadre. I gialli, i blu, i rossi. Ogni riassunto, ogni tema, ogni problema, ogni interrogazione di ciascuno di noi portava dei punti alla sua squadra. Un gigantesco foglio bristol sulla lavagna teneva il conto della classifica, con dei nastrini colorati agganciati a degli spilli. La Finizio che si preoccupava di tutelare le differenze sdoganando l'uso del napoletano, era la stessa che ci addestrava alla competizione che avremmo trovato da adulti fuori di lì. La scuola era il nostro campionato, non una gara individuale. Il ricordo più forte di quell'esperienza è nelle penalizzazioni che assegnava a chi esultava troppo o a chi prendeva in giro gli sconfitti, mi piace credere a distanza di 40 anni che ne desse pure a chi si deprimeva, mi piace credere che volesse insegnare il controllo delle emozioni. </div>
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La Finizio veniva in metropolitana da Gianturco, una specie di maestra Oliviero di Elena Ferrante, ma più brava, molto più brava. Se fosse nata nelle Langhe sarebbe finita in un romanzo di Fenoglio. Per la festa della Liberazione in quinta elementare assegnò una ricerca sulla Resistenza. Avremmo dovuto intervistare i vecchi di famiglia, testimoni del tempo che ancora vivevano in abbondanza attorno a noi. Sarebbero stati loro a farci scoprire gli orrori del fascismo e del nazismo, con i loro racconti, li avremmo così sentiti nostri, più vicini, parte delle nostre vite. Scoprimmo nonni senza libertà costretti a prendere la tessera per conservare il posto di lavoro, scoprimmo zii nascosti nelle cantine o sui terrazzi durante i rastrellamenti dei soldati tedeschi. Trascrivemmo racconti sui fogli di computisteria e li fissammo per sempre nella memoria, rendendo speciale e per sempre il 25 aprile.</div>
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Quando la rivedemmo l'ultima volta, noi cinque o sei ormai universitari in missione nella sua nuova classe - una cattedra finalmente a Gianturco - parlammo a lungo di quello che eravamo grazie a lei e di ciò che oltre il ponte di Cavalleggeri volevamo diventare. Aveva i suoi panni super colorati, l'alito profumato per il rossetto e il solito sorriso gigantesco. Ce ne andammo e disse: "Ora siete grandi, per favore, non tornate più". </div>
achttp://www.blogger.com/profile/02839367301230689930noreply@blogger.com4tag:blogger.com,1999:blog-3919598133140095603.post-76127096793475970052019-02-25T12:24:00.000+01:002019-04-14T12:24:26.805+02:00La favola della serie A poco allenante<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://3.bp.blogspot.com/-7Rdw4Zl8IgU/XLMJ8-0leeI/AAAAAAAAVzQ/-uiOaAEgJ5AaiKHUzP5Yx3rblN2U6HX6ACLcBGAs/s1600/atlejuv.JPG" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" data-original-height="420" data-original-width="749" height="222" src="https://3.bp.blogspot.com/-7Rdw4Zl8IgU/XLMJ8-0leeI/AAAAAAAAVzQ/-uiOaAEgJ5AaiKHUzP5Yx3rblN2U6HX6ACLcBGAs/s400/atlejuv.JPG" width="400" /></a></div>
La Roma ha giocato a maggio una semifinale di Champions ed è tuttora in corsa per andare avanti. Il Napoli è fuori dalle prime 16 per un gol in meno e con la miglior difesa del girone, dopo aver battuto il Liverpool ed essersi fatto prendere al 93' dal Psg. La stessa Inter indecifrabile di Spalletti s'è giocata fino in fondo la qualificazione battendo il Tottenham e pareggiando col Barcellona. Il deserto che spesso ci raccontiamo è meno arido di quanto appaia. La Lazio era nei quarti di Europa League pochi mesi fa. La Fiorentina si spinse in semifinale nel 2015. La qualità di un movimento si misura nel mare aperto del confronto europeo, e quel confronto ci dice che accanto a una larga fetta di classe media in fuga da investimenti e antagonismo, rassegnata alla subalternità, esistono in Italia diverse squadre di buon livello internazionale. Ne abbiamo 5 fra le prime 40 del ranking Uefa, una in meno di Spagna e Inghilterra, due in più della Germania. Eppure ogni frustrazione della Juve finisce per essere ricondotta al campionato poco allenante. È colpa degli altri.<a name='more'></a><br />Fu Fabio Capello - dicembre 2013 - a imporre la formula, quando Conte usciva ai gironi perdendo con il Galatasaray sotto la neve. Era forse più allenante il campionato turco? Con Allegri la Juve avrebbe poi giocato le finali nel 2015 e 2017, segno che a volte la zavorra degli sparring inadeguati non funziona. In Inghilterra invece ritengono che una delle ragioni per l'unica Coppa vinta in 10 anni (Chelsea 2012) sia una Premier stressante e intensa. Troppo allenante. Vai a capire.<br /><br /><div>
Il punto è che il percorso della Juve è volutamente solitario. Ha altri interessi. Mette in conto il diserbo della Serie A e lo sbarco prossimo in una Eurolega di qualunque tipo. Successi e traguardi sono celebrati come diversità rispetto al movimento. Se un torneo più equilibrato fosse di sua convenienza, non proverebbe a portar via Icardi all'Inter e Zaniolo alla Roma, dopo aver preso Bernardeschi alla Fiorentina, Pjanic alla Roma e Higuain al Napoli. Gli altri club sono inferiori per ricavi, possibilità di spesa, prestigio, cultura della vittoria, capacità di lobbying. Hanno già mille e più motivi di riflessione per le loro sconfitte. Almeno non diamogli il peso di quelle che appartengono alla sola Juve.<br /><br /><i>(la Repubblica, 22 febbraio 2019)</i></div>
achttp://www.blogger.com/profile/02839367301230689930noreply@blogger.com3tag:blogger.com,1999:blog-3919598133140095603.post-54792724456227246952019-02-17T12:11:00.000+01:002019-04-14T12:15:39.300+02:00Banks e la parata del secolo che tolse il fiato a Pelé<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://8by8mag.com/wp-content/uploads/2018/06/1_Banks.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" data-original-height="532" data-original-width="800" height="265" src="https://8by8mag.com/wp-content/uploads/2018/06/1_Banks.jpg" width="400" /></a></div>
Pelé era montato su Tommy Wright come avrebbe poi rifatto in finale sul povero Burgnich, arrivando a colpire il pallone da lassù, oltre i due metri. Lo aveva schiacciato a terra con violenza facendolo picchiare dentro l'area piccola e aveva urlato: goool - alzando le braccia prima del tempo - bucando con la voce pure il boato della folla. Perciò <a href="https://ildivanosulcortile.blogspot.com/2010/03/il-giro-dei-mondiali-in-80-portieri_26.html" target="_blank">Gordon Banks credette di aver solo toccato la palla</a> senza averle impedito di finire in porta, tanto che rimase un attimo accanto al palo con la testa bassa.<br />
Si sbagliava. Il boato era per lui.<br />
L'aveva presa. Lo capì rialzandosi dai complimenti dei compagni. Si voltò e vide che il pallone era sui cartelloni della pubblicità.<br />
L'aveva deviato col braccio destro cadendo. Pelé era diventato una statua di sale. Gli mormorò: ti odio, prima di raccontare negli anni a venire: «Ho fatto più di mille gol nella vita ma la gente mi chiede dell'unico che non ho segnato». Terry Cooper passò a Banks una mano tra i capelli, mentre Bobby Moore lo fece ridere: «Ehi Gordon», gli disse, «stai diventando vecchio, un tempo l'avresti bloccata».<br />
<br />
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Il calcio la chiamò già allora, 1970, la parata del secolo e ha continuato a farlo oltre il Duemila: non cambierà certo nome adesso che Gordon Banks ce la lascia in suo ricordo, come un monumento, dopo essersi arreso a 81 anni a un cancro ai reni. È ancora l'unico portiere inglese ad aver vinto un Mondiale, il più grande di sempre del suo Paese e amato ovunque: per Zoff «un idolo come Yashin, avrebbe meritato il Pallone d'oro», per Maradona «una leggenda», per Lineker «un eroe assoluto», per Buffon un ispiratore e per Pelé «portiere magico, amico mio, bella persona».<br />
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Dopo la parata del secolo, il Mondiale messicano di Banks finì per un'indigestione, una birra fredda la notte prima dei quarti di finale contro la Germania. Non si reggeva in piedi, la partita era a mezzogiorno. Giocò la sua riserva, Bonetti, che in sei partite aveva preso solo un gol. Banks era dovuto rimanere in albergo sotto le coperte. Guardava la partita in differita senza conoscere il risultato quando dallo stadio rientrarono i compagni. Alex Stepney gli fece lo spoiler con le dita: 3 a 2. «Per noi?» domandò Banks. Aveva un senso. In tv erano 2-0 per gli inglesi. «Per loro» si sentì rispondere. Quel Bonetti, che disastro. Gli inglesi si raccontano da allora che se ci fosse stato Banks non l'avrebbero persa mai, e mai sarebbe perciò esistita la semifinale da leggenda: Italia batte Germania 4-3.<br />
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Banks veniva da una zona operaia dello Yorkshire. Suo padre aveva trasferito tutti a Catfcliffe e aperto un negozio di scommesse, al quale un giorno dei ladri diedero l'assalto per portar via l'incasso. Il fratello disabile di Gordon era all'interno, fece resistenza, morì qualche settimana dopo. Gordon dovette iniziare a lavorare. Trasportò carbone finché non gli offrirono un contratto da 3 sterline a settimana in prova tra i pali del Chesterfield, in serie C. L'anno dopo il Leicester in A gliene dava già settemila. Nell'estate del '66, da campione del mondo, segnalò ai suoi che nelle giovanili cresceva bene un ragazzino, tale Shilton. Solo che al momento di firmare il contratto da professionista, il ragazzino pose una condizione: «Il titolare sono io». Eva contro Eva. Il Leicester mandò via Banks, allo Stoke, dove avrebbe vinto l'unica Coppa di lega della storia. I due diventarono rivali pure per la Nazionale, fino al '72, quando nel tornare a casa dopo una seduta di fisioterapia, Gordon perse il controllo della macchina e finì in un fossato. L'occhio destro ne fu compromesso. Lo Stoke dovette prendere un altro portiere, e fu di nuovo Shilton, ossessionato dall'idea di inseguire a sua volta "una parata impossibile". Banks tornò per nostalgia cinque anni più tardi, nella lega americana, mentre Shilton confidava di vivere con la certezza che un giorno il destino si sarebbe presentato a portargli il conto per la sua superbia. <a href="https://ildivanosulcortile.blogspot.com/2014/06/shilton-la-vittima-della-mano-de-dios.html" target="_blank">Fu così che visse la mano de Dios</a>. Nello stesso Messico della parata del secolo.<br />
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<i>(la Repubblica, 13 febbraio 2019)</i></div>
achttp://www.blogger.com/profile/02839367301230689930noreply@blogger.com2tag:blogger.com,1999:blog-3919598133140095603.post-70026448839904420052019-02-15T12:59:00.000+01:002019-04-14T13:03:46.668+02:00Perché la pallamano in Italia non decolla<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://4.bp.blogspot.com/-r_xf47GSswE/XLMTT5fu9DI/AAAAAAAAVzc/aJh_M-RCJq0yT4MIhry83e0W4RUHzpuXwCLcBGAs/s1600/handb.JPG" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="403" data-original-width="661" height="243" src="https://4.bp.blogspot.com/-r_xf47GSswE/XLMTT5fu9DI/AAAAAAAAVzc/aJh_M-RCJq0yT4MIhry83e0W4RUHzpuXwCLcBGAs/s400/handb.JPG" width="400" /></a></div>
Questa è la storia del più grande mistero dello sport italiano e di una Nazionale dimenticata, l’unica a non essere mai andata alle Olimpiadi e ad aver fatto un’apparizione ai Mondiali in 50 anni, con gli uomini qualificati nel 1997 (diciottesimi) e le donne in campo nel 2001 (sedicesime) giusto perché si giocava a Merano. La pallamano non ha saggisti che la ritengano un’esperienza religiosa né scrittori disposti in nome suo a farsi mendicanti di bellezza. Nessun cantore, nessun poeta. A guardarla da vicino possiede solo l’arte della semplicità. In sintesi: si gioca in sette, uno sta in porta, non si può tenere la palla fra le mani per più di 3 secondi senza muoversi, si palleggia, si passa, si tira, tutto a patto di non entrare in area. Due tempi da 30 minuti, chi fa più gol vince. Facile, davvero. Tanto facile che, la federazione portò subito il gioco nelle scuole. Risultato: lo stiamo aspettando. <a name='more'></a><br /> Quasi tutti i docenti di educazione fisica hanno fatto provare la pallamano ai loro alunni, eppure l’Italia non ha mai avuto una Nazionale da ricordare. “Siamo gli unici sul web senza una memoria da tramandare”, sintetizza Pasquale Loria, salernitano, 54 anni, presidente della federazione dal marzo 2017, quando ha interrotto il ventennale governo di Francesco Purromuto, “durante il quale - dice - abbiamo definitivamente perso terreno dal resto d'Europa che stava sviluppando la commercializzazione del nostro sport. Anni in cui venivano fissati protocolli per le riprese tv e per gli impianti. Ecco, lì noi siamo andati alla deriva. Abbiamo accettato l’idea di una decrescita felice mentre la pallacanestro italiana vinceva ancora le Coppe europee e la pallavolo viveva il suo boom. Le nostre società sono rimaste sostanzialmente in mano a professori di educazione fisica, le poche realtà manageriali hanno avuto vita breve”. <br /><br /> Per convincere gli adolescenti oggi c'è da vincere la concorrenza non solo degli sport di squadra tradizionali ma anche dell'hockey su prato - specialmente fra le ragazzine - del rugby a sette e del cricket, tutte discipline che si sono presentate agli studenti per intercettare abitudini e costumi dei figli dell'immigrazione. Con un progetto approvato dal Miur, la pallamano ora sta rilanciando la sua presenza fra i più piccoli, con la collaborazione di istruttori federali nelle ore di motoria alle primarie. Le Nazionali giovanili cominciano a raccogliere gli esiti della semina fra i nati nel 2000 e nel 2001. La Under 18 ha vinto in estate gli Europei di serie B qualificandosi per la prima volta nella storia a quelli maggiori Under 20: significa essere entrati tra i primi 16 paesi a livello giovanile, nonostante sia difficile trovare campi da 40 metri x 20 perché le indicazioni del Coni per la realizzazione di complessi polivalenti sono spesso disattese. L’unico sport che non ha mai mandato una Nazionale a un'Olimpiade finanzia questo suo sforzo immane con un budget di poco superiore ai 4 milioni l'anno, come dire: un mese e mezzo di stipendio di Cristiano Ronaldo. La dimensione della pallamano italiana è fatta di 33mila atleti, 404 società, 1.200 tecnici, tremila dirigenti. Una comunità da noi marginale, ma nel mondo è fra i primi tre sport per praticanti femminili e quello con più biglietti venduti ai Giochi 2012 e 2016 dopo il calcio. Ai Mondiali appena finiti con la vittoria della Danimarca ne sono stati comprati 500mila. <br /><br /> Un’ottima squadra maschile per la serie A si fa in Italia con 350mila euro l'anno, 200mila per una femminile. Il budget del Paris Saint-Germain è di 17 milioni, in Francia stelle come Karabatic e il danese Hansen possono guadagnare un milione l'anno mentre giocatori medi vivono con 6mila euro al mese in A e 4mila in B giocando 70 partite a stagione. Gli italiani che vivono di pallamano sono due e giocano in Germania: nel Bietigheim il portiere Domenico Ebner, di padre tedesco e madre pugliese, al Metzingern la terzina Anika Niederwieser, prima italiana a vincere un campionato all’estero con il Thüringer. Ma i club stranieri cominciano a pizzicare qui da noi giovani da far crescere, come i gemelli Marco e Simone Mengon, 19 anni (Montpellier), il diciottenne Leo Prantner (al Flensburg). <br /><br /> Anika è figlia d'arte. Suo padre Michael è stato portiere della Nazionale al famoso Mondiale del ’97. Aveva giocato a calcio finché il suo presidente non si dimenticò di tesserarlo. “Anche lui - racconta Anika Niederwieser - ebbe offerte dall'estero, ma aveva un lavoro e a quei tempi in Italia gli sponsor qualche soldo lo facevano girare. Ora siamo due pianeti diversi e distanti. Sarà sempre difficile avere una Nazionale competitiva, il gap nasce nelle scuole. In Germania i bambini giocano un'ora al giorno e le partite si possono vedere su Sky. In Italia il calcio mangia tutto”. <br /><br /> Il Nord-est è la casa storica della pallamano italiana. Trieste è la città con più scudetti (17), ma la sua grande rivale degli anni 70, la Volani Rovereto, ha chiuso l'attività. Dopo le parentesi di Scafati e Ortigia, dal 2002 lo scudetto se lo giocano l'Alto Adige (Bolzano e Merano) e la Puglia (Conversano Casarano Fasano). Tra le ragazze il nuovo polo è Salerno. Per promuovere lo sport fra i giovani, l'Italia si è fatta assegnare l'organizzazione degli Europei B Under 17 donne del prossimo agosto (in Friuli), la Coppa Campioni di beach in Sicilia per tre anni e i Mondiali di beach del 2020. “Se i bambini non vedono”, dice Loria “in palestra non vengono. Il finanziamento del Coni è legato ai risultati. Negli ultimi 20 anni l’88% dei titoli mondiali e olimpici è andato a paesi dell’Europa, che ai Giochi ha 4 o 5 posti. Significa che per qualificarsi bisogna avere una squadra da podio”. <br /><br /> Dunque le Olimpiadi non le vedremo mai, a meno che non entri nel programma del 2024 la beach handball: l’Italia ha vinto l’argento agli ultimi Mondiali juniores. Giuseppe Tedesco era il vice allenatore nel 1997 ed è il tecnico delle giovanili oggi. Dice che “esisteva un fervore perduto, un buco di interesse che ora paghiamo, non si può essere dopolavoristi a vita. Abbiamo perso il treno del professionismo negli anni in cui l’economia italiana girava meglio di oggi, ma dopo tanti anni rivedo ragazzi che pensano di fare della pallamano la loro vita”. Anche il profilo del giocatore ideale è mutato. Loria ricorda quando si diceva “se sei basso stai all’ala, sei sei grosso fai il pivot, se sei scarso vai in porta. Adesso è tutto run-and-gun: velocità, ritmo, intensità, errori. Non siamo più lo sport che somigliava alla pallanuoto senza l’acqua”. Anzi, per il ct Riccardo Trillini “un nostro giocatore è un vero decathleta che riassume le caratteristiche anche di altri sport, dal calcio alla pallacanestro: siamo il più veloce sport di squadra con la palla". <br /><br /> I tecnici federali che girano le scuole per il reclutamento a questa “atletica giocata”, cercano ragazzi “mediamente forti e alti - spiega Tedesco - perché i terzini vanno dal metro e 95 ai due metri come i pivot, serve forza nel tronco e nelle braccia per il tiro, si tratta di uno sport di contatto e resistenza, ed è meglio avere i mancini a destra. Sono le stesse caratteristiche per volley e basket, lo so, ma è strano che non riusciamo a far concorrenza potendo offrire il fascino della porta e del gol, nella nazione che ha sempre pensato al calcio”. Strano perché i gol di mano, con Silvio Piola, li abbiamo inventati noi. <br /><br /><i>(Il Venerdì, 8 febbraio 2019)</i>achttp://www.blogger.com/profile/02839367301230689930noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-3919598133140095603.post-37599091594044934182019-02-08T13:07:00.000+01:002019-04-14T13:37:30.074+02:00Quei bravi ragazzi della Paranza dei Bambini<a href="https://www.gelestatic.it/thimg/qlqq6xabwtWoh3Mw8E3LQNmi9tE=/960x540/smart/https%3A//ilpiccolo.gelocal.it/image/contentid/policy%3A1.17772096%3A1550623747/image/image.jpg%3Ff%3Ddetail_558%26h%3D720%26w%3D1280%26%24p%24f%24h%24w%3Dd5eb06a" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="450" data-original-width="800" height="360" src="https://www.gelestatic.it/thimg/qlqq6xabwtWoh3Mw8E3LQNmi9tE=/960x540/smart/https%3A//ilpiccolo.gelocal.it/image/contentid/policy%3A1.17772096%3A1550623747/image/image.jpg%3Ff%3Ddetail_558%26h%3D720%26w%3D1280%26%24p%24f%24h%24w%3Dd5eb06a" width="640" /></a>
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NAPOLI. Vengono dalla strada ma dalla strada fuggono. Queste facce, questi occhi, queste vite sono cresciute dentro quartieri presi in ostaggio da codici e costumi di camorra: portarli al cinema è un modo per tenersene lontani. Sono attori esordienti, cercati fra tremila in sei mesi, perché i piccoli boss de La Paranza dei Bambini dovevano avere volti distanti dalla classica iconografia malvagia eppure venire da contesti a cui la realtà del film non fosse estranea. Un casting da neorealismo identitario per l'unico film italiano in concorso a Berlino (il 12, e poi in sala), firmato da Claudio Giovannesi, dal libro di Roberto Saviano e da lui scritto con il regista e con Maurizio Braucci; il racconto dell’ascesa incosciente e criminale di sei quindicenni disposti a rinunciare ai primi amori e all’amicizia per soldi pistole e droga, per prendersi tutto nel rione Sanità, lo stesso in cui nel 1960 Eduardo De Filippo immaginava il suo personaggio forse più controverso, quell’Antonio Barracano che si faceva sindaco d’ufficio e d’onore per tenere le dispute in equilibrio, creatore di una giustizia personale per sfiducia negli uomini e nelle istituzioni.<br />
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Quasi sessant’anni più tardi e dieci dopo Gomorra, in questa neo-ferocia ci sono pure riflessi linguistici. Da un lato la malavita si è appropriata di parole nate come innocenti - la paranza, che prima di tutto era imbarcazione da pesca, poi frittura mista di pescetti; dall’altro l’uso comune ha accolto vocaboli camorristici – le “stese” – quasi a legittimarli. Il mondo di “stese” e paranze è fatto di ragazzini che sparano a mura e serrande nei rioni nemici, per intimidire, per sfidare, dopo essersi addestrati mirando ai padelloni delle antenne satellitari sui tetti, mentre tutt’attorno i fuochi d’artificio coprono gli spari. È un mondo senza padri, senza politica, senza divise, nel quale lo Stato è la buona volontà dell’associazionismo, unico contrasto al reclutamento di nuovi delinquenti tra famiglie non affiliate, nella vasta zona grigia dei piccoli precedenti penali, dove ogni adolescente è solo, fragile e a rischio. I numeri sul fenomeno diffusi un anno fa dalla giustizia minorile nel distretto di Napoli raccontavano di 10 procedimenti per associazione di stampo mafioso fra giugno 2016 e giugno 2017, 14 per narcotraffico, 27 per omicidio, 19 per tentato omicidio, 457 per droga, in tutto 2.807 notizie di reati, in calo come numero per la depenalizzazione ma più gravi rispetto al passato. Nella sentenza con cui nell'estate 2016 veniva fissato una volta e per sempre che “esiste la paranza dei bimbi, non è un delirio o un’invenzione” (Saviano), per 43 condanne fra i 2 e i 20 anni il giudice Nicola Quatrano scrisse: “Un filo sottile ed esistenziale lega i giovani che scorrono in armi nel centro storico di Napoli per uccidere o farsi uccidere e i militanti della Jihad. Entrambi sono ossessionati dalla morte, forse la amano, probabilmente la cercano, quasi fosse l'unica chance per dare un senso alla propria vita e vivere in eterno”. Ora il regista Giovannesi chiarisce: “Il mio non è un film su Napoli ma sulla perdita dell’innocenza che si manifesta in ogni metropoli quando si fa una scelta criminale. Un processo raccontato dal punto di vista dei ragazzi, dei loro valori e sentimenti”.<br />
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Pasquale Marotta, nel film Agostino, vive a Scampia. Certi orrori li porta senza dirli sotto la pelle. “Ci hanno scelto per il film perché conosciamo il male. Senza praticarlo, sappiamo esprimerlo. Io le vedo ogni giorno certe persone, ma il cervello è più forte delle pistole”. S’è diplomato all’istituto alberghiero durante le riprese, l’estate scorsa. “Mi hanno notato a scuola mentre mangiavo una pizzetta. Di giorno giravamo, di notte studiavo. Alla fine non è stata nemmeno questa gran fatica, quando le cose le fai col cuore vengono bene. Sono quasi chef, cucino il pesce, lavoro con i crudi. Era il mio sogno, adesso se n’è aggiunto un altro. Così ho un piano B se con il cinema andasse male”.<br />
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Perché ora davvero questi ragazzi sentono che il cinema è venuto a prenderli, o come dice Francesco Di Napoli, che è Nicola, il protagonista, il capo dalla faccia d’angelo, “questo film me l’ha mandato Dio”. Francesco viene dal Rione Traiano, dove un muro invisibile separa i tanti onesti silenziosi da un distretto dello spaccio. Qui, a ridosso della Fuorigrotta piccolo-borghese e della Bagnoli operaia, costruirono una Scampia prima di Scampia. Palazzine basse, vialoni, anodizzati: doveva essere un quartiere popolare, è diventato un ghetto. “Al provino - racconta - s’era presentato mio cugino. Quando sono andati sul profilo facebook per vedere le sue foto, ne hanno trovata una mia e mi hanno fatto contattare. Ho capito che era una cosa seria quando mi hanno portato a Cinecittà. A Roma non c’ero mai stato. Io mo’ farei altri mille film, da domani, mi è bastato un giorno per capirlo. Prima mi svegliavo alle 5 per andare a lavorare. Facevo il pasticciere, anzi lo faccio ancora. Mi ero stancato di essere il ragazzo delle consegne sotto la pioggia. Il capo mi ha promosso dietro il bancone e ho imparato a fare i biscotti, gli occhi di bue, le francesine”. <br />
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Ar Tem, che nel film è rasato e si chiama Tyson, dice che questi capelli troppo cresciuti adesso vanno tagliati, “se no non mi riconosce nessuno”. Crede che con questo film “noi ci siamo salvati”. Prima aveva la boxe. “Combatto nei pesi welter, categoria Élite, 69 chili. Ma ormai della boxe in Italia non gliene frega niente a nessuno, la gente va solo appresso al pallone e alle bollette. Due anni fa me ne sono andato a combattere a Londra, così ho imparato pure l’inglese. Non voglio diventare ricco o importante. È che non voglio dipendere dai genitori come tanti fino a 30 anni, mio padre non vive con me, mia mamma è casalinga. Quando mi hanno chiamato al provino, ho pensato a una truffa. Avevo fatto delle foto tre anni fa. Mia mamma ha detto: se non si paga, ci puoi andare”. <br />
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Sono ragazzi sui quali si è molto interrogato Carlo Degli Esposti, fondatore di Palomar, che produce il film con Vision Distribution, in collaborazione con Sky e Timvision. “Mi sono accostato alla lavorazione con la preoccupazione di non far danni. Non sarei andato a dormire tranquillo sapendo che avrei esposto dei ragazzi a pericoli, tentazioni, al rischio di emulazioni. Volevo essere certo che gli fosse chiara la differenza fra realtà e finzione, che fossero consapevoli della differenza fra la pistola finta che gli mettevamo fra le mani e una vera. Ci siamo rivolti a degli psicologi e ho voluto che per tutto il periodo vigilasse la figura di Cesare Moreno”. Moreno ha 72 anni ed è un maestro elementare coi sandali ai piedi in segno di protesta, tra i fondatori del progetto Chance per il recupero dei dispersi della scuola media, presidente della onlus Maestri di Strada che nell’ex triangolo rosso orientale (Barra, San Giovanni a Teduccio, Ponticelli) si dedica a 500 ragazzi. “Già m’immagino le discussioni, la lotta tra due immagini di Napoli, fra chi nega che tutta la città sia così e chi invoca l’anagrafe dei ragazzi a rischio. La verità è che la maggioranza dei quindicenni è sana, i pagliacci sono gli adulti. I ragazzi del film mi piacerebbe ingaggiarli. Dico come educatori. Vorrei portarli nelle scuole a parlare della loro esperienza. In quella frequentata da Pasquale a Scampia, ci sono classi con 8 alunni presenti su 25 iscritti. Sono ragazzi rassegnati, convinti di non avere un’alternativa. Purtroppo nella scuola italiana parlano solo i professori. Il dialogo fra ragazzi è sottovalutato. Invece questo film è un’occasione. Racconta belle storie personali dietro una vicenda triste”.<br />
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La scuola, eccola. “Avevano offerto un ruolo pure a un altro ragazzo del rione mio - racconta Francesco - ma il preside s’è opposto, non gli ha dato il permesso per saltare le lezioni dicendo che era una testa calda. Secondo me glielo doveva dare proprio per quello. Un set insegna disciplina, educazione, aiuta a crescere. Io la scuola l’ho lasciata, ma quando ancora ci andavo, la professoressa di francese mi ripeteva: tu non combinerai niente di buono nella vita. Lo diceva perché in classe non mi vedeva mai, stavo sempre in bagno. Ecco, io adesso spero solo una cosa. Che sua figlia venga al cinema a guardare il film e quando torna a casa le dica che sono stato bravo”. <br />
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<a href="https://www.repstatic.it/content/nazionale/img/2019/01/30/180825003-b04e3b5b-d800-4147-b186-fcea5f5b4ca5.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="723" data-original-width="567" height="200" src="https://www.repstatic.it/content/nazionale/img/2019/01/30/180825003-b04e3b5b-d800-4147-b186-fcea5f5b4ca5.jpg" width="156" /></a>Con i soldi del film hanno aiutato le famiglie. “Il Progetto Chance” ricorda Moreno “insegna che con i primi guadagni si fa un regalo alle madri”. Francesco le ha comprato una cucina nuova, a casa sono disoccupati, “ un motorino per me e ho fatto un viaggio ad Amsterdam”. Pasquale ha lasciato tutto ai suoi, Ar Tem ha tenuto per sé un telefono e un paio di scarpe. Ora confessa che per lui “non c’è niente che vale più del piacere di vedere l’orgoglio dentro gli occhi di mia mamma. Non è una pistola in mano che ti rende forte. Si è forti dentro”. Francesco dice che al Rione Traiano “di ragazzi caduti nel fosso ne conosce. Tutti quelli che entrano nel giro se ne pentono, tutti, ma lo capiscono quando non possono uscirne, quando fuori dalla galera scoprono che gli viene offerto al massimo un lavoro da 100 euro a settimana e non gli basta più. Sai quanti ne conosco? Uff. Che ci fanno più, dopo, con 100 euro a settimana? A me questo film mi è venuto a prendere dentro a un buco. Se è successo a me, può capitare a tutti. Ho dovuto passare otto provini. Sono timido. Il laboratorio mi pareva una scemenza. Mi dicevano: fai la forma di un vaso con il corpo. Ridevo. Poi quando lo fanno in dieci, tutti insieme, capisci che la cosa è meno stupida di quanto sembri. Un giorno mi hanno fatto salire in piedi su un tavolo e ho dovuto gridare: io sono Zeuuuus. Sono sceso e la vergogna è scomparsa dalla vita mia. Non ne ho avuta neppure a svestirmi, a recitare nudo, a baciare una ragazza che non conoscevo. Forse più lei ne doveva avere, Viviana, ma ci hanno allenato un poco alla volta a trovare confidenza fra di noi”.<br />
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Finché è comparsa la pistola. Giovannesi ha girato alla Ken Loach, in sequenza cronologica, le scene dall’inizio alla fine, così che i ragazzi seguissero le emozioni dei personaggi e della storia. L’effetto che fa un’arma? Vederla, prenderla, puntarla. Gli psicologi ci hanno lavorato. “La pistola - dice Francesco - m’ha fatto paura solo una volta, quando in una scena ho sparato a un altro attore da due metri, la stanza era piccola, il rumore fortissimo, un rimbombo enorme, e a quello gli è uscito il sangue finto da un buco fatto dentro la maglietta. Mi ha fatto più impressione scoprire cose di me che non conoscevo, che riesco a piangere per finta, non credevo di saperlo fare, fermarsi un attimo, pensarci, sentire le lacrime che escono. Quando mia madre andrà al cinema, si alzerà in piedi per gridare che quello è figlio suo. Lo farà sentire a tutto il mondo. Ora mi devo mettere a studiare, prendere lezioni di dizione, non potrò interpretare sempre il ragazzo napoletano”. Del resto aveva 18 anni pure quel figlio del popolo come lui che negli anni 60, al quartiere Santa Lucia, consegnava i caffè, si chiamava Gianni Calone e sarebbe diventato Massimo Ranieri, lavorando con Bolognini e Strehler, recitando Shakespeare. Forse allora bisognerebbe riprendersi certe parole, portarle via al monopolio della camorra, ripulirne il senso, forse bisognerebbe poter chiamare questi ragazzi che si ribellano a una sorte: la paranza giusta. “Al cinema ci vado, mi piacciono le commedie dei comici italiani e mi è piaciuta La casa di carta. Mo’ che ho fatto l’attore, penso che il ruolo di Berlino è il più bello. È ’nu pazzo. Sarebbe un bel film pure la vita mia, la vita nostra. O no?”.<br />
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<i>(Il Venerdì, 1 febbraio 2019)</i>achttp://www.blogger.com/profile/02839367301230689930noreply@blogger.com1