mercoledì 15 aprile 2015

Un ritiro ci salverà

Gli azzurri in ritiro al Mundial '82
DEVE trattarsi di un omaggio postumo a Helenio Herrera, il Mago, l'uomo che teneva la sua Inter sotto controllo dal mercoledì sera al lunedì mattina. Oppure è la celebrazione del trentennale della grande idea venuta ad Antonio Pecoriello, presidente dell'Avellino che dopo tre sconfitte di fila, marzo 1985, annunciò «un ritiro perpetuo». Come i cedri di Foscolo. Ci tenne a spiegare che non di provvedimento punitivo si trattava, «ma solo di una decisione saggia». Solo quello.
Fatto sta che adesso si ritrovano in ritiro tre squadre di A tutte assieme. Quello del Cagliari (secondo giorno) è detto «a oltranza». Quello dell'Udinese (ottavo) è raccontato da Pozzo come una specie di gioioso campo scuola. «Non sono i lavori forzati». Quello del Napoli (sesto giorno con interruzione domenicale) serve a scappare dalla «città rapace», definizione dentro cui De Laurentiis comprende quello che ha individuato come il pericolo numero uno per gli introiti da Champions. La vitalità dell'ormone maschile. Il calcio ha i suoi riti, quando le cose vanno male. L'allenatore da cacciare resta un classico. E mentre si afferma la nuova moda del sermone ultrà, torna attuale il ritiro punitivo. 
Ci sono cascati tutti, i dirigenti più eruttivi del nostro calcio e i capitani del capitalismo italiano, tutti pronti a tenere i dipendenti sotto chiave, come il professor Guidobaldo Maria Riccardelli costringeva Fantozzi e colleghi alle diciotto bobine della corazzata Potemkin. I Gaucci introdussero un risvolto mistico. Riccardo, presidente nel 2001 del Catania, mandò tutti in Abruzzo, annunciando che sarebbero rimasti «nel peggior hotel del mondo». Dalle camere fece portare via telefoni e televisori. «Devono capire cosa significa soffrire». Il povero titolare dell'albergo difese la sua creatura spiegando che in realtà si trattava di un ex convento del ‘400. Si arrese quando capì che era tutta pubblicità. Il capostipite Luciano, a Perugia, dopo una serie di partite così così, obbligò la squadra a un'amichevole di solidarietà a Castel di Sangro, incasso destinato all'acquisto di viveri e medicinali per la popolazione afgana. Poi tutti in ritiro, disse, «fino a quando non arriveranno risultati confortanti». La tendenza fece breccia. Si dava l'impressione di azzerare lussi e privilegi, ci sono momenti in cui la pancia del tifoso va assecondata. Così, sotto l'onda dell'anti-politica, la pratica è diventata di calcio e di governo: Prodi portò i suoi ministri in conclave in Umbria, Letta in un'abbazia in Toscana. Romeo Anconetani, presidente del Pisa anni ‘80 all'insegna della vivacità, cambiò la sede del ritiro all'ultimo istante. Non più Pescia, ma Volterra. Dove faceva più freddo. Il sindacato, all'epoca, si faceva ancora sentire: «I ritiri sono contro il contratto. I giocatori possono chiedere un risarcimento danni». Oggi al massimo chiedono se c'è il wi-fi.

Nessuno ammetterà mai che in ritiro non succede niente di speciale. «Si passa il tempo a telefonare alle amanti e a giocare d'azzardo», svelò una volta Agroppi. «Già passiamo metà della nostra vita a Milanello. Starci di più serve a poco», mormorò Costacurta quando perfino Capello si allineò all'andazzo. Franco Scoglio invece una quindicina d'anni fa punì il suo Napoli strappandolo alle famiglie tra Natale e Capodanno. Tutti in Tunisia. Poi magari si vince, com'è successo domenica al Napoli, e c'è perfino chi si convince che gli eremiti siano i migliori cannonieri. Così, dall'alto di questa credenza, De Laurentiis può comandare: si torna in ritiro. La scaramanzia ha ovunque il suo peso, figurarsi a Napoli, dove pensando di spezzare l'influsso negativo domenica hanno annullato l'ingresso delle squadre in campo al suono di "Napule è". Porta male, povero Pino Daniele. Quando invece basterebbe alzarsi in piedi e avere il coraggio di gridare che si vince o si perde, ma che il ritiro è come quella corazzata di Fantozzi.  

(la Repubblica, 14 aprile 2015)

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