giovedì 25 aprile 2019

La Resistenza della signorina Finizio

La signorina Finizio era sposata e aveva due figli ma in classe molti la chiamavano così, signorina, qualche volta signurì. Insegnava in una scuola elementare che all'inizio non aveva neppure un nome, il 75° circolo, un insieme di padiglioni prefabbricati dove faceva freddo d'inverno e coi primi caldi si sudava. La chiamavamo Le Baracche e la pronunciavamo con due erre. Il rione Cavalleggeri aveva preso forma lentamente intorno all'Italsider, per tutti la Fabbrica, anche se la fabbrica in zona era più d'una e comprendeva la Cementir e l'Eternit. Una striscia di 800 o 900 metri, dal ponte della metropolitana fino ai palazzi stretti fra un paio di chiese: negli anni 70 era un rione in prevalenza di giovani coppie, molte avevano preso casa lì a costi contenuti anche se non lavoravano all'acciaio. Cavalleggeri non era più Fuorigrotta e non era già Bagnoli, così noi del posto non sapevamo cosa dire a chi ci domandava di quale parte di Napoli fossimo, 'e d''o sì, di dove sei, perché rispondere era una dichiarazione di appartenenza, significava sentirsi classe operaia in un caso o piccoloborghesi nell'altro, e noi non sapevamo d'esserlo.


Alcuni portavano il fiocco in disordine, altri il grembiule sporco, solo un paio anche lo scudetto agganciato alle ciappe sul petto. La signorina Finizio sapeva come parlare a tutti. Lasciava che qualcuno si facesse interrogare in storia o in geografia aiutandosi col dialetto, dillo in napoletano, nun te preoccupa', lei stessa per essere certa che tutti capissimo spesso spiegava qualche passaggio importante in napoletano, lasciandoci vivere il paradosso di una maestra che autorizzava in classe l'uso della lingua di casa, la lingua non ufficiale, mentre in casa genitori e nonni ci impedivano di parlarla. Esistevano due velocità e lei cercava una misura per farci i conti. Parlava di Prévert e Neruda, parlava di Pietro Ingrao. Insegnava le canzoni di Di Giacomo, recitava in aula Sik Sik di Eduardo, leggeva le poesie di Totò.

   In attesa che il sindaco Valenzi posasse la prima pietra per una scuola vera, fatta di mattoni, il direttore ci fece dare un nome ai padiglioni. Ciascuno ospitava due o tre classi, ogni gruppo scelse il suo con un piccolo referendum. Le baracche finirono per chiamarsi Martin Luther King, Marie Curie, Albert Sabin o Albert Schweitzer. Non so cosa sapessimo a otto o nove anni di Schweitzer, certamente fummo guidati, e oggi mi pare di leggere un messaggio, direi un lascito, nella scelta dei nomi di uomini e donne così marcati nel segno del rispetto e dello sviluppo. Nel vincere la tentazione di chiamare le baracche: Di Giacomo, Eduardo o Totò, la Finizio ci diceva che le radici esistono ma non sono tutto, bisognava guardare cosa ci fosse oltre il ponte.

   Facevamo i doppi turni. Il sabato pomeriggio lasciava che entrassimo 10 minuti dopo così da poter vedere Oggi le comiche, perché Chaplin e Buster Keaton erano cultura. Nella prima settimana dopo le feste di Natale non assegnava compiti a casa, perché i giocattoli all'epoca arrivavano solo alla Befana e ci dava del tempo per goderceli. L'ora di religione veniva a tenerla un giovane prete, lei diceva: esco fuori a fumare, e a noi pareva un enorme mistero. Molte cose ci sfuggivano. Non sapevamo che la Fabbrica iniziava a chiudere i bilanci in perdita, che il piano regolatore del Comune cominciava a impedirne un ulteriore allargamento e annunciava una trasformazione urbana poi incompiuta. La Fabbrica era un presidio di civiltà, era un baluardo contro la camorra.

   Uno dei figli della signorina Finizio studiava pianoforte al conservatorio. Il sabato invitava alle Baracche dei musicisti - saranno stati studenti, a noi parevano Mozart e Beethoven reincarnati - e lasciava che eseguissero musica sinfonica dopo aver montato e smontato gli strumenti, mostrandoli, spiegandoli: una settimana i fiati, un'altra gli archi, poi le percussioni. Insegnò a ballare il valzer, diciamo che ci provò. Certe volte il sabato cedeva per un'ora la cattedra a un genitore, che veniva a tenere una lezione legata al suo lavoro: imparammo come si compila un conto corrente da un papà dipendente delle Poste e cos'era la Costituzione da un papà avvocato. Era onestamente troppo. La fermarono. Il colera fu il pretesto per mettere un argine all'ingresso di tanti contributi esterni, era invidia, si sentiva dire a casa dalle mamme. 

   La signorina Finizio aveva diviso la classe in squadre. I gialli, i blu, i rossi. Ogni riassunto, ogni tema, ogni problema, ogni interrogazione di ciascuno di noi portava dei punti alla sua squadra. Un gigantesco foglio bristol sulla lavagna teneva il conto della classifica, con dei nastrini colorati agganciati a degli spilli. La Finizio che si preoccupava di tutelare le differenze sdoganando l'uso del napoletano, era la stessa che ci addestrava alla competizione che avremmo trovato da adulti fuori di lì. La scuola era il nostro campionato, non una gara individuale. Il ricordo più forte di quell'esperienza è nelle penalizzazioni che assegnava a chi esultava troppo o a chi prendeva in giro gli sconfitti, mi piace credere a distanza di 40 anni che ne desse pure a chi si deprimeva, mi piace credere che volesse insegnare il controllo delle emozioni. 

   La Finizio veniva in metropolitana da Gianturco, una specie di maestra Oliviero di Elena Ferrante, ma più brava, molto più brava. Se fosse nata nelle Langhe sarebbe finita in un romanzo di Fenoglio. Per la festa della Liberazione in quinta elementare assegnò una ricerca sulla Resistenza. Avremmo dovuto intervistare i vecchi di famiglia, testimoni del tempo che ancora vivevano in abbondanza attorno a noi. Sarebbero stati loro a farci scoprire gli orrori del fascismo e del nazismo, con i loro racconti, li avremmo così sentiti nostri, più vicini, parte delle nostre vite. Scoprimmo nonni senza libertà costretti a prendere la tessera per conservare il posto di lavoro, scoprimmo zii nascosti nelle cantine o sui terrazzi durante i rastrellamenti dei soldati tedeschi. Trascrivemmo racconti sui fogli di computisteria e li fissammo per sempre nella memoria, rendendo speciale e per sempre il 25 aprile.
   
   Quando la rivedemmo l'ultima volta, noi cinque o sei ormai universitari in missione nella sua nuova classe - una cattedra finalmente a Gianturco - parlammo a lungo di quello che eravamo grazie a lei e di ciò che oltre il ponte di Cavalleggeri volevamo diventare. Aveva i suoi panni super colorati, l'alito profumato per il rossetto e il solito sorriso gigantesco. Ce ne andammo e disse: "Ora siete grandi, per favore, non tornate più". 

4 commenti:

TINA ROMEO ha detto...
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Unknown ha detto...

Grazie. Hai risvegliato una marea di ricordi. É in quelle "baracche" che ho trascorso tutte le elementari ed é stato quello il "mio" rione fino all'età di 33 anni. Me ne sono andato sposato, a Portici, in un parco molto bello ma quei ricordi sono il mio vissuto più bello. ❤️

Theresa williams ha detto...
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Anonimo ha detto...

Grazie per questo bellissimo articolo, mi hai riportato indietro nel tempo. Ho frequentato solo la primina con la signorina Finizio, perchè poi cambiammo quartiere, ma non l'ho mai dimenticata. Era l'anno scolastico 1972/73.