sabato 12 gennaio 2019

La seconda vita di Manzini, il papà di Rocco Schiavone


Seduto alla scrivania dove nascono le storie di Rocco Schiavone, con alle spalle una libreria che è la Hit Parade dei noir di tutti i tempi, Antonio Manzini ha di fronte a sé un quadro di suo padre Francesco, La porta a vetri, 1971, e un'altra porta a vetri da cui si vede il Terminillo. «Papà leggeva tanto, io da ragazzo 4 libri all'anno, soprattutto King, di nascosto. Lui invece mi voleva coi racconti di Cechov in mano». Domani esce Rien ne va plus, ottavo romanzo della serie del vicequestore burbero e spinellomane. Manzini è il giallista che più vende in Italia dopo Camilleri. Questa è la sua seconda vita, dopo 25 anni da attore. Passa per un orso perché se può evita le presentazioni e non dà volentieri interviste. In questo casale di campagna al confine tra Lazio e Umbria, fra ulivi e sei cani, uno che si chiama proprio Rocco, in quattro ore di chiacchiere più volte parlerà di "sospensione dalla realtà" come condizione di vita.

Suo padre, diceva.
«Non poteva crederci che lasciassi a metà Anna Karenina. Ma nei ragazzi deve scattare il libro giusto. Il mio fu I fratelli Karamazov, un'estate in Calabria, a 16 anni. Capii che ogni volume era un universo. Certo, 66mila novità all'anno sono troppe. Se ne leggo 70, uno ogni 5 giorni, me ne perdo 65.930. Poi ci sono quelli che mi spediscono per un parere».

Se un libro non le piace, come lo dice?
«Dico che non mi è arrivato. Una volta mi è capitato di vivere nel terrore di incontrare una persona che mi chiedesse del suo romanzo. L'ho imparato negli anni di teatro. Se confessavi a un regista che il suo lavoro non ti era piaciuto, ti toglieva il saluto per mesi».

Che altro ha imparato su un palco?
«Quando per 70 sere di fila devi ripetere le stesse battute, capisci che per sconfiggere la noia dietro le parole devono vivere intenzioni. Invertire due aggettivi può dare un senso nuovo. A me fa bene leggere due poesie al giorno. I poeti aprono mondi. Dicono in due quartine quel che a 16 romanzi non riesce. Majakóvskij tradotto da Ripellino è come una gara di biathlon: un poeta scia veloce, va giù, spara tre colpi col fucile, precisi, si rialza e ricomincia».

Perché voleva fare l'attore?
«Non mi piacevo, volevo essere un altro, raccontare qualcosa a qualcuno come le storie di cavalieri con le marionette ai cugini. Facevo imitazioni, vidi Natale in casa Cupiello a teatro e ne fui folgorato. Gli attori parlavano al pubblico fingendo di farlo tra loro e noi in platea stavamo al gioco. Una sospensione della realtà. Un patto. Solo i bambini lo rompono, per loro la scena è realtà, ci credono».

Come mai ha smesso?
«Non mi interessava più. Si è impoverito tutto un po' alla volta, come succede nell'amore. Se oggi dovessi tornare su un set, preferirei spararmi in fronte. Quando si apre il sipario a teatro, te la fai addosso. La prima sensazione è l'aria calda che arriva dalla platea, il silenzio, sai che nel buio stanno aspettando te. È il terrore. Poi non vorresti uscirne».

Dov'era la noia in questo?
«In certe serate con otto spettatori per uno Schnitzler in piccoli teatri di provincia. Uno stratagemma era la versione Pendolino: il taglio di intere scene, lo spettacolo scendeva da due ore a 70 minuti. Oppure c'era l'attrice addetta allo svenimento. A un certo punto cadeva, fingeva di star male, sipario chiuso, signori scusate, spettacolo rinviato e s'andava a magna'».

Vede ancora quei compagni?
«Due o tre, gli altri non so dove siano. Da disoccupati, con Tullio Sorrentino costruivamo spettacoli e teatri nei garage, l'assegno ce lo portava l'assessore del paese. Camilleri ci fece quattro o cinque regie. In Accademia era stato mio insegnante, io gli leggevo gli incipit e lui indovinava i titoli dei libri. Ci siamo riabbracciati da Sellerio».

Lei scriveva già?
«Avevo iniziato, ma non credevo di essere all'altezza, se pensi a Bel Ami ti dici che non scriverai mai. Non facevo leggere niente a nessuno, neppure a Niccolò, dico Ammaniti, amico mio da trent'anni. Lo conobbi in casa della sua fidanzata, che era stata la mia ragazza. Un mese dopo eravamo fratelli. Un giorno diedi un monologo a Massimiliano Governi e lui disse: guarda che questo è un romanzo».

È più facile riconoscere uno scrittore bravo o un attore?
«Per un attore mi bastano 20 secondi. Se vedo lui e non il personaggio, non è bravo. È la grande differenza fra italiani e anglosassoni. Loro vengono da Shakespeare, noi dalla commedia dell'arte. Solo Volonté e Manfredi sono stati diversi. Per Schiavone mi hanno chiesto un parere. Giallini è bravo. Ha fatto una gavetta lunga e ora esplode. Non so come reagirà, bisogna avere spalle quadrate per reggere il successo».

Lei come fa?
«Io? Giallini non può andare nemmeno in pizzeria, io sì. Ho imparato a non prendermi sul serio in casa con mio padre, fra i libri di Calvino e Pavese. La scrittura mi ha regalato la libertà. A certi festival incrocio autori con una grande opinione di sé. Lì, per tre giorni, godono della fama che invidiano agli attori, i quali ne sono tartassati ma ne godono. Gli attori sono bimbi di sei anni. Li devi riempire di attenzioni o vanno in crisi».

Cos'altro faceva da ragazzo anziché leggere?
«Suonavo la batteria nei Six Days Later. Per darci un nome, aprimmo un libro su Dustin Hoffman e prendemmo le prime parole che trovammo. Fu un grande treno perduto. Un giorno ci scrivo un racconto. Eravamo cinque coglioni, facevamo la dance più dance degli anni 80. Siamo stati pure in un paio di programmi Rai che non citerò nemmeno sotto tortura, altrimenti escono le immagini».

Perché un treno perduto?
«Uno di noi emigrò a Londra per lavorare in albergo, si portò dietro le registrazioni dei pezzi. Finì in un giro assurdo, la sera telefonava ed era a una festa diversa, con George Michael, Boy George, i Kool & the Gang. Erano anni in cui s'andava in vacanza a Londra e si tornava con l'orecchino. Noi li portavamo con le piume, avevamo i capelli colorati. I provini arrivarono al produttore giusto: ci proposero di fare da spalla ai Then Jerico per un anno. Io mi ero iscritto all'Accademia, inventai problemi a una fantomatica nonna inglese per rinviare. Altri due della band non vollero partire per restare a fare i programmatori informatici. Non avremmo sfondato, ma ci saremmo divertiti. Magari ci ha fatto bene alla salute, ci saremmo drogati di qualsiasi cosa».

Questo casale, il teatro, i romanzi. Com'è star fuori dalla realtà?
«Dire parole a voce alta in una sala non è diverso che scriverne. È un salto nel vuoto. In fondo non ho fatto altro che campare di bugie. Ma la realtà bisogna andare a vederla. Uno scrittore non vive i drammi degli altri però deve conoscerli. Un autobus deve prenderlo. Molta narrativa italiana è invece ombelicale. Poteva andar bene per la generazione dei nostri nonni, che aveva biografie piene. Oggi la tua vita me la leggo se sei Bukowski o Amanda Lear».

Come dà i nomi ai personaggi?
«Sono di vecchi amici di papà o compagni delle elementari. Mi chiamano, protestano: perché m'hai fatto fare il figlio di puttana? Ora ho trovato su internet una lista di partecipanti a un'iniziativa politica del 2006. Un sacco di nomi fichissimi. Per un po' uso quelli».

Cosa sarà di lei e di Schiavone fra cinque anni?
«La serialità è insidiosa finanche in Simenon, ogni tanto bisogna prendere le distanze. Lo faccio e lo farò più spesso. Fra cinque anni spero di non essere caduto nella routine. Se ne sento la puzza, mollo tutto».

1 commento:

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