Era tutta colpa mia, io, Enrique Ballestrero, 25 anni, il portiere della Celeste, la nazionale di casa. Eravamo il primo Paese latino americano con il suffragio universale. Eravamo il primo Paese in cui i neri potevano giocare insieme ai bianchi, i figli degli spagnoli e i figli degli italiani, mentre Artur Friedenreich, figlio di un tedesco e di una donna africana, in Brasile era costretto a cospargersi il volto di polvere di riso per nascondere il colore della pelle. Eravamo i primi a ospitare la Coppa del mondo di calcio. E poi c'ero io. Intorno a me sapevano che sarebbe successo, sentivano che non sarei stato all'altezza della finale di un campionato del mondo, erano certi che li avrei traditi. Come poteva l'Uruguay vincere la prima coppa del mondo con un portiere che in nazionale non c'era stato mai? Quel portiere: io.
D'accordo, lo so, lo so, mancavano l'Inghilterra, l'Italia, l'Austria, la Spagna, l'Ungheria e la Cecoslovacchia. Tutte le più forti dell'epoca a parte noi. Lo so. E allora? Nel 1930 volevamo vincere lo stesso, quel Mondiale. Campeones, campeones: l'avremmo gridato uguale. Solo che a tutto c'è un limite, e il limite per loro ero io, adesso che l'Argentina era avanti 2-1 all'intervallo.
La loro sfiducia s'era incollata alla mia pelle. "Sarebbe stato meglio avere Andrés, lui sì che ci avrebbe fatti vincere". Era come sentire la voce dei loro pensieri. Andrés Mazzali, il titolare, uno vero. Il portiere che aveva trascinato l'Uruguay a due ori consecutivi alle Olimpiadi, qualche anno prima aveva persino vinto il titolo sudamericano dei 400 ostacoli. Altro che me. Solo che Alberto Suppicci, il nostro ct, un uomo scontroso, si era preso il lusso di passare alla storia come un sergente. Aveva beccato Mazzali che rientrava in ritiro di notte, in punta di piedi e con le scarpe in mano. Eravamo chiusi in quel maledetto albergo di Montevideo da 8 settimane e si scoppiava. Mazzali scappò, si fece scoprire. Disse che non ne poteva più di stare lontano dalla moglie. "Ma quale moglie" gli rispose Suppicci, e dalla moglie lo rispedì davvero. Via. Fuori dalla nazionale.
"Mister, e ora chi gioca?", gli chiesero. Mi parve la voce di Nasazzi. Nasazzi era enorme, pareva di roccia, aveva fatto il tagliatore di lastre di marmo. Quando parlava lui, si sentiva il rumore del silenzio.
"Gioca Ballestrero".
"Ballestrero chi?", fecero quelli della squadra.
"L'unico Ballestrero che c'è in mezzo a noi".
Io.
"Bello scherzo Suppicci", gli rispose Cea.
Pedro Cea. Si era guadagnato da vivere trasportando ghiaccio e più volte aveva rischiato di congelarsi le mani.
Ma Suppicci non scherzava.
Mazzali tornò a casa e in campo andai davvero io.
Nelle prime due partite me l'ero anche cavata. Con Perù e Romania senza prendere un gol. In semifinale con la Jugoslavia era stato tutto facile facile, 6-1, troppo forti noi. Ma la finale? I tifosi argentini erano arrivati a Montevideo con dieci battelli, galleggiando sul fiume marrone con la speranza nel cuore. I giornali uruguayani scrissero: Attenti, che nemmeno un revolver attraversi il confine. C'era nebbia, otto di quei dieci battelli sarebbero arrivati a partita già cominciata. Fortuna che l'arbitro viaggiasse sul primo. I calciatori argentini s'erano presentati in campo con uno spezzato grigio, come a un gala. Dicevano di avere appuntamento con la coppa.
I pensieri contrari dei miei compagni li colsi tutti. Uscii dallo spogliatoio e sulle scale sentii un mormorio. Era con me che ce l'avevano, e quella fu la scossa. Giocai un secondo tempo senza errori. Il resto lo fecero loro, i ragazzi della Celeste. Da 1-2 a 3-2. "La palla che rimbalzava senza fermarsi, come contro una parete" [1]. "Non ho più veduto una formazione capace di unire l’estetica e la
concretezza in quel modo" [2]. All'ultimo minuto vidi libero Cea e gli passai la palla, lui la diede a Castro e facemmo 4-2. Finita. Campioni. Al diavolo Mazzali, ditemelo adesso che era meglio lui. Due argentini raccontarono di minacce di morte subite prima della partita, l'Uruguay arrivò a a rompere le relazioni diplomatiche con il loro Paese. Che cos'è il calcio. Ma io ero campeón. Questo contava. Il treno era passato e c'ero salito io. Mazzali era rimasto con il biglietto in una mano e le scarpe nell'altra.
note
[1] Parole di Eduardo Galeano
[2] Frase attribuita a Santiago Bernabeu
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Tutta la serie "Il Giro dei Mondiali in 80 portieri"
La loro sfiducia s'era incollata alla mia pelle. "Sarebbe stato meglio avere Andrés, lui sì che ci avrebbe fatti vincere". Era come sentire la voce dei loro pensieri. Andrés Mazzali, il titolare, uno vero. Il portiere che aveva trascinato l'Uruguay a due ori consecutivi alle Olimpiadi, qualche anno prima aveva persino vinto il titolo sudamericano dei 400 ostacoli. Altro che me. Solo che Alberto Suppicci, il nostro ct, un uomo scontroso, si era preso il lusso di passare alla storia come un sergente. Aveva beccato Mazzali che rientrava in ritiro di notte, in punta di piedi e con le scarpe in mano. Eravamo chiusi in quel maledetto albergo di Montevideo da 8 settimane e si scoppiava. Mazzali scappò, si fece scoprire. Disse che non ne poteva più di stare lontano dalla moglie. "Ma quale moglie" gli rispose Suppicci, e dalla moglie lo rispedì davvero. Via. Fuori dalla nazionale.
"Mister, e ora chi gioca?", gli chiesero. Mi parve la voce di Nasazzi. Nasazzi era enorme, pareva di roccia, aveva fatto il tagliatore di lastre di marmo. Quando parlava lui, si sentiva il rumore del silenzio.
"Gioca Ballestrero".
"Ballestrero chi?", fecero quelli della squadra.
"L'unico Ballestrero che c'è in mezzo a noi".
Io.
"Bello scherzo Suppicci", gli rispose Cea.
Pedro Cea. Si era guadagnato da vivere trasportando ghiaccio e più volte aveva rischiato di congelarsi le mani.
Ma Suppicci non scherzava.
Mazzali tornò a casa e in campo andai davvero io.
Nelle prime due partite me l'ero anche cavata. Con Perù e Romania senza prendere un gol. In semifinale con la Jugoslavia era stato tutto facile facile, 6-1, troppo forti noi. Ma la finale? I tifosi argentini erano arrivati a Montevideo con dieci battelli, galleggiando sul fiume marrone con la speranza nel cuore. I giornali uruguayani scrissero: Attenti, che nemmeno un revolver attraversi il confine. C'era nebbia, otto di quei dieci battelli sarebbero arrivati a partita già cominciata. Fortuna che l'arbitro viaggiasse sul primo. I calciatori argentini s'erano presentati in campo con uno spezzato grigio, come a un gala. Dicevano di avere appuntamento con la coppa.
I pensieri contrari dei miei compagni li colsi tutti. Uscii dallo spogliatoio e sulle scale sentii un mormorio. Era con me che ce l'avevano, e quella fu la scossa. Giocai un secondo tempo senza errori. Il resto lo fecero loro, i ragazzi della Celeste. Da 1-2 a 3-2. "La palla che rimbalzava senza fermarsi, come contro una parete" [1]. "Non ho più veduto una formazione capace di unire l’estetica e la
concretezza in quel modo" [2]. All'ultimo minuto vidi libero Cea e gli passai la palla, lui la diede a Castro e facemmo 4-2. Finita. Campioni. Al diavolo Mazzali, ditemelo adesso che era meglio lui. Due argentini raccontarono di minacce di morte subite prima della partita, l'Uruguay arrivò a a rompere le relazioni diplomatiche con il loro Paese. Che cos'è il calcio. Ma io ero campeón. Questo contava. Il treno era passato e c'ero salito io. Mazzali era rimasto con il biglietto in una mano e le scarpe nell'altra.
note
[1] Parole di Eduardo Galeano
[2] Frase attribuita a Santiago Bernabeu
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