Quando il mondiale in Italia cominciò, c'era un ribelle in campo che avrebbe mormorato hijos de puta e un altro in panchina che aveva già detto tutto quello che doveva. Il primo aveva il numero 10, si chiamava Diego e urlava insulti a chi fischiava l'inno argentino. L'altro aveva il numero uno, giocava nel Camerun. Ero io.
All'ultimo momento avevano deciso di lasciarmi a riposo, dovevo essere l'erede di N'Kono e invece diventavo uno da tenere in panchina. Eppure gli avevo fatto vincere le ultime due coppe d'Africa. La mia colpa: essermi messo contro i senatori del gruppo, N'Kono appunto e poi Milla, loro, quelli che dettavano regole e formazione al ct, un russo che non parlava nemmeno una parola di francese, Nepomniaschi.
Trovavo molto bizzarro che una squadra, anzi un pezzo di squadra, potesse tenere al suo comando un allenatore muto, allora smisi di tacere io, dissi che i dirigenti erano deboli e che il calcio africano si trovava anni e anni dietro il resto del mondo. Il mio primo mondiale finì lì. A 36 anni poteva essere anche l'ultimo.
Ma ero il miglior portiere africano del secolo e quattro anni dopo avevo di nuovo il numero uno del Camerun dietro la maglia, stavolta negli Usa. Stessa maglia, stesso vizio. Il vizio di non tacere, di dare alle cose il loro nome. Dopo aver giocato contro Svezia e Brasile, il giorno prima della partita decisiva con la Russia, sentii che era giunto il momento di fare un nuovo discorsetto. Mi auguro di non dover essere più schierato in formazione, dissi, e considero conclusa qui la mia carriera. Senza di me il Camerun perse 6-1. Ero finito fuori per pressioni politiche. Direttamente di Paul Biya, si disse. Paul Biya era il presidente del Camerun. In carica dal 1982 ed è ancora là. Era sopravvissuto a un golpe nel 1984, poi avrebbe vinto le elezioni del '97 a cui l'opposizione non partecipò per protesta, ed è stato riconfermato nel 2004 per altri 7 anni con l'accusa di brogli. Poco dopo ha varato una riforma costituzionale per potersi ricandidare. Ha rivinto nel 2011. E' come se Graziani fosse ancora ancora il centravanti dell'Italia.
Ecco, fu Biya a non volermi in porta, erano i giorni in cui mi chiamavano il Mandela del Camerun. Il nostro calcio è malato perché la nostra società è malata. Credo che fosse necessario un disastro sportivo per sperare in qualche cambiamento, anche se si tratta di un'utopia. Ma qualcuno dovrà prima o poi cercare una cura, dovrà percorrere una strada nuova. La nostra vera rovina è la corruzione, presente a tutti i livelli nella società. Per questo non dovete fidarvi delle notizie che arriveranno dal Camerun nei prossimi giorni, così dissi a Mondiale americano ormai finito, perché l'informazione governativa è pilotata, da noi nessuno può esprimere liberamente il proprio pensiero. Diranno che è tutto tranquillo, che non esistono proteste ma non sarà vero, almeno non lo credo.
La nostra nazionale ha dimostrato al mondo intero che anche l'Africa poteva diventare grande nel calcio. Ma in pochi anni questo patrimonio è stato distrutto dai dirigenti corrotti, cioè da tutti gli uomini di potere che hanno usato lo sport per i loro interessi. Ero il sindacalista di una squadra andata al mondiale con due mesi di stipendi arretrati. Quando nel '94 in Usa le partite finirono, tutta la squadra sequestrò i dirigenti in albergo, bloccandone la partenza verso casa. Dicemmo: Prima si risolve la vertenza e poi si torna in Camerun. Ma quando rientrammo, scoprii che la mia casa a Douala non c'era più. Era stata incendiata.
(Come per l’intera serie, le parole liberamente attribuite a Joseph Antoine Bell sono state ricostruite attraverso libri, interviste e altre fonti storiche, e sono tutte ispirate a fatti realmente accaduti)
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