martedì 23 marzo 2010
La barriera di Adamache
E insomma ci rimasi male. Molto male. Avevo messo sei compagni in barriera e Pelé mi fece gol proprio da quella parte. Come farti sentire inetto. Rivelino prese la rincorsa e mi ricordai che nelle partite precedenti le punizioni le aveva calciate quasi sempre lui. Pelé gli aveva lasciato il pallone anche stavolta, glielo aveva lasciato un attimo prima, ma l'arbitro aveva deciso che il tiro fosse ripetuto. Stavolta allora succede che Rivelino allarga le gambe nel passare sulla palla, fa una finta, sa che dietro c'è Pelé che sta partendo. Infatti. Parte, tira e fa gol. Fa gol esattamente a me, il numero 21 della Romania. Mi chiamo Stere. Stere Adamache.
Mi chinai nella rete, presi la palla e tenendola in mano rimasi a fissare il Brasile che si abbracciava e la Romania che fissava me.
Colpa mia?
Ah, questa sarebbe colpa mia?
Se voi della barriera aveste rispettato la distanza, la punizione non sarebbe stata ripetuta.
Questo devo dirvelo.
Di questo dovremmo parlare.
Invece vi siete fatti avanti. Vi siete mangiati piano piano sempre un pochino di spazio in più, rubacchiandolo, senza neppure considerare che in realtà si trattava di una mancanza di fiducia in me. Il bisogno di un mezzuccio temendo che altrimenti...
Pelé calciò di potenza, sfruttando il buco che due suoi compagni avevano creato nel nostro muro abbassandosi all'ultimo istante. Assurdo. E quelli se la presero con me. Magari, gli dissi, pensate che è stata colpa mia pure il secondo gol di Jairzinho. Voi fate scappare Paulo Cesar a sinistra, gli fate fare quel che vuole, lui mette la palla in mezzo, Jairzinho ci arriva e alla fine sarebbe colpa mia. Due a zero in 21 minuti. Ventuno, come la mia maglia.
Che fosse solo colpa mia lo pensava sul serio Angelo Niculescu, il nostro allenatore ai Mondiali del '70. Si alza dalla panchina e mi fa un cenno con la mano.
"Vieni qui, Stere, vieni che sei nel panico, adesso tocca a Necula".
Necula Raducanu. Gli avevo tolto il posto da titolare proprio poco prima di partire per il Messico. Invece adesso le gerarchie cambiavano di nuovo.
Sono diventato così il primo portiere nella storia della coppa del mondo a essere sostituito dal mio vice in panchina, il primo a uscire non per un infortunio. Scelta tecnica.
Contro Inghilterra e Cecoslovacchia, le partite precedenti nel girone, non avevo giocato male: una sconfitta per 1-0 e una vittoria per 2-1. Però vennero quei 21 minuti col Brasile. Dissero che ero andato in confusione. Ed è finita lì. Dopo sarei tornato in nazionale una volta sola, qualche anno dopo.
Sono nato a Galati, la città del porto in cui sbarca il conte Dracula nella sua fuga verso la Transilvania. Lì ero diventato un piccolo eroe come portiere della squadra giovanile che aveva vinto il campionato prima di essere sciolta. Una decisione presa dal governo, così funzionava allora nel calcio rumeno. Ci divisero. Chi di qua, chi di là. Io finii a Brasov, per qualche anno chiamata Orasul Stalin, la città di Stalin. Andai a giocare con la Bandiera Rossa Brasov. Non proprio una squadra invincibile. Finimmo pure per retrocedere in serie B. Anche quella volta avevo ascoltato la stessa tesi. Colpa mia. Tutti a puntare il dito contro di me. Con l'accusa di bohemian life. La dolce vita. Tornammo in serie A in tempo per essere chiamato dalla nazionale e andare alla coppa del mondo del '70. Ero felice. Ero proprio felice. E invece successe quella cosa del panico.
Il giorno che preferisco ricordare è quello di Craiova-Brasov, campionato 1973. Il Craiova doveva batterci con tre gol di scarto per vincere il titolo. "Ehi Barone", mi fanno prima della partita, "Barone ci perdonerai: oggi ce ne bastano tre. Ma promesso che a tre ci fermiamo, okay?".
Mi chiamavano il Barone Nero perché i portieri ai miei tempi non si vestivano ancora di giallo, di verde, di rosso. E perché tra i pali mi muovevo con eleganza.
Non per cercare scuse, ma a noi del Brasov quel giorno mancavano cinque giocatori. "Barone, tu non metterci troppo la mano, garantito che a tre ci fermiamo".
Questo era il patto che mi offrivano. Ma il patto io non lo firmai. Ci sono giorni in cui l'orgoglio è più grande della vita che ti è toccata. Ricordai il Messico, e Rivelino, e Pelé, e Paulo Cesar, e Jairzinho, e Niculescu, e Raducanu. Nessuno avrebbe più dovuto accusarmi. Fece i miracoli quel giorno, il Barone. Parai anche col gomito. Tanto che il Craiova di gol ne segnò soltanto uno, il campionato lo vinse la Dinamo Bucarest.
Avevo trentasette anni, e avevo smesso di giocare da uno, il giorno in cui portai mia moglie in gita sul Danubio. In barca. Eravamo tornati insieme dopo un periodo in cui non facevamo che litigare. Le avevo preso dei fiori per farle una sorpresa, un mazzetto di non-ti-scordar-di-me raccolto poco lontano. Glielo diedi, le diedi anche un bacio e le dissi che avrei fatto un tuffo. Libero. Senza più pensieri. Io e lei di nuovo insieme. Che grande nuotatore ero. Mia moglie posò il mazzolino di fiori a poppa e si voltò verso l'acqua con l'aria felice che hanno le donne quando sono innamorate. Si sporse e mi vide con un braccio alzato verso il cielo, il gesto che noi portieri facciamo quando piazziamo la barriera. Pensò che la stessi salutando, o forse che stessi scherzando. Fino a quando il mio braccio sparì, non si vide più, e mia moglie capì che non di uno scherzo si trattava e nemmeno salutavo. Chiedevo aiuto. Ma era tardi. L'ho lasciata così, all'improvviso, sola con il suo rimorso. Scivolai sul fondo del Danubio e me ne andai. Chi disse per un infarto, chi per un attacco di panico.
(Come per l’intera serie, le parole liberamente attribuite a Stere Adamache sono state ricostruite attraverso libri, interviste e altre fonti storiche, e sono tutte ispirate a fatti realmente accaduti)
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