Con le mani aperte e questo mio cognome da semiologo strutturalista, mi lanciai sulla sinistra e respinsi il tiro. Senza far caso allo stile. Il grado zero della parata. L'ultimo tiro di Ronaldo, nei minuti di recupero, era anche il primo del Brasile in tutta la partita. Quarti di finale del 2006. E io lo presi, diventando il primo portiere nella storia della coppa del mondo a eliminare per due volte il Brasile. Il Brasile, eh, mica una squadra qualunque. Ma capita anche di presentarsi a una serata che ti aspetti possa diventare storica e scoprire dopo anni che non se la ricorda nessuno, perché dopo una serata splendida ce n'è sempre un'altra che conta di più.
Insomma. L'Italia. La finale. Non parai neppure un rigore agli azzurri e nessuno venne a poggiare le labbra sulla mia testa, la testa più baciata al mondo, il gesto che di solito faceva il mio vecchio amico Blanc.
Lo faceva ai mondiali, agli europei, a Manchester, in Champions League, mi aveva baciato così centinaia di volte, e in fondo furono quei baci a riportarmi in nazionale. Ne ero uscito l'anno prima. Dopo un'amichevole in Marocco. Un mio compagno di squadra del Marsiglia era stato espulso, allora corsi dall'arbitro e gli sputai addosso. Lo so, non si dovrebbe fare, e averi dovuto dirlo con chiarezza, soprattutto ai più giovani. Ma non volli scusarmi, sostenni anche che non ce fosse bisogno. L'ho preso sulla maglia, dissi, mica in faccia. Mi squalificarono per tre mesi, la federazione francese protestò. Non perché volesse vedermi assolto.Protestò perché tre erano pochi, dovete dargliene sei. Succede che quelli rivedono il verdetto e davvero me ne danno sei. Fine della corsa. In nazionale al posto mio ci andò Coupet, e Coupet giocò bene. Benissimo. Perfetto. Fino ai mondiali. Quando la vecchia guardia campione del mondo del '98 disse all'allenatore Domenech che loro in porta si sentivano più sicuri con questo povero vecchio amico. Io. Fabien Barthez. Volevano me. La Divin Chauve. Frammenti di un calcio amoroso.
Ho sempre fumato di nascosto. Durante la partita, certe volte, mi capitava di perdermi con lo sguardo nel vuoto, dietro il pensiero di mia madre ammalata. Per tanti ero Barthez il Clown, quello che andava a nuotare coi delfini. Ero il portiere pagato 25 miliardi di lire e poi cacciato via dal Manchester per le mie follie: come incrociare le mani dietro la schiena e di nascosto mostrare il dito medio ai tifosi avversari. Il portiere cacciato per le troppe papere: un supermercato arrivò ad offrirmi il ruolo di testimonial per una marca di burro, tanto erano diventate scivolose le mie mani. Via, Barthez, vattene via. Cacciato pure per le mie superstizioni. Mettevo gli slip rossi, che cosa ci posso fare, io sono convinto che gli slip rossi portino fortuna. In nazionale mi facevo tagliare le maniche della maglia - rigorosamente la numero 16 - da un altro portiere. Un portiere di palazzo, dico, uno che Platini fece diventare magazziniere della squadra, tale Diamantino Faria. Sembra un nome inventato da Borges e un personaggio partorito da Garcia Màrquez, un tizio scappato dalla dittatura portoghese per non fare il militare nelle colonie. A Parigi lavorava come imbianchino.
Qualcuno scrisse che tra i calciatori brutti ero il più bello del mondo. Definizione che mi piaceva da morire. Stavo con Linda Evangelista, la modella, da cui venni mollato forse perché Manchester non è Los Angeles, ma alla fine ho sposato Ophelie Winter, la cantante, l'ex compagna di Prince che una volta raccontò: "Ho scoperto Dio nelle 500 notti bollenti passate con lui". Intendiamoci. Lui non ero io, lui era Prince. Ma anch'io avevo una discreta fama di playboy. Marc Dorcel, il re del porno francese, venne a offrirmi una parte in un film. Mi sono state attribuite relazioni con Stephanie e Carolina di Monaco, lasciavo dire, alle donne - si sa - piacciono gli uomini che sanno farle ridere, anche se poi sono bravissime a sposare quelli che le faranno piangere. Il punto è che non riesco a stare concentrato per molto tempo. Quand'ero a Montecarlo, mi accusarono di aver venduto una partita. Che scemenza. Tutto per via di un bacio dato all'allenatore avversario. Il solito bacio che mi perseguita. Tante volte ho lasciato e tante volte sono tornato. Dopo l'ultimo mondiale dissi che il mio grande desiderio sarebbe stato chiudere nel Tolosa, la mia prima squadra, la città di mia madre ammalata. Ma il Tolosa non mi volle, boh, certa gente è strana. La vita è fatta di piccole solitudini, come diceva Roland Barthes.
(Come per l’intera serie, le parole liberamente attribuite a Fabien Barthez sono state ricostruite attraverso libri, interviste e altre fonti storiche, e sono tutte ispirate a fatti realmente accaduti)
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