Mi dissero Vai tu, che in porta copri tutto lo spazio. Ero il più grasso del gruppo, gli amici ridevano, mi prendevano in giro. Antoni el gordito. Ma quando sei nato a Vila de Gràcia, l’anima di Barcellona, di certe cose impari a ridere. Altrimenti non sarei diventato Antoni Ramallets, il gatto del Maracanã.Che poi questo Maracanã non è niente di speciale. Non c’è stadio che lo sia. Dico all’interno. Sono tutti uguali. La stessa erba, le stesse porte, le stesse righe sul campo. Inizia la partita e ti dimentichi del mondo. Tanto le cose vanno sempre in un modo soltanto, se sei un avversario la gente ti fischia, dopo un po’ ti abitui. Per me semmai era più difficile giocare a Barcellona, in casa. Ogni partita un dominio, dovevo solo pregare di essere pronto quelle due-tre volte che arrivava un tiro.
In Sudamerica c’ero già stato. In Perù, in Colombia, ma in Brasile mai. A quindici anni lavoravo alla Casacuberta, una fabbrica tessile. Mi davano duecento pesetas al mese e un posto da portiere nella squadra del Racing de Guinardò. Era l’epoca in cui ai difensori si diceva di buttare via la palla, forte, più forte che potessero, tu buttala via e dopo se ne parla. Ho iniziato che in difesa stavano due terzini, ho finito che davanti a me ce n’erano cinque. Hanno trasformato un gioco d’attacco in uno di difesa. Colpa degli inglesi e degli italiani. Ma io non ho mai creduto alla tattica. Conosco solo due modi di giocare a calcio. O si gioca bene o si gioca male.
Mi convocarono all’ultimo istante, nel ’50 avevo giocato un grandissimo campionato. La mia è stata un’epoca di grandissimi portieri. Velasco, Eizaguirre, Carmelo, Lezama, Bañon, ma pure Bustos, Martorell, Trias. Il mio modello era Velasco, un maestro, a lui nel Barcellona avevo fatto da riserva, dovettero mandarmi in prestito al Real Valladolid. Forse non gli avrei mai tolto il posto, se un giorno contro il Celta non avesse subito il distacco della retina. In nazionale il titolare era Ignacio Eizaguirre, io ero il terzo pure dietro Acuña. Ma Eizaguirre in Brasile non era sereno, stava trattando con il Valencia il rinnovo del contratto, l’accordo non si trovava, lo chiamavano ribelle. Vincemmo 3-1 all’esordio contro gli Stati Uniti, a Curitiba, tre gol segnati tutti nell’ultimo quarto d’ora, una gran fatica, uno spavento, dopo averne subito uno al 15esimo minuto. Pure il ct si chiamava Eizaguirre, Guillermo, ma non erano parenti, anzi, uno era basco, l’altro andaluso. Era stato portiere anche lui, ai suoi tempi. L’epoca di Zamora. Si consultò con i suoi aiutanti e decise di cambiare. La stampa fece pressioni, i giornalisti scrissero che era arrivato il mio momento. E il mio momento fu.
Il Maracanã era mezzo vuoto quando battemmo 2-0 il Cile, ma tre giorni dopo c’erano 75mila persone per la nostra sfida ai maestri inglesi. E' una partita che resta legata al nome di Telmo Zarraonaindia, detto Zarra. Un ragazzo timido, ma molto molto intelligente. In Spagna si diceva che fosse la migliore testa d’Europa dopo Churchill. Quando segnò il gol della vittoria contro gli inglesi, suo padre stava giocando a carte in un bar. Gli diedero la notizia, e lui senza neppure staccare gli occhi dal quattro di bastoni rispose Ah sì, non sapevo neppure che mio figlio fosse un calciatore. Zarra. E poi io. Quella è stata la volta in cui sono diventato el gato del Maracanã. Matìas Prats alla radio disse che sembravo un gatto con le ali, già con il Cile avevo fatto una parata di petto volando in orizzontale all’altezza della traversa. Antonio Valencia, grande firma di Marca, scrisse che ero la reincarnazione di Zamora. E Zamora ci rimase male. Perché era ancora vivo. Il disegnatore Valentì Castanys nelle sue vignette cominciò a mettermi delle ali dietro la schiena. Ma soprattutto, a fine partita, si avvicinò il portiere inglese Williams. Change, diceva, change. Voleva scambiare i guanti. Solo che io non li portavo. Ho sempre giocato a mani nude. Lui si stupì, Come sarebbe a dire che non porti i guanti? Non li porto, non ce li ho. Allora ci scambiammo una stretta di mano, che detto fra di noi è ancora più bella di un paio di guanti.
Di me dicevano che avessi uno specchio e un pettine vicino a un palo, per controllare se dopo ogni parata i capelli fossero ancora a posto. La gente parla, la gente parla troppo. Mi piaceva essere in ordine, questo sì. Mi piaceva essere bello, mi piacevano le donne, e comunque i capelli me li facevo toccare solo da mia sorella e dalla mia nipotina. Un giorno mi spedirono dall’estero una lettera. Al posto dell’indirizzo c’era scritto Ramallets-España, e il disegno di una porta. Arrivò. Sono stato il portiere del Barcellona de las Cinco Copas, stagione 1951/52: Liga, Coppa di Spagna, Coppa Latina, Coppa Eva Duarte e Coppa Martini Rossi. Maledetto Guardiola che mi hai tolto il record. Nel ’58 in panchina al Barcellona arriva Helenio Herrera. Mi prende in disparte e mi fa: Alcuni dirigenti che non hanno alcuna idea di cosa sia il calcio mi hanno detto che dobbiamo cercare un portiere, che stai diventando vecchio, cosa devo rispondergli? Rispondigli che è vero, gli dico, rispondigli che non hanno idea di cosa sia il calcio. Herrera aveva un foglietto in tasca con i nomi di quattro portieri, lo strappò davanti a me. Che uomo che era. Quando negli spogliatoi dava la formazione, impostava la voce e annunciava: “Numero uno, como siempre”. Come sempre. Non diceva neppure Ramallets. Comosiempre ero io, diventò il mio secondo cognome. Fui tra i primi a sapere che stava andando all’Inter. Me lo confessò perché voleva che lo seguissi in Italia. Era un sogno. Avere tutta quella fiducia, dico. HH diceva alla squadra: voi segnate un gol, poi ci pensa Antoni. Ma non mi sarei mosso da Barcellona neppure in sogno. Volevo dare tutta la mia vita a una squadra sola, non come Zamora, che aveva finito per giocare anche con il Real Madrid.
La Spagna chiuse al quarto posto quei Mondiali del ’50, io non arrivai fino in fondo. Contro l’Uruguay avevo preso un colpo da Schiaffino, se fossero già esistiti i cartellini gli avrebbero dato il giallo, il rosso, il verde e il blu tutti insieme. Adesso i portieri usano respingere con i pugni, io avevo l’abitudine di bloccare la palla all’altezza dello stomaco. Ci scontrammo. Provai a resistere, facemmo 2-2 e la partita successiva ne presi 6 dal Brasile. Non ho mai fatto molte storie per andare in campo. A La Coruña giocai con il dito medio rotto, me lo legarono all’anulare con un cerotto, e parai anche un rigore. Ma quella volta ai Mondiali davvero non mi reggevo più in piedi, l’ultima con la Svezia toccò di nuovo a Eizaguirre. Ancora mi devono 35 mila pesetas di premio per quel Mondiale, una volta ho chiamato in federazione per domandare. Nessuno ne sapeva niente. Il tempo è volato. In un istante mi sono ritrovato al 31 maggio del ’61, per tutti c’è prima o poi un 31 maggio. A Berna giocai la finale di Coppa dei Campioni con il mio Barcellona. Io capitano. E poi Kubala, Kocsis, Czibor. I fuoriusciti di Ungheria. E Suarez. Ed Evaristo. Uno squadrone. Ma vinsero loro. Perché io fui un disastro. Segnarono tre gol con 4 tiri in porta, noi prendemmo due pali, che quel giorno sembravano quadrati.
Era il momento di smettere. La partita dell’addio fu contro l’Amburgo, tirai fuori una parata straordinaria su Uwe Seeler e tutti a dirmi Resta, vai avanti ancora un po’. Era tardi. Avevo deciso. Meglio così. Ho continuato a lavorare come funzionario di banca. La gente entrava con la scusa di piccole operazioni o per chiedere un’informazione, poi si tratteneva a parlare con me. Del Barcellona, del Maracanã, del nuovo calcio. Non so dire chi fosse più contento, se loro o io. Ho trascorso i miei giorni da pensionato leggendo e scrivendo. Volevo tenermi informato, la tv non mi piaceva. Ogni mattina andavo a passeggio nel paese e compravo La Vanguardia, il giornale che leggeva mio padre. E’ stato magnifico ricevere da Casillas la sua maglia firmata. Un bel gesto, che caro ragazzo. Se il voto dei portieri va da 1 a 10, Casillas vale 9 e 99. Victor Valdes vale 9 e 98. Io valevo mille.
Antoni Ramallets è morto il 30 luglio 2013. Il Barcellona ha giocato con il lutto al braccio in amichevole contro il Legia.
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