giovedì 2 gennaio 2014

Zamora, il divino che fece paura al duce


Ne ho visti tanti di bambini giocare per la strada. Andavano in porta e fingevano di essere me. Beati loro, io da bambino volevo essere un altro. A Calle Diputación, la via alla periferia di Barcellona in cui abitavo, ai miei tempi si rincorreva una palla di stracci. Un giorno mandai il mio piede a sbattere contro una pietra, a casa non raccontai niente per tre giorni, il piede si riempì di pus, il dottor Raventós che era il nostro vicino dovette intervenire. “Non voglio giocare mai più a pallone”, piagnucolai allora con mio padre, medico pure lui, lavorava alla Plaza de Toros. Ne fu felicissimo. Sognava che lo avrei seguito, che sarei diventato dottore anch'io. Eravamo una famiglia agiata, mio nonno capitano di una nave della compagnia Mac Andrews, mia madre veniva da Valencia. Studiavo e mi tenevo in forma con la boxe, il nuoto, l’atletica, la pelota, ma in testa avevo solo il calcio. Un amico di famiglia mi presentò alle giovanili del Canigó, fu lì che mi trasformarono in un portiere. Sembravo più grande degli anni che avevo: solo 14 quando don José María Tallada mi portò all'Espanyol e 15 quando debuttai a Madrid. Viaggiai con i pantaloni corti. Finì 1-1. Un giornale scrisse: “In campo c’era un ragazzino che si chiama Zamora. Ha giocato come si potrebbe bere un bicchier d'acqua”. Ricardo Zamora, io.

Per tutti sono diventato il grande Zamora alle Olimpiadi del ‘20, dopo l’1-0 contro la Danimarca vennero ad abbracciarmi persino i miei avversari. Pochissimi mi hanno visto giocare, tutti mi conoscono. Il progresso della fotografia dava spazio alle imprese degli sportivi, sulle copertine dei settimanali mettevano noi portieri. Quella volta che con l’Espanyol andammo in turnée in America, rimasi per cinque partite di fila senza prendere gol: una rivista offrì un premio per battermi. Dovemmo spostarci da Santiago a Mendoza, il mal tempo aveva interrotto le corse ferroviarie, gli aerei non volavano, così attraversammo le Ande tra l’Argentina e il Cile a dorso di un mulo. Arrivammo al primo rifugio e spuntò un bambino con la mia foto tratta da un giornale: "Ehi Zamora me la firmi?".

La gente diceva: non esistono che due portieri, San Pietro in cielo e Zamora sulla terra. Il Divino, mi chiamavano così. Mi piaceva entrare nelle chiese, guardare Cristo con le braccia spalancate, sembrava un portiere anche lui, fermo, immobile a parare i peccati del mondo. C’è stato un tempo, poco dopo la guerra, in cui tutti quelli che avevano giocato a calcio raccontavano la stessa storia: si vantavano di aver fatto gol a Zamora. Chi in campionato, chi in Coppa, chi in una delle infinite esibizioni che le mie squadre accettavano di giocare per far soldi con me. A dar retta a quelli, sarei il portiere che ha preso più gol al mondo. Invece ne prendevo pochi e paravo come nessuno. Paravo anche con il gomito, con l’avambraccio, un gesto che oggi si chiama la “zamorana”. Una volta arrivo a Calella per una partita, la città era piena di mie fotografie. Un vecchio si avvicina, mi tocca e mi fa: “Ma sei uguale agli altri”. Certo. Uguale. Di carne e di ossa. Solo più bravo. Uscivo anche con i piedi fuori area. Gli attaccanti misero in giro la voce che li ipnotizzassi. Macché. Erano loro che avanzando verso la porta pensavano: me la prende, me la prende, e io gliela prendevo.

Ginocchiere, cavigliere, parastinchi, il maglione con lo scollo a polo, il cappello grigio di pezza per ripararmi dal sole e dal fango. Ho inventato un nuovo look. Mi lanciavo sui piedi degli attaccanti, si alzava polvere e dalla polvere uscivo con la palla tra la mani. Quando nel ’29 battemmo l’Inghilterra avevo lo sterno rotto, nel ’34 facemmo tremare l’Italia al Mondiale in casa sua. Quarti di finale, 1-1 dopo i supplementari, all'epoca non c’erano i rigori, peccato, altrimenti li avrei presi tutti e l’Italia non avrebbe vinto il suo Mondiale. Si dovette rigiocare la partita. Il giorno dopo. Eravamo distrutti. L’Italia cambiò 4 giocatori, noi sette. Compreso me. Misero in giro la voce che fosse stato il Duce a spaventarmi. Falso. Ero io che avevo spaventato lui, chiedetelo a Baloncieri, chiedete se ricorda il mio coraggio, il colpo al petto che prese scontrandosi con me. E sulla mia rinuncia pensatela come volete. Le mie idee politiche non le ha mai conosciute nessuno. Ho giocato per il Barcellona senza proclamarmi catalanista, mi comprò il Madrid per 150mila pesetas e al mio arrivo alla stazione dovetti tenere un discorso. Dissi: "Finalmente sono in un posto dove il pubblico capisce di calcio". A Barcellona non la presero bene. Per questo quando me li ritrovai di fronte, nella finale di Coppa del ’36, mi tirarono addosso una bottiglia. Io feci una parata su Escolà negli ultimi minuti di cui ancora si parla in Spagna, 2-1 per noi, la mia ultima partita. I giornali qualche mese dopo scrissero che mi avevano trovato ucciso in un fossato di Madrid. Omicidio politico. Addirittura. I repubblicani mi avevano premiato, passavo per uno di sinistra, anche se di politica non ho parlato mai. Ero spagnolo, tutto qui. Soprattutto ero vivo. I militari mi trovarono e mi arrestarono, nella prigione di Modelo giocavo a calcio con i carcerieri, fino al giorno in cui scappai.

Ho fatto l’allenatore, ho scritto per giornali, ho recitato nel film “Finalmente si sposa Zamora” con Emilia Donnay. Celia Gómez, la star dell'epoca, cantava: "Mama mama ascoltami, voglio essere della squadra di Zamora". Nei negozi si vendeva l'anice Zamora. Ma ho sbagliato con mio figlio, lo chiamai come me. Ricardo. Ho sbagliato a non dirgli di lasciar perdere il calcio, volle giocare in porta, è arrivato in serie A, immaginate con quale peso addosso. Il peso del mio nome, il nome del Divino. Dicono che sono stato il Pelé dei portieri. Andateci piano. Sono venuto prima io. Semmai è stato Pelé lo Zamora degli attaccanti.

"In un Paese di lotte, di angustie, di frustrazioni,

il calcio fu un raggio di luce, e Zamora più di tutti" 
(La Vanguardia)

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