mercoledì 15 gennaio 2014

Madejski, arrestato da nazisti e comunisti

Edward_Madejski4Quando presi sei gol dal Brasile, credetti di poterla chiamare umiliazione. Mi sbagliavo. Fu chiaro il giorno in cui bussarono alla mia porta di casa, la Gestapo era venuta ad arrestarmi. Vennero a prendermi perché giocavo a calcio, questa era la mia colpa. Io, Edward Madejski, portiere della nazionale polacca, titolare ai Mondiali del '38. Era rimasta la mia sola squadra. Quella che amavo più di tutte, quella per cui avevo giocato cinque anni, il Wisla di Cracovia, mi aveva allontanato per aver preso le difese del mio amico Łyko, Antoni Andrzej Łyko. Una sera se n'era andato al bar ed era tornato a casa alle 4 del mattino, i dirigenti lo avevano sorpreso, eravamo alla vigilia di una partita di campionato. Lo sospesero, giustamente, ma a me non andò giù il modo in cui lo trattarono, non furono belle le parole usate.


Chi sbaglia si punisce, non si umilia.  Se non gioca Łyko, intervenni, non gioco neanche io. Lo stesso fece Alojzy Sitko. Restammo fuori in tre. Ma quando dopo la partita Antoni venne perdonato, io rimasi ancora ai margini. Non c'era più posto. Ero stato il più amato dalla gente, ma finiva così. Mi accordai con il Garbarnia, altra squadra della città, e fu uno scandalo: la federcalcio bloccò il trasferimento per un anno, li scongiurai almeno di non togliermi il posto in nazionale. E andai ai Mondiali. Conveniva a tutti. Quei Mondiali per noi sono la storia di una partita sola, eppure non c'è polacco che non la ricordi. Ottavi di finale, stade de la Meinau a Strasburgo, il 5 giugno. Noi contro il Brasile. Dopo la pioggia, avevano rimesso a posto il campo solo per modo di dire. Loro dovettero cambiare la maglia, il giallo si confondeva con il nostro bianco. Dopo 18 minuti appena mi fece gol Leonidas, pam, palla all'incrocio dei pali. Tutti trattavano Leonidas come se fosse stato un dio, lo chiamavano Diamante, il diamante nero. Di lui si diceva che avesse inventato la rovesciata, la bicicleta. Ma se Leonidas era un dio, cosa si dovrebbe raccontare di Ernst Wilimowski? Un fenomeno, aveva sei dita al piede destro, ci scherzava, giurava di essere immarcabile per quello. Si diceva slesiano, né polacco né tedesco, perché era nato a Katowice. L'1-1 lo inventò lui da solo. Prese la palla, saltò tre brasiliani, l'ultimo si aggrappò ai suoi fianchi e lo tirò giù. Il rigore lo segnò Fryderyk Scherfke, ma all'intervallo andammo che eravamo sotto per 3-1. Wilimowski era il cognome del suo patrigno, il suo papà era morto nella Grande guerra, la madre si era risposata. Ernst faceva fatica a sapere chi sentirsi, ma se gli davi il pallone sapeva benissimo dove metterlo. Tornammo in campo e fece altri due gol, cominciammo a crederci, prima che Peració segnasse il 4-3 per il Brasile. Ci guardammo, Ernst disse Andiamo a farne un altro, e fu così. Ovviamente ci pensò lui, 4-4 a un minuto dalla fine, tripletta sua, supplementari. Quando si parla di Italia-Germania del '70, si dimentica Brasile-Polonia del '38. Leonidas allora si scatenò, arrivò a sua volta alla tripletta, 6-4 per il Brasile. Il diamante. Ma il primo dei due gol era irregolare, credetemi, lo segnò scalzo, senza scarpetta al piede destro, l'arbitro non se ne accorse. Noi tornammo a guardarci, Ernst disse Andiamo a farne ancora due. Esagerava. Segnò il suo quarto gol personale al 118', sul 6-5 ci lanciammo in attacco per l'ultimo sforzo. In caso di pareggio, la partita si sarebbe dovuta ripetere quattro giorni dopo, come accadde a Cuba-Romania e Germania-Svizzera. Andammo vicinissimi all'impresa, all'ultimo istante Nyc colpì la traversa, Batatais si era disteso senza arrivarci. Brasile ai quarti contro la Cecoslovacchia, noi a casa. A me era parsa un'umiliazione, a Varsavia invece ci accolsero da eroi. Avevamo dato tutto, ecco cosa contava.
 I miei mi avevano fatto studiare, avevo una laurea in chimica. Ho cominciato a giocare in porta a 17 anni, non arrivavo a un metro e 80, ma avevo gran riflessi. Era una delle frasi più frequenti sui giornali dell'epoca. Anche all'estero. Quando nel '36 battemmo i londinesi del Chelsea, scrissero che ero stato perfetto, "lode piena, tanto da meritare un'incredibile tempesta di applausi". La tempesta vera stava arrivando. Quando l'anno dopo i Mondiali Hitler invase la Polonia, ogni attività sportiva nel mio Paese venne vietata. Ma se lo sport era illegale, se il calcio era illegale, era diventata illegale la mia vita. Una persona che avevo conosciuto facendo dei piccoli lavori per l'esercito, mi sussurrò all'orecchio che da qualche parte, di nascosto, si giocavano tornei di calcio clandestini. Non bisognava farsi scoprire dai tedeschi, noi non ci riuscimmo. Vennero a prendermi dopo aver catturato altri compagni, mi chiusero nel braccio della morte del carcere di Stanisławowo, un villaggio della Gmina Zbójna, a nord est. Ci sono rimasto qualche mese, finché disposero il trasferimento a Montelupich, una delle prigioni naziste più temute. Bastò sentirne il nome per sapere cosa dovevo provare a fare. Servivano coraggio e fortuna, io potevo mettere solo il primo. Durante il viaggio riuscii a scappare.  Ho camminato giorni e giorni per rifugiarmi a Limanowa, ma appena possibile raggiunsi Varsavia. Per un solo motivo. Avevo saputo che le partite di calcio clandestino continuavano lì. E continuai anch'io. Lontano dalla mia linea di porta non sapevo stare. Dai miei vecchi compagni di squadra arrivavano notizie terribili. Wilimowski aveva potuto continuare a giocare a calcio nelle squadre tedesche, era slesiano, aveva ottenuto la cittadinanza ed era diventato agente di polizia. Ma dovette cominciare presto a nascondersi dai nazisti, sua madre fu deportata in un campo di concentramento per una relazione con un ebreo. Seppi che Ernst alla fine era riuscita a salvarla grazie alla sua amicizia con Hermann Graf, uno dei più celebri aviatori della Germania. Non si è salvato Antoni, il mio amico Antoni Łyko, arrestato per le strade di Cracovia, trasferito ad Auschwitz e ammazzato nel giugno del '41. E il nostro allenatore Marian Spoida fu una delle vittime del massacro nella foresta di Katyń. Quando la guerra finì, ricominciai a giocare ancora un po' con il Polonia Bytom, poi ripresi a studiare. Il mondo stava riprendendo a girare, il mio si fermò di nuovo nel '56. Avevo 42 anni. Stavolta alla porta di casa venne a bussare la polizia comunista. Ero stato il calciatore polacco che si era opposto ai nazisti in maniera più aperta e fiera. In Polonia stava cominciando la destalinizzazione con il ritorno al potere di Władysław Gomułka, ma per me non c'era più gioia.  Mi accusarono di essere una spia. La cella in cui mi chiusero aveva mura umide, quando pioveva sentivo fin dentro il cervello il fetore dell'acqua marcia. Traditore. Io che volevo essere un patriota. Per tre anni non ho visto la mia famiglia, abbandonato anche da loro, rinchiuso dentro uno spazio dieci volte più piccolo di un'area di rigore. Umiliato. Senza diritti civili. E per trovare la forza di sentirmi vivo, la notte sognavo Leonidas e i sei gol presi quella volta in Francia dal Brasile. Sono uscito nel '59, tre anni più tardi, le accuse contro di me erano state ritirate, o forse dovrei dire cadute. Mi scagionarono completamente, si scusarono, troppo tardi perché io potessi riprendermi i miei giorni, la mia salute, il piacere di stare con i miei, ormai definitivamente perduti. Quando sono uscito dalla mia seconda prigione, volevo solo dimenticare l'amarezza che per più di mezzo secolo ha falsificato la storia e soprattutto la mia vita.

Edward Dominik Jerzy Madejski è morto nel febbraio del 1996 ed è sepolto al cimitero Rakowicki

(Come per tutta la serie, le parole liberamente attribuite a Edward Madejski sono ricostruite su fonti storiche e ispirate a fatti realmente accaduti)

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