Guardavo in alto e credevo di poterlo trovare lì, sentivo che sarebbe apparso a dirmi cosa fare. Nessuno era più bravo di me. Solo Valerio. Se ci fosse stato lui, non ci sarei stato io. E’ morto in cielo Valerio Bacigalupo. Con tutto il Torino. E ai Mondiali del ’50 al posto suo, un anno dopo, sono andato io. Giuseppe Moro, detto Bepi.
Facemmo il viaggio verso il Brasile in nave, per tutto il calcio italiano Superga era dolore e sgomento. I nostri più forti non c’erano più, la nazionale non c’era più. Con quelli di adesso ci avrebbero fatto merenda. Avevamo giocato interi campionati sotto le bombe durante la guerra, ma adesso ci terrorizzava prendere un aereo. Papa Pio XII ci diede la benedizione al Vaticano, salutammo il presidente Einaudi al Quirinale, portammo una corona al Flaminio per i caduti di Superga e ci mettemmo in treno per Napoli. Lì ci imbarcammo, al porto di Mergellina, la folla chiedeva gli autografi. Il sindaco ci regalò dei ciondoli, corni gobbetti e ferri di cavallo: dovevano portarci fortuna per il viaggio. Prendemmo con noi anche due caffettiere napoletane, Pandolfini cantava ed eravamo felici. Stavamo andando ai Mondiali, tutto era bello, il molo di Napoli ci sembrava New York.
Ferruccio Novo, uno dei responsabili della commissione tecnica, si prese l’influenza e non riuscì a imbarcarsi con noi. La federazione dispose che prendesse l’aereo nei giorni successivi, lui che era stato il presidente del Torino. Si era salvato dalla tragedia del 4 maggio '49 perché aveva avuto la febbre pure quella volta. La Sises non era una grande nave, per quello ballammo al passaggio fra Corsica e Sardegna. Ci allenavamo al piano superiore, sotto stavano gli emigranti. Povera gente, non poteva neanche venire su a vederci, non glielo consentivano. Facemmo una sosta a Las Palmas, Canarie, così potemmo giocare una partita d’allenamento fra di noi. Io con i titolari, Casari con le riserve, l’altro portiere Sentimenti IV all’ala. Parola impazzì perché Cappello segnò una cosa come tre o quattro gol, il nostro capo fece scrivere ai giornali che eravamo in grande forma, che i Mondiali avrebbe potuto vincerli pure Cappello da solo. In realtà facevamo ridere, quella partita fu uno schifo.
La nostra preparazione fu tutta lì, quindici giorni di tiri e palleggi sulla nave, l’Oceano Atlantico ci faceva da culla. Tante volte il pallone saltava e finiva in acqua, qualcuno lo lanciammo di proposito ai delfini che ci seguivano, pensate uno come me che viene da Carbonera, Treviso, e si trova a vedere i delfini nell’Oceano. Per il resto si leggeva, si giocava a ping pong e negli ultimi giorni si mangiava solo, il mal di mare non consentiva altro. Di notte parlavamo alle onde. Arrivammo a Rio senza più un pallone, c'era il relitto di una nave in una insenatura, due segni infausti, a saperli leggere. Sbarcammo al porto di Santos e proseguimmo per San Paolo. L’hotel era in pieno centro, fra il caos e i locali notturni. Eravamo tre in ogni stanza, diciannovesimo e ventesimo piano, ma scoprimmo che in stanza i letti erano due, la prima notte qualcuno si arrangiò sui divani. I dirigenti non sedevano mai a tavola con noi, eravamo soli, stanchi per il lungo viaggio, l'unica nazionale a essere giunta in Brasile con la nave. Ma nello stesso hotel alloggiava una compagnia di ballerine argentine. Una notte Pandolfini mi aiutò a calarmi con le lenzuola dalla finestra. Avevo voglia di vedere qualcosa, di vedere qualcuno, il massimo che la federazione ci aveva concesso era stata la visita a un rettilario.
Il Mondiale andò come andò, diciamo la verità, andò come doveva. L’Italia, campione in carica per 12 anni a causa della guerra, usciva al primo turno. L’India si era ritirata per non aver ottenuto l’autorizzazione a giocare scalzi. Restammo in tre nel girone, perciò fu fatale la sconfitta all’esordio con la Svezia e il loro pareggio successivo con il Paraguay. In porta aveva giocato Sentimenti, si dice per pressioni da Torino. La seconda partita, ormai già ininfluente, toccò a me. Allo stadio Pacaembu battemmo 2-0 il Paraguay, ma eravamo comunque a casa, qualcuno disse Al ritorno meglio prendere l’aereo.
Valerio diceva che il pallone è un nemico che non deve entrare in casa. Perché scelsero proprio me per mettere la sua maglia, questo non l'ho capito. Io non mi sono mai sentito alla sua altezza. C’eravamo incontrati dieci giorni prima che morisse. Bari-Torino, sestultima di campionato. Finì 1-1. Io feci la mia solita partita appariscente. Poi loro giocarono ancora in trasferta, Inter-Torino 0-0, e sono convinto che se il Torino avesse perso, il campionato si sarebbe riaperto, e forse quella maledetta amichevole con il Benfica non sarebbero andati mai a giocarla. Allora non avrebbero chiamato me nell’estate del ’49 a mettere la maglia granata con il numero 1 di Valerio, non avrebbero portato me in Brasile, con tutti quei sospetti che mi hanno circondato.
Ho parato nella mia vita 46 rigori su 63. Sapevo come innervosire gli attaccanti, li provocavo, loro mettevano la palla sul dischetto e io gli facevo il burattino, mi muovevo cioè come un pupazzo per fargli perdere la concentrazione. Se la facevano addosso ancora prima di tirare, se avevano me di fronte. Ma non ho mai saputo parare una cattiveria sul mio conto. Ho sopportato che mi dessero del matto perché mi disinteressavo della partita e mi calavo a raccogliere il berretto perduto nelle uscite. Ho sopportato che mi chiamassero vanitoso perché mi ero fatto crescere il ciuffo alla John Wayne. Ero uno spregiudicato azionista di me stesso, questo arrivarono a scrivere di me. Ho cambiato dieci squadre, inseguito dalle voci di chi diceva che mi vendessi le partite. Le mie indecisioni e le mie debolezze non contavano, erano una colpa. Mi aveva capito Silvio Piola. Una volta disse che era impressionato dalla sicurezza con cui sbagliavo. Senza la mia insolenza, non sarei sopravvissuto alle mie papere. Quello erano. Papere. Uscivo con la testa dalla partita, vagabondavo, come se all'improvviso in porta non ci fossi. I miei errori non erano mai banali, banali erano le insinuazioni negli occhi di chi guardava.
Tutto è cominciato quando ero al Treviso, alla vigilia di una partita con la Lucchese. I miei avversari si fecero vivi offrendomi un ingaggio per l’anno venturo, Olivieri mi stimava. Mi offrirono un premio di centomila lire, un anticipo sul nuovo contratto, ma diventò l’acconto del mio disonore. I miei compagni seppero dell’incontro, si sparse la voce che avevo venduto la partita. Quando per davvero la perdemmo, dopo anni di imbattibilità in casa, il cerchio si chiuse. In quel momento e per sempre. Mi hanno accusato a Firenze perché contro la Juve feci scivolare un pallone in porta, e tutti sapevano quanto fossi juventino, quanto desiderassi giocare per loro. Mi hanno accusato al Torino perché la notte prima di una partita con la Pro Patria mi videro uscire di notte dal ritiro. Mi offrirono dei soldi, sì, per combinare Bari-Torino. La prima volta 600mila lire e rifiutai, la seconda un milione, li presi e mi pentii, li riconsegnai dopo la partita, dalla quale nel frattempo avevo chiesto di essere esentato. E poi le stesse voci a Genova, a Lucca, a Roma. Vivevo dentro un incubo. Quelli che volevano truccare le partite, credevano di poter avvicinare me. Così mi sono scoperto in compagnia di un pensiero, la tentazione di spararmi, di farla finita. Io dovevo morire, non Valerio.
A Roma mi sono rovinato fra night e poker. Il calcio mi aveva emarginato. Sono andato a vendere caramelle, a fare il rappresentante di dolci, a lavorare in una fabbrica di scarpe. Quando mi offrirono un contratto da allenatore in Tunisia, mi precipitai, tanto non mi pareva vero. Al ritorno mi presentai alla redazione del Corriere dello sport per raccontare ad Antonio Ghirelli tutta la mia vita disperata. Ne parlai con il giornalista Mario Pennacchia, pure del modo in cui venivano truccate le partite negli anni ’50. Ma io ho parato due rigori a Liedholm in un anno, questo non potrà togliermelo nessuno. Il pallone è un nemico, aveva ragione Valerio, e troppe volte è entrato in casa mia.
Bepi Moro è morto nel gennaio del 1974 senza mai riuscire a giocare nella Juventus.
Pensieri e parole liberamente attribuite a Moro sono stati ricostruiti attraverso interviste e articoli, e ispirate a fatti realmente accaduti.
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Ho parato nella mia vita 46 rigori su 63. Sapevo come innervosire gli attaccanti, li provocavo, loro mettevano la palla sul dischetto e io gli facevo il burattino, mi muovevo cioè come un pupazzo per fargli perdere la concentrazione. Se la facevano addosso ancora prima di tirare, se avevano me di fronte. Ma non ho mai saputo parare una cattiveria sul mio conto. Ho sopportato che mi dessero del matto perché mi disinteressavo della partita e mi calavo a raccogliere il berretto perduto nelle uscite. Ho sopportato che mi chiamassero vanitoso perché mi ero fatto crescere il ciuffo alla John Wayne. Ero uno spregiudicato azionista di me stesso, questo arrivarono a scrivere di me. Ho cambiato dieci squadre, inseguito dalle voci di chi diceva che mi vendessi le partite. Le mie indecisioni e le mie debolezze non contavano, erano una colpa. Mi aveva capito Silvio Piola. Una volta disse che era impressionato dalla sicurezza con cui sbagliavo. Senza la mia insolenza, non sarei sopravvissuto alle mie papere. Quello erano. Papere. Uscivo con la testa dalla partita, vagabondavo, come se all'improvviso in porta non ci fossi. I miei errori non erano mai banali, banali erano le insinuazioni negli occhi di chi guardava.
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