È stato un altro O Rei senza volerlo, quarto figlio di donna Elisa e di Laurindo Antònio da Silva Ferreira, angolano, bianco, ex centravanti e poi lavoratore in ferrovia. Desiderava soltanto giocare per la squadra di cui era tifoso papà, morto di tetano quando lui era bambino: il Deportivo Lourenço Marques, succursale coloniale e lontana del Benfica. Quando andarono a vederlo, lo bocciarono: era piccolo e sporco. Quell'allenatore, passò poco tempo, venne licenziato. Il provino invece andò bene con i rivali dello Sporting de Lourenço Marques, filiale a sua volta dello Sporting Lisbona. Eusebio non ne voleva sapere. Era il club dell'élite e della polizia, non amavano i ragazzi di colore. «O prendete tutti i miei amici o non vengo». Fu la sua idea per farsi dire di no. Li presero. Segno che su un campo di calcio gli sarebbe riuscito tutto.
Tutto. Fino all'ultimo istante. Per questo il Portogallo adesso piange il migliore e proclama tre giorni di lutto nazionale. Eusebio è morto all'alba di ieri nella sua casa, 71 anni, una crisi cardio-respiratoria, lottava contro le conseguenze di un ictus che lo aveva colpito nel 2012 in Polonia, era con la nazionale. Oggi il funerale, poco distante dallo stadio Da Luz, dove all'ingresso c'è una sua statua. «Amerò il Mozambico finché vivo, ma il Portogallo è il posto in cui sono diventato uomo, dove sono nate le mie figlie». Per diventare uomo dovette fingersi donna. Salì su un aereo per Lisbona sotto falso nome, la signora Ruth Malosso era lui, formidabile attaccante di cui dall'Africa era giunta voce. Lo Sporting vantava dei diritti, il Benfica si era mosso prima, facendo firmare una carta alla madre. Andarono a prenderlo di nascosto e nascosto lo tennero per un po' , si disse in un villaggio di pescatori dell' Algarve. «I soldi erano in banca, se non mi fossi ambientato mia madre li avrebbe restituiti».
Eusebio si ambientò con 462 gol in 437 partite, per tre volte ne segnò sei in una partita sola, 11 scudetti in 15 anni, una Coppa dei Campioni più due finali, un Pallone e due Scarpe d'oro. Il lunedì, al Benfica, si andava al cinema tutti insieme in tram. Ai più anziani Eusebio non dava neppure del tu: signor Coluña, può passarmi la palla? Simoes era «il mio gemello bianco». Eppure d'oro non lo ricoprirono mai. Ci provò l'Inter con qualcosa di simile a un contratto. «Avrei guadagnato più in un anno a Milano che in 4 a Lisbona». Era il 1966 e le frontiere si serrarono per la vergogna mondiale con la Corea. Quella Corea che nei quarti di finale era avanti 3-0 con il Portogallo e venne poi battuta 5-3: quattro gol suoi, più l'azione del rigore del 4-3 che ancora proiettano alla scuola calcio dell'Ajax. Eusebio parte da metà campo, 16 tocchi di palla, destro, sinistro, esterno, interno, dribbling, un tunnel, la palla a 20 centimetri dal piede, sembra ci sia la colla. Lo fermano facendolo volare.
A metà anni Sessanta i giornali si chiedevano chi fosse il più grande. Eusebio o Pelé. Soprattutto dopo Portogallo-Brasile 3-1. Un dualismo di cui s'è persa la memoria. Come se nel 2063 nessuno ricordasse più quanto Ronaldo sia oggi vicino a Messi. Un giornalista inglese lo battezzò la "Pantera nera", soprannome che si tenne anche quando non gli piacque più, gli ricordava il '68 americano. Pazienza, O Rei e "Perla nera" nel frattempo erano di Pelé. Era stato il regime di Salazar in realtà a tenerlo inchiodato in patria. Fado, futebol e Fatima erano le tre F simbolo del Paese, e il futebol era lui, nonostante sei operazioni al ginocchio sinistro. Potente, velocissimo. «Peccato non aver mai saputo in quanto corressi i 100 metri». Moderno. «Con i palloni e le scarpe di oggi segnerei di più».
Secondo Galeano aveva lo sguardo triste, per Brera era un abatone. Amava il jazz e la cucina. Inventò la carne alla Eusebio: salsa di lumache, patate, cipolla e pomodori. Quando cadde il regime, scelse un tramonto nel calcio indoor degli Usa. Tra un contratto e l'altro tornava in Portogallo, il 5 gennaio '77 persino da avversario del suo Benfica, con la maglia del Beira-Mar. Prima di entrare in campo va dal suo allenatore e lo avverte: «Oggi la palla la passo sempre, non farò gol al mio Benfica». A Boston invece, dove era numerosa la comunità portoghese, un gol lo fece ai Cosmos di Pelé. L'ultimo atto dell' inseguimento. O Rei, d'accordo. Ma lui è stato Eusebio.
(Repubblica, 6 gennaio 2014)
Nessun commento:
Posta un commento